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martedì 12 febbraio 2013

Million dollar baby

Regia: Clint Eastwood
Origine: USA
Anno: 2004
Durata: 132'



La trama (con parole mie): Frankie Dunn è un allenatore di boxe veterano di centinaia di combattimenti vissuti accanto ai suoi atleti, ai quali insegna come fosse un padre a proteggersi sempre, perchè dato che la vita è tosta ed il pugilato un'espressione "al contrario" della stessa, occorre tenere la guardia alta prima di ritrovarsi con il culo al tappeto.
Accanto al fido Scrap l'uomo conduce la sua palestra con piglio burbero ed una curiosa affezione per il gaelico, mentre attende che un giorno la figlia, da tempo lontana, possa rispondere ad almeno una delle sue lettere destinate a tornare sempre al mittente.
Quando Maggie Fitzgerald, venuta dal profondo Missouri, si presenta alla sua porta chiedendo di essere allenata, Frankie rifiuta fermamente: ma la determinazione della donna li porterà a costruire un rapporto che andrà ben oltre i successi sul quadrato, e darà ad entrambi la possibilità di vivere il legame tra padre e figlia che hanno perduto.




Nella penombra della stanza di una clinica, con un peso sul cuore che probabilmente nessuno di noi vorrebbe mai essere costretto a portare, il vecchio Frankie Dunn rivela alla sua protetta, la boxeur Maggie Fitzgerald, il significato della parola gaelica divenuta il soprannome della ragazza nel corso della sua breve ma folgorante carriera: Mokusha.
Lo fa con un groppo in gola a soffocare le lacrime, prima di spiegare quello che sta per fare, augurarle una buonanotte eterna che seppellirà anche lui in qualche posto tra il nulla e l'addio.
E' questa scena il punto focale di uno dei più grandi film sulla boxe, sull'amore che lega padri e figli, sulla lotta che è questa vita mai girato, uno dei vertici assoluti della straordinaria carriera da regista di Clint Eastwood, il manifesto di uno struggimento che fa il paio con quello di un'altra pellicola fondamentale per la Storia del Cinema, Città amara di John Huston, uno dei grandi ispiratori dell'ex "spietato" che lo stesso omaggiò in Cacciatore bianco cuore nero: Millon dollar baby è una parabola sul prezzo da pagare per cercare di arrivare ad ottenere qualcosa, sull'importanza del "proteggersi sempre" e sulle contraddizioni che la vita riserva, proprio come il pugilato, che prevede spesso e volentieri che i suoi combattenti corrano incontro alla ragione e all'istinto per poter portare un colpo vincente o evitare quello del KO.
Le vite di Frankie, Maggie, Scrap e Danger sono così: una lotta continua, una battaglia ai margini che permette di osservare le luci ed i grattacieli della grande città solo da lontano, da quella via secondaria dove pare quasi sdraiata la palestra che vede iniziare il cammino di una giovane donna venuta dalla campagna verso un sogno inseguito tutta la vita, quello di battersi e liberarsi di ogni suo demone.
Il demone di un padre morto troppo presto, di una famiglia che Famiglia non è, di un destino da cameriera e avanzi lasciati dai clienti del ristorante, di un fallimento che pare scritto a chiare lettere, marchiato a fuoco sulla sua pelle, nella sua anima.
Maggie che ama stenderli tutti al primo round, che va dritta per la sua strada anche di fronte ai rifiuti di Frank, alle parole di chi non crede in lei, all'età che avanza e che spesso e volentieri significa l'abbandono dei sogni di gloria per ogni sportivo.
Maggie che non è solo cuore, "perchè un pugile solo cuore le prende, e di brutto", e che ha nella determinazione e nella predisposizione al duro lavoro le risorse che il tempo ed il talento possono averle negato.
Maggie che è il riscatto di Frankie, che porta nel cuore la colpa della separazione dalla figlia ormai praticamente sconosciuta, che mostra a Scrap le luci della ribalta che il vecchio ex pugile mezzo cieco non ha mai avuto occasione di avere puntate addosso nel corso dei suoi centonove - anzi, centodieci - incontri, che da un senso allo scombinato sogno di Danger di battere, un giorno, un campione ritiratosi da anni.
Maggie che è il simbolo di una volontà tutta umana di vivere e battersi dal primo all'ultimo giorno, e non mollare neppure di fronte al match che tutti, prima o poi, siamo destinati a perdere: quello con la morte.
Maggie che non affronta questa sfida con la paura del conto di dieci, ma che alza gli occhi e chiede aiuto a Frankie "e non a Dio": perchè quando senti il tuo sogno realizzarsi e l'esistenza prendere un senso, è impossibile tornare indietro e scomparire lentamente perdendo se stessi e tutto quello che si era guadagnato con sudore e sofferenza.
Ed è lì che torniamo, a Mokusha.
A Frankie in quella stanza, che spiega a Maggie cosa accadrà, come arriverà la pace che lei ha chiesto, l'ultimo ed estremo sacrificio che un padre potrebbe fare in nome dell'amore per sua figlia.
Proteggerla lasciandola andare, scegliendo di portare un fardello che, Fede oppure no, è destinato a schiacciare ogni Uomo del mondo, anche il più tosto, ruvido e cattivo.
Il fardello che porta in quei posti "persi tra il nulla e l'addio", dove neppure la più gustosa tra le torte con la crema di limone fatta in casa potrà riportarci indietro alla vita, e al mestiere più duro cui la stessa può metterci di fronte: quello di essere padri che vogliono proteggere i loro figli.
E potrei parlare del rigore della regia di Eastwood, delle interpretazioni pazzesche dei tre protagonisti, della fotografia magistrale firmata da Tom Stern e dello script perfetto di Paul Haggis - che da regista non riuscirà più a trovare lo stesso stato di grazia -, del fatto che la pellicola sia stata girata in trentasette giorni - una cosa da fantascienza -, del climax emotivo che parte come una pacca sulla spalla e finisce tra le lacrime - come accadrà anche con un altro Capolavoro del vecchio Clint di qualche anno dopo, Gran Torino -: ma poi torno con la mente a quella stanza, a Frankie che soffoca il pianto e a Maggie che sferra l'ultimo colpo. Quello del KO.
Perchè è così che le piace fare. Stenderli tutti al primo round.
Mokusha.
E non serve nient'altro.


MrFord


"I stand in front of you
I'll take the force of the blow
protection
I stand in front of you
I'll take the force of the blow
protection."
Massive attack - "Protection" -



martedì 14 giugno 2011

Kill me please

La trama (con parole mie): perduta tra i monti di una vallata belga, isolata dalla civiltà che la rifiuta, esiste una clinica, tenuta dall'equilibrato Dr. Krueger, in cui è possibile alloggiare se e solo se lo stesso dottore accetta la richiesta del potenziale paziente di ricevere la "dolce morte".
Sia giustificata da malattia, disagio mentale o sociale, problemi economici o chissà cos'altro, la motivazione dovrà essere solida, e lo stesso titolare della clinica si impegnerà fino all'ultimo affinchè il paziente possa decidere di ripensarci, e tornare a vivere la sua vita.
Tutto scorre tranquillamente, e perfino l'agente della guardia di finanza inviata per controllare che Krueger non costringa i suoi pazienti a pagare per il servizio pare cominciare ad integrarsi nella geografia curiosa degli abitanti temporanei del luogo, fino a quando un commando di uomini che rifiutano l'idea di un luogo di questo genere non decide di assaltare la clinica in modo da non risparmiare nessuno: staff, direttore e pazienti.

L'eutanasia è un tema molto, molto difficile da affrontare.
O perlomeno, lo è affrontarlo nel modo giusto.
Che poi, probabilmente, un modo giusto non c'è, a meno che per giusto non s'intenda trattarlo con rispetto ed equilibrio, senza perbenismi, filippiche religiose o prese di posizione pretestuose da una parte o dall'altra.
Ricordo, ad esempio, la morale fin troppo pesante di Mare dentro rispetto allo struggente dramma di Million dollar baby, per citare due esempi più che noti usciti qualche anno fa praticamente in contemporanea.
Kill me please, questa curiosa, estremamente autoriale eppure clamorosamente leggera commedia nera, non si pone obiettivi alti come i due titoli appena citati, eppure analizza da un punto di vista tutto sommato nuovo uno dei grandi temi da dibattito degli ultimi anni, ed uno dei diritti che dovrebbe essere ufficializzato alla facciazza della sempre troppo ingombrante - almeno in Italia - chiesa cattolica.
Così come in Mammuth, assistiamo ad un crescendo non sempre - anzi, spesso affatto - giustificato razionalmente, eppure incredibilmente acuto e, a tratti, irresistibilmente geniale - la sequenza nel bosco che vede protagonisti Vidal, il canadese e l'ispettrice della guardia di finanza è a dir poco clamorosa -, divertito e divertente eppure velato da una profonda vena di malinconia, fotografato benissimo - mi ha ricordato addirittura le opere incredibili di Bela Tarr - ed in grado di suscitare riflessioni nate dal contrasto e dai comportamenti dei personaggi: il desiderio di farla finita che, di fronte alla minaccia del commando esterno, muta in alcuni casi in un rinnovato ardore per la vita, così come nel sogno di quella fine che si era desiderata - rappresentata dal personaggio di Virgile, tra i più controversi e profondi del curioso parterre degli ospiti della clinica -.
Lo stesso Krueger, controllato e razionale direttore, a fronte dell'assalto assume connotati completamente nuovi, e regala, nel suo monologo di chiusura, una delle sequenze più nere che il Cinema recente mi abbia regalato: l'interpretazione dell'eutanasia come risparmio di profitti perduti da parte dello Stato - motivo per il quale la clinica si scopre sovvenzionata dal governo -, con tanto di dati e numeri snocciolati neanche fossimo nel bel mezzo di una riunione di marketing è da brividi, nonchè in grado di mettere in ombra tutti i significati e gli atteggiamenti "illuminati" che prevedono i trattamenti della clinica.
Una pellicola forse non completa e risolta a fondo - tutto considerato, l'autore si sarebbe potuto concedere qualche minuto in più -, eppure sottilmente potente, in grado di parlare a differenti tipologie di pubblico, con più di un picco intriso di quell'imprevedibile visionarietà tipica del grottesco - scomodando paragoni importanti direi in pieno, irriverente stile Bunuel - in grado di lasciare senza parole, in bilico tra una lacrima e una risata.
Ma in fondo, la vita - e la sua fine - funzionano proprio così.


MrFord


"Strumming my pain with his fingers,
singing my life with his words,
killing me softly with his song,
killing me softly with his song,
telling my whole life with his words,
killing me softly with his song."
Fugees - "Killing me softly" -

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