E' sempre brutto rimanere delusi approcciando una pellicola.
Di norma, è una sensazione anche peggiore rispetto a quella di aver appena finito di guardare un film di merda, di quelli che senza dubbio non torneranno mai più a far parte della nostra vita, se non negli incubi cinematografici peggiori.
Una delusione è qualcosa di subdolo, sotterraneo, che quando meno te lo aspetti esce fuori e trasforma una potenziale serata di goduria in una noia mortale che vorresti lasciarti alle spalle il prima possibile.
The Devil's Candy, incensato quasi ovunque nella blogosfera e soprattutto da persone che ho sempre considerato autorità del Cinema di paura, firmato dallo stesso Sean Byrne del dal sottoscritto amatissimo The Loved Ones di qualche anno fa, atteso come uno di quei metal horror da volume al massimo, sangue a fiumi e terrore pronto a colpire si è rivelato, fatta eccezione per la buona prova di Ethan Embry - che avevo già apprezzato nell'apprezzatissimo Cheap Thrills -, davvero robetta, poco coeso ed incisivo in fase di scrittura, lento nel ritmo, incapace di trovare una linea guida che desse un senso all'intera operazione, che non si capisce se voglia essere inserita nel filone "satanista" del genere, in quello prettamente thriller, oppure cercare nella caotica follia dello psicopatico Ray una sorta di richiamo alla realtà che vede, a volte, menti decisamente contorte muoversi senza un criterio apparente nel mondo, mietendo vittime scelte in base a qualcosa di "oltre" - una cosa che potrebbe richiamare l'operato del Figlio di Sam, per intenderci -.
Un vero peccato per il sottoscritto, che da Byrne si aspettava qualcosa di potente almeno quanto l'esordio, e per la pellicola stessa, che invece di puntare esclusivamente sui legami forti della famiglia Hellman - una cosa rarissima quella di un rapporto, peraltro cementato da gusti musicali comuni, tra un padre ed una figlia adolescente - e sulla loro progressiva lotta per la sopravvivenza, preferisce inserire elementi apparentemente disturbanti come le voci che perseguitano Ray così come Jesse Hellman, l'inutile sottotrama - peraltro sviluppata superficialmente - della galleria d'arte "demoniaca" e passaggi legati alla follia dello stesso Ray che non si comprende bene dove si collochino tra realtà di narrazione e visioni del charachter.
L'impressione, qui in casa Ford, è stata quella di un tentativo clamorosamente fallito di portare sullo schermo la mitologia dell'horror disturbante degli anni settanta neanche fossimo all'interno di uno dei peggiori lavori di Rob Zombie: il fatto è che ai tempi, con il Vietnam a pesare sulle spalle degli States e la ferita aperta dei massacri della Manson Family, alcune suggestioni potevano anche funzionare, mentre ora, se mal gestite, paiono solo inutilmente provocatorie.
La mossa migliore, e questo va riconosciuto a Byrne, è quella di mantenere un discreto realismo nella parte più violenta della pellicola - soprattutto nel confronto tra Ray e gli Hellman nel finale -, in cui non abbiamo, almeno fino all'incendio, scene clamorose che non troverebbero riscontro nella realtà neanche per caso: in questo senso, la lotta sull'ingresso della magione tra l'invasore e Jesse funziona molto bene, dai proiettili sparati a vuoto e a caso da parte di qualcuno non abituato ad usare la pistola alla forza della disperazione che interviene nel momento in cui è in gioco la sopravvivenza propria e di chi si ama.
Troppo poco, però, per poter anche solo pensare di perdonare tutti i limiti - finale compreso - di una pellicola che risulta, purtroppo, molto wannabe cult, ma che dei cult veri, soprattutto quelli che l'hanno ispirata, non ha davvero nulla.
MrFord