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martedì 30 novembre 2010

Mister hula hoop

Se la memoria non m'inganna, Mister hula hoop era l'ultimo dei film targati Coen Brothers a mancare alla mia lista: complici, infatti, una distribuzione non eccelsa - è uscito in dvd soltanto poco tempo fa - e mancati passaggi in una tv che seguo sempre meno, questa fiaba che mescola sentimentalismo e commedia, critica al potere e humour nerissimo firmata a sei mani dai terribili fratelli e Sam Raimi non era mai passata sugli schermi di casa Ford.
Mescolando abilmente La vita è meravigliosa di Capra alla visionarietà del Gilliam di Brazil - pur non raggiungendone gli stessi livelli - i Coen confezionano un giocattolo funzionale ed accattivante, ricco di citazioni e divertissements, interpretato ottimamente da Tim Robbins e Paul Newman, che nell'insolito - per lui - ruolo di "cattivo" sfodera un carisma quasi superiore a quanto normalmente ci abbia abituati nei panni dell'eroe.
Tutto questo tenendo abilmente in secondo piano rispetto alla trama l'amarissima riflessione sul potere e la corruzione che deriva dallo stesso, sia esso economico, lavorativo, d'informazione o, più semplicemente, umano nelle sue applicazioni e ripercussioni: artefice di questa sottile linea parallela alla principale è senz'altro Sam Raimi, la cui mano si nota nelle parti più oscure e fantasy della pellicola, e non soltanto dall'impiego del sempre grande Bruce Campbell, attore più che feticcio del creatore de La casa.
Seppur non ai livelli delle loro opere più complete, Mister hula hoop si inserisce alla perfezione nel percorso compiuto dai Coen con Arizona junior e Barton Fink nell'applicazione del grottesco a vicende che, sulla carta, devono molto al noir e al classico Cinema d'intrigo anni cinquanta e sessanta, alleggerendone i carichi con dosi massicce di ironia, situazioni e personaggi al limite dell'idiozia - protagonisti inclusi -, in una sorta di preparazione a quello che sarà la sintesi perfetta de Il grande Lebowski.
Una sorta di Candido di Voltaire in versione allucinogena e allucinata, in qualche modo.
Certo, Mister hula hoop manca della risata dirompente di Arizona junior e della complessità di temi di Barton Fink, ma come ogni giusta via di mezzo che si rispetti, invita alla riflessione senza che la stessa pesi eccessivamente sulla visione di un pubblico più ampio di quello cui pellicole come questa parrebbero rivolgersi.
il tutto per non citare scene d'antologia come il tentato suicidio fermato dal plexiglass e senza neppure farsi cullare troppo dalla confortante voce narrante che tanto mi ha ricordato l'amato Straniero lebowskiano, ma più semplicemente lasciandosi affascinare dalle immagini da studio - in pieno stile "golden age" - di questo meraviglioso, notturno ed invernale 1958 e lasciare che riflessioni, spunti, sottili risate e un pò di malinconia sedimentino sul fondo, in attesa di diventare qualcosa di più grande.
Con i Coen ha funzionato, eccome.
Non vedo perchè non possa godere dello stesso incantesimo anche io.


MrFord


"We're all gonna be geniuses
we're all gonna be famous
we're all get in the tv business
and move up to New York who can blame us."
T-Bone Burnett - "Hula hoop" -

Irvin Kershner (1923 - 2010)

So long, Jedi.


MrFord


"Grande guerriero? Guerra non fa nessuno grande." 
Da "L'impero colpisce ancora", 1980

Mario Monicelli (1915 - 2010)

So long, Maestro.

MrFord

"Io restai lì a chiedermi se l'imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, se l'era lui che la pigliava tutta come una condanna ai lavori forzati, o se l'eravamo tutt'e due."
Da "Amici miei", 1975

lunedì 29 novembre 2010

Leslie Nielsen (1926 - 2010)

So long, Drebin.

MrFord

"Se io vedo cinque strani individui in toga che pugnalano un uomo nel bel mezzo di un palco davanti a centinaia di persone, li faccio fuori questi bastardi! Questa è la mia linea politica."
"Quella era la compagnia Shakespeare nel parco che aveva messo in scena il Giulio Cesare, imbecille! Lei ha ucciso cinque attori, persino bravi!"
Da "Una pallottola spuntata", 1988

Benvenuti al Sud

Devo ammettere di essere sempre stato un esterofilo, quando si trattava di viaggi, Cinema o Musica: forse perchè affascinato da culture che mi parevano lontane e dunque in qualche modo "stupefacenti", forse perchè guidato dal pensiero che, di certo, quello che si ha a portata di mano si potrà sempre recuperare, prima o poi, mentre è meglio sbattersi subito per andare il più lontano possibile, forse per trovare il confronto con dimensioni e realtà che difficilmente si incontreranno di nuovo una volta tornati.
Questo non significa che, negli anni, non abbia imparato a conoscere ed apprezzare i nostri prodotti, dalla Sambuca al calcio, da Fellini - ad oggi uno dei dieci registi più grandi della Storia del Cinema, a mio parere - a DeAndrè - stesso discorso, ma riferito ai cantautori -, da Verga e Calvino a Romanzo Criminale.
Tuttavia, sono sempre stato tendenzialmente refrattario a concedermi un pò di sano Cinema italiota, vuoi per la repulsione assoluta per il fenomeno agghiacciante dei cinepanettoni, vuoi per una sorta di snobismo radical chic per il quale dovrei prendermi selvaggiamente a bottigliate in testa: così, quando si tratta di scegliere una pellicola, soprattutto d'intrattenimento, tendo a prediligere la tamarrata all'americana, l'horror splatterone o le arti marziali per poter liberare il cervello dopo il fantastico relax del weekend e non pensare ad una nuova settimana lavorativa nel periodo peggiore dell'anno - per chi, come me e Julez, naviga nel mare grosso del commerciale -.
A volte, come in questo caso, sbagliando.
Perchè Benvenuti al Sud, remake del fortunatissimo Giù al Nord di Danny Boon, non solo è leggero e simpatico quanto basta, ma porta a casa il risultato senza darsi un tono eccessivo - anche perchè non se lo potrebbe permettere - e divertendo il pubblico sfruttando, tutto sommato, luoghi comuni ormai arcinoti dalla Milano da bere alla bella Napoli: eppure, senza pretese alte, tutto funziona, e anche nei momenti di concessioni troppo ampie della sceneggiatura - la farsesca eppure divertentissima messa in scena degli abitanti di Castellabate per la moglie del Direttore Colombo in visita da Usmate, piena Brianza - l'ironia diretta ai punti di vista "estremi" di Nord e Sud riesce a rendere piacevole la visione, permettendo qualche sana risata, buoni sentimenti - mai eccessivi - e una visione d'intrattenimento che, se non sarà tamarra come usualmente piace al sottoscritto, riempie la serata e non annoia, specie se, effettivamente, si ha l'occasione di concedersi qualche presa per il culo anche rispetto alle proprie origini e radici - curioso rivedersi in qualche modo in quei "pirla" scagliati contro Bisio o nella nebbia della Pianura Padana così come nelle traduzioni dal dialetto napoletano ad opera di Julez -.
Il tutto, ben consci del fatto che, quando si finisce in un posto e si scopre di potersi ancora stupire, ritrovare, incontrare persone che ci accolgono e ci presentano un nuovo aspetto di noi, si finisce per piangere "all'arrivo, e alla partenza".
E' l'esperienza, in fondo.
L'esperienza che cambia con la Storia e le culture, ma che, quando è genuina, supera il pregiudizio - e gli eventuali contrattempi - con l'ironia.
In fondo, qualche tempo fa, un certo signor De Curtis mostrò a tutta l'Italia - e non solo - quanto la risata fosse importante, nella vita.
Del resto, ne era il Principe.


MrFord


"O mia bela Madunina che te brillet de lontan
tuta d'ora e piscinina, ti te dominet Milan."


"Ma n'atu sole cchiù bello, oi nè
'O sole mio sta 'nfronte a te!"


"O mia bela Madunina" - Canzone popolare
"O sole mio" - Enrico Caruso 

domenica 28 novembre 2010

Cattivissimo me

Avete presente quando, parlando di qualcosa, dite la fatidica parola magica che condanna la cosa stessa al terribile limbo dei dimenticabili?
Immagino sappiate già quale sia, quel fatidico abracadabra al contrario, e che tutti, e più volte nel corso della vostra vita, l'abbiate pronunciato con quell'intento, ma una volta in più o una in meno non farà certo differenza, specie se riferito ad un film che passa e va senza lasciare quasi per nulla il segno.
Cattivissimo me è carino.
Ora che la leggete tremate, non è vero!?
Quante volte vi sarà capitato di pronunciarla, o peggio, di sentirla pronunciare indirizzata a voi?
Quando un film è "carino", come questo, tutto lascia presupporre che vederlo, oppure no, non cambierà praticamente di nulla la vostra esistenza di spettatori e persone, e più che qualche risata buttata lì, o ricordi vaghi, non resterà altro segno del suo passaggio.
Ennesima dimostrazione di quanto la Pixar e Miyazaki siano anni e anni luce avanti alla maggior parte di tutte le altre case di produzione che si dedicano all'animazione, Cattivissimo me presenta le caratteristiche opposte ai prodotti dei suddetti Maestri: trailer accattivante e pellicola che, al decimo minuto, risulta già essere alla canna del gas.
Gag telefonatissime, personaggi simpatici ma privi di spessore - se si esclude Vector, vero mattatore dei novanta minuti scarsi del film -, un tentativo di coinvolgimento emotivo che mescola - o vorrebbe mescolare, nei suoi sogni più arditi- Monsters&Co. e Up!, uno svolgimento che non prevede, perchè tanto è un film d'animazione, giustificazioni sensate degli sviluppi della trama a scapito delle risate riferite alla singola scena.
Peccato davvero, perchè le potenzialità, almeno sulla carta, c'erano tutte, e come Dragon trainer dimostra, è possibile realizzare anche un film d'animazione divertente e dalla struttura solida anche all'esterno della realtà Pixar, concentrandosi su di esso come se fosse un lavoro complesso e stratificato - e un film lo è, cartone animato oppure no -, anche se apparentemente semplice, invece che una sequela di scenette incastrate fra loro da un pretesto qualsiasi e spesso inconsistente.
E osservare il "cattivissimo" protagonista abbandonarsi alle fiabe della buonanotte praticamente da subito - per quanto fantastiche siano le tre bambine, vero motivo che spinge lo spettatore ad arrivare sveglio alla fine, Vector escluso -, o passare dall'imbranato outsider messo fuori gioco dall'ingegno del giovane astro nascente della criminalità - sempre Vector, per l'appunto - ad una sorta di iradidddio capace di superare ogni ostacolo con la sola forza di pugni e calci - manco fosse un expendable, maledizione! - non giova certo alla logica della storia, o all'interesse che la stessa possa suscitare in chiunque abbia superato la soglia dei due anni (forse anche meno): e non dite che tutto è lecito perchè si tratta di un film d'animazione, perchè è scorretto non solo nei confronti dei bambini, ma anche nei nostri di spettatori appassionati.
Un'occasione mancata, di sicuro.
E un peccato per me, partito per una serata divertente ed arrivato a stento ai titoli di coda sognando con tutto il cuore Gli incredibili.


MrFord


"I'm having a bad bad day
if you take it personal that's ok,
watch this is so fun to see,
huh, despicable me."
Pharrell - "Despicable me" -

La bamba

Nel corso di questi mesi di blog ho parlato spesso dei cult che hanno avuto un ruolo importante nel corso della mia infanzia, quei film visti e rivisti capaci, ogni volta, di procurarmi qualche brivido e rimasti nel cuore anche a distanza di tempo e visioni certamente più importanti.
Uno di questi, nell'ambito del biopic musicale e non solo, è stato senza dubbio La bamba.
Passato sul mio vecchio videoregistratore almeno una quarantina di volte, riusciva ad unire la curiosità per il rock - anche se, in questo caso, andiamo indietro ad un periodo storico della musica che allora non avevo ancora conosciuto appieno -, una colonna sonora che mi faceva letteralmente impazzire - i pezzi di Valens riproposti dai Los Lobos mi piacciono ancora oggi - ed il terrore per l'aereo che mi attanagliò dal primo viaggio "fra le nuvole" fino ai vent'anni suonati, che portò crisi profonde ad ogni viaggio intrapreso e terminò con una visione illuminante de La sottile linea rossa, di cui sicuramente parlerò in futuro e che rappresentò il passaggio all'assoluta tranquillità che ora mi culla quando volo da qualche parte.
Ad ogni modo, Richard Valenzuela, ragazzo dei sobborghi di Los Angeles proveniente da famiglia povera e venuto alla ribalta quasi per caso, conobbe sul finire degli anni cinquanta un successo clamoroso ed improvviso, che lo portarono in vetta alle classifiche dall'uscita del suo primo singolo "Come on, let's go", ed ebbe con La bamba - un pezzo tradizionale che risultò un azzardo commerciale divenendo il brano più famoso del giovanissimo artista, anche grazie a questo film - il vertice di una carriera durata troppo poco: il 3 febbraio del 1959, infatti, con The big bopper e Buddy Holly, a bordo di un piccolo aereo trovò la morte dopo uno schianto avvenuto pochi minuti dopo il decollo.
A diciassette anni Valens sarebbe potuto diventare una risposta latina a Little Richard ed Elvis, ma il caso - si dice che si giocò l'ultimo posto sul velivolo con un chitarrista del tour, vincendolo a testa o croce - ne fece una cometa, una leggenda divenuta tale anche per la sua tragica, improvvisa scomparsa - i quotidiani dell'epoca definirono il giorno dello schianto "il giorno in cui morì la musica" -.
Il film, certamente non rivoluzionario ed assolutamente accademico nello svolgimento e nello stile, risulta comunque gradevole anche ora, a quasi venticinque anni dalla sua uscita, e concentra il suo sviluppo nel parallelo tra la vita di outsider giunto al successo di Ritchie ed il rapporto con la famiglia, in particolare con il fratellastro Robert, figura certo più instabile ed affine al concetto comune di rockstar rispetto all'educato e tranquillo Ritchie.
Inoltre, alla musica si compara una sorta di destino già segnato che pare perseguitare il giovane performer, e che trova sfogo in un interessante utilizzo della sapienza popolare messicana e del ruolo dei sogni nella vita di una persona - il confronto con gli incubi ed il curandero, la collana protettiva ed il suo apparente potere, lo scontro e la pace con Robert, il ricordo del padre morto -.
Una pellicola che non ebbe, se escludiamo la colonna sonora, il successo sperato, e che, con il tempo, si è persa nei meandri dei film di genere senza ancora essere stata davvero riscoperta: un pò come Ritchie, che segnò la Storia, ma non uscì mai davvero dalla realtà del barrio di Los Angeles dal quale si era liberato solo e soltanto grazie al suo enorme talento.
Sarebbe davvero ora che quel ritmo tornasse ad occupare il posto che merita.


MrFord


"Para bailar la bamba
para bailar la bamba
se necesita una poca de gracia
una poca de gracia para mi para ti."
Ritchie Valens - "La bamba" -

sabato 27 novembre 2010

Last days

Mi gioco ben volentieri ancora un paio di cartucce prima di esaurire - ma solo per il momento - la sbornia dei biopic musicali: ricordo quando, nell'ormai lontano millenovecentonovantaquattro, i miei compagni di liceo mi accolsero in lacrime gridando "E' morto Kurt!".
Ricordo anche che allora, nel pieno della nerditudine del tempo, quando MrFord era solo un adolescente magro e bassino, senza tatuaggi, stronzaggine acquisita col tempo e ancora legato a Bryan Adams, risposi "E' chi è Kurt!?".
Perchè i Nirvana, band storica che raccolse l'eredità dei gruppi di rottura alla fine degli anni ottanta - Pixies su tutti - e traghettò gli adolescenti - e non solo - di tutto il mondo verso la ribellione depressa dei novanta, li avrei conosciuti davvero solo qualche anno dopo, quando la passione per la musica mi preservò da quella sbornia di tristezza infinita che avvolse come una nube tossica una buona metà della mia classe dei tempi.
In realtà Cobain, uno dei personaggi più importanti della storia del rock, fece inesorabilmente parte di quella nutrita schiera di artisti assurti a simbolo e schiacciati dal peso di una responsabilità enorme e, probabilmente, neppure voluta.
Van Sant, qui al suo ultimo, vero, grande film - Milk è ottimamente realizzato in tutti gli aspetti, ma resta il più hollywoodiano dei suoi prodotti, e Paranoid park è un pippone d'autore dagli inquietanti risvolti voyeuristici -, omaggia la figura di Cobain senza citarlo o raccontarne per filo e per segno l'esistenza, concentrandosi al contrario sui suoi ultimi giorni in una grande, lugubre villa fuori Seattle, in fuga dal centro in cui si stava disintossicando ed isolato dal mondo, dai fan, dalla musica.
Sfruttando proprio la musica, e le ellissi che resero Elephant un'opera visivamente straordinaria, Van Sant cuce addosso a Michael Pitt tutte le inquietudini ed i tormenti interiori di Cobain, trasformandolo in una sorta di perduto messia delle sette note portavoce riluttante di una generazione che passò alla storia come una delle più inquiete e borderline della storia culturale occidentale recente.
Se dovessi fare un paragone a posteriori, giudicherei Last days come una sorta di Into the wild in versione rock, in cui un protagonista solo anche fra i compagni di viaggio - in questo caso musicisti, da brivido il doppio raccordo con la sequenza dell'improvvisazione - cerca una fuga impossibile ai margini della civiltà per nascondere il fatto che, più che dal mondo, il tentativo è di allontanarsi da se stessi: di sicuro non si tratta di una pellicola da schiaffarsi a cuor leggero, e molti - anche fan dei Nirvana - potrebbero - e lo fecero, ricordo l'uscita dalla sala, ai tempi - giudicarla noiosa, cerebrale, pretenziosa, addirittura radical chic.
E qui vi stupirò, non io.
Con tutti i suoi limiti, ed il suo essere sicuramente un autore che, col tempo, ha reso la sua opera molto meno fruibile al grande pubblico di quanto ci si potrebbe aspettare dal regista del succitato Milk - che continuo a pensare fosse una clamorosa marchetta di qualità per tentare l'assalto alla statuetta dell'Academy -, Van Sant mostra, con Last days, di avere cuore, oltre che testa, ed offre un ritratto di Cobain che non specula sulla vita del musicista e cerca, senza inserire alcun riferimento effettivo alla vita del tanto compianto Kurt - anche, probabilmente, per evitare contenziosi legali con la sua agguerritissima vedova Courtney Love -, di scandagliarne l'anima e rivelare i tormenti che portarono l'uomo dietro il personaggio, con una fama planetaria, soldi a palate, una compagna ed una figlia nata da poco a porre fine alla sua vita per liberarsi di un angoscia che mi riporta alla mente il male di vivere che ho già citato parlando di Sid&Nancy e ricordando i soldati di The hurt locker.
Un male invisibile che divora dall'interno, come un tumore dell'anima, capace di mangiare con tanto più gusto quanto grande è l'ispirazione di chi è sul piatto.
A differenza dell'autodistruttiva ricerca di Vicious o delle sciamaniche visioni di Morrison, Cobain si fece portatore di una rivoluzione devastante quanto schiacciata da un isolamento soffocante e spietato, specchio delle rovine che avrebbero lasciato gli anni novanta, che incolpevolmente hanno portato sulle spalle anche le ceneri che le epoche, non solo musicali, avevano prodotto dagli anni cinquanta in poi.
In qualche modo, il ruolo ritagliato da Van Sant a Pitt/Cobain e ai suoi "ultimi giorni" non potrebbe essere più azzeccato: struggente bellezza di immagini, ipnotiche evoluzioni di macchina, musica travolgente - attenzione: niente Nirvana anche qui -, eppure un angosciante passione che non risulta liberatoria neppure con l'atto estremo.
Una sorta di tragedia greca riportata nella Seattle brumosa ed autunnale dell'indimenticata stagione d'oro del grunge.
Speriamo che almeno l'hybris di Kurt si sia esaurita quel fatidico cinque aprile millenovecentonovantaquattro.


MrFord


"I'm so happy cause today
I've found my friends
they're in my head
I'm so ugly
but that's ok."
Nirvana - "Lithium" -



giovedì 25 novembre 2010

The Doors

Nonostante la parentesi dedicata a film più recenti sento la vena musicale pulsare ancora forte, così torno indietro nel tempo a davvero parecchi anni fa, quando incappai quasi per caso nella pellicola omaggio che Oliver Stone diresse ispirandosi alla storia di Jim Morrison e dei suoi Doors: conoscevo già la band, la storia dei suoi membri - più o meno - e soprattutto la loro musica, e ricordai quando durante il mio primo viaggio a Parigi scoprii che, con la lapide di Baudelaire, quella di Morrison era la più corredata di omaggi dai visitatori di tutto il mondo che avessi visto nei cimiteri affollati di miti e leggende delle arti della capitale francese.
Anche la storia del vecchio Jim era materia nota, dalla scalata al vertice al bisogno di creare una frattura e dare nuovi stimoli ad un pubblico che pareva assetato di nuove icone, le dipendenze, la morte a soli ventisette anni - un altro membro del prestigioso club cui appartengono anche la Joplin, Hendrix e Kobain -.
Eppure, da subito il fascino dell'esplorazione di Stone ebbe un effetto quasi ipnotico, e mi ritrovai a scoprire nel suo Morrison - e nell'interpretazione ottima dell'identico Val Kilmer - elementi di inquietudine comuni quando si gravita attorno ai vent'anni, che pur se sfogati o espressi in modi differenti restano legati ad istinti e necessità cui il cuore può difficilmente comandare, e che portano alla formazione del proprio carattere e al percorso di una vita o, come nel caso del leader dei Doors, in un breve, intenso percorso destinato ad una conclusione tragica.
Le immagini, l'utilizzo della musica e la progressiva scoperta e sperimentazione - soprattutto in materia di alcool e droghe - del "re lucertola" rendono il film ad un tempo ammaliante e terribilmente lento, tanto irresistibile quanto esposto al rischio di irritare il pubblico non vicino all'eccesso - sia esso legato alla vita vissuta sia al Cinema -: sequenze come il crescendo quasi sciamanico di Morrison durante il concerto che si concluse con il suo arresto corrono sul filo sottilissimo che passa tra la visionarietà ed il delirio, e sono specchio, in qualche modo, del Cinema di Stone, uno che, volente o nolente, tende ad andare oltre le cosiddette mezze misure.
Chi, dunque, meglio di Morrison, bambino e vecchio stregone, dipendenza e libertà, eccessi e ritirate solitarie, animale da palcoscenico e ragazzo che canta di schiena, intimidito dal pubblico, poteva rappresentare l'opera del granitico Oliver, che in quegli anni - siamo a cavallo tra gli ottanta e i novanta - pareva più arrabbiato che mai?
Quello che è certo, è che il regista non si accontenta di mostrare un vincente, o un perdente, quanto più un protagonista che insegue un sogno troppo grande - vedi anche Alexander, come sarà più di dieci anni dopo -, quasi conscio - le visioni legate a Riders of the storm, uno dei pezzi più incredibili dei Doors - che la portata di tale sogno è e sarà sempre il fuoco che alimenta la passione per lo stesso, e non saranno una vittoria, o una sconfitta, a fare la differenza, quanto il percorso compiuto per giungere a quel momento. 
Il momento di Jim sarà un giorno come gli altri, a Parigi, nell'innocua tranquillità della vasca da bagno.
E nonostante tutte le storie che ci girano attorno, è confortante e piacevole pensare che possa essere stato proprio così.


MrFord


"You know the day destroys the night,
night divides the day,
tried to run,
tried to hide,
break on through to the other side."
The Doors - "Break on through (To the other side)" -

mercoledì 24 novembre 2010

The american

Ho deciso che, spinto dalla schiettezza dell'apertura del post su The social network, farò lo stesso anche con l'ultimo lavoro di Anton Corbijn: The american è una vera, autentica, colossale schifezza.
In una cornice pubblicizzata come una rivisitazione dei bellissimi paesi di un Abruzzo in cui pare che il terremoto non ci sia mai stato - se non in campagna pubblicitaria -, il killer George appassionato di caffè - what else!? - perseguitato da una banda di svedesi incarogniti fuggiti dalla trilogia di Larsson senza un motivo apparente e pronto ad essere mandato in pensione dal suo stesso datore di lavoro dopo aver eliminato a sangue freddo la sua amante trova una nuova casa in un piccolo centro sperduto nel cuore della nostra penisola, dove ovviamente un prete caritatevole con un passato turbolento e dalla morale terribilmente buonista ed una prostituta d'alto bordo lo redimono a suon di paternali e scopate, non prima di un confronto finale che dovrebbe avere del tragico shakespeariano ma pare tanto il più banale degli spot di automobili.
Il tutto condito da dialoghi ridotti al minimo e terrificanti, interminabili sequenze di George che si allena in casa sfoggiando fintissimi, agghiaccianti tattoos ed un fisico asciutto ed in forma ma non proprio più da copertina, George al ristorante, George che monta, smonta, rimonta ed assembla un fucile, George che guarda dalla finestra con il binocolo, George che gira in macchina per ricordarci che siamo in uno di quegli spot laccati da pomeriggio su Canale 5.
Ad un certo punto ho addirittura temuto di essere costretto a vedere George sulla tazza del cesso, ma fortunatamente in questa follia inspiegabile che l'ha travolto Corbijn ha visto la luce, ed ha deciso di risparmiarci almeno questo, senza però saper rinunciare a numerose panoramiche di glutei che paiono proprio voler prendere il posto dei visi, e pretendere indimenticabili primi piani.
Dopo un gioiello come quello di Fincher è davvero atroce, tornati dal lavoro dopo una giornata con l'acqua alla gola, incappare in robaccia come questa.
E me la sono cercata.
Pensavo che, data la stanchezza, non sarei riuscito a prestare la dovuta attenzione ad un film d'autore, e che una cosa più leggera sarebbe stata la scelta più conveniente.
Non sapevo ancora che questa mattonata indifendibile potesse convogliare senza alcuna possibilità di alibi le peggiori qualità dell'essai supponente e dell'azione priva di logica.
Unica consolazione: almeno non prendo caffè.
Se non altro, ho la soddisfazione di aver fatto bere George da solo.
Nel suo spot da tv spazzatura.


MrFord


"So give me coffee and tv,
history, I've seen so much,
I'm going blind."
Blur - "Coffee&tv" -

lunedì 22 novembre 2010

The social network

Onestamente, non so proprio da che parte iniziare.
Quindi taglio la testa al toro prima che si liberino le parole: nel corso di questa stagione cinematografica, solo Inception ha fatto più di The social network.
Avevo letto molto bene dell'ultimo lavoro di David Fincher, regista talentuoso ma clamorosamente discontinuo, autore di cult tendenzialmente sopravvalutati - Fight club -, cagate mortali - The game, il terzo Alien - e pellicole assolutamente imperdibili - Seven, Zodiac -: da non utente di Facebook mi chiedevo cosa potesse esserci di tanto interessante nella vita del suo creatore Mark Zuckerberg da riuscire a tirarci fuori un film che potesse risultare almeno vagamente interessante, pur riconoscendo l'impatto clamoroso che il suddetto Facebook ha avuto sul mondo negli ultimi cinque anni, divenendo a tutti gli effetti il fenomeno mediatico più noto e sfruttato dai tempi della prima diffusione di internet.
Presto detto: la questione principale non sta tanto nell'esistenza del geniale Mark, stronzetto semiautistico dai modi irritanti, quanto nella fotografia assolutamente incredibile della nostra epoca, che fa di The social network una sorta di Tutti gli uomini del presidente del nuovo millennio, una pellicola chirurgica nella regia, straordinaria nella scrittura, fotografata, montata e musicata alla grandissima, tanto da far vacillare, in più momenti - il confronto Mark/Eduardo negli uffici di Facebook, la gara di canottaggio, la discoteca e l'incontro dei due geni di FB e Napster, la chiusura -  anche la monumentale creatura di Nolan in vetta alle mie preferenze di sala targate 2010.
L'importanza sociologica di un lavoro come quello di Fincher - e del suo sceneggiatore Aaron Sorkin - è paragonabile ad uno studio approfondito sulla "generazione Facebook" cui, volenti o nolenti, tutti noi facciamo parte, ovvero: i limiti umani al completo trasformati da un genio del ventunesimo secolo in un melting pot di socializzazione arbitrato dall'assoluta libertà che solo la rete può dare ai suoi utenti.
Attorno, l'assoluta rapacità degli squali in pieno stile Gekko capaci di intuire le potenzialità miliardarie dell'affare, e pronti a mangiare banchetti sontuosi grazie alle rendite di quella che è, senza dubbio, la droga capace di creare la dipendenza più forte ed al contempo meno nociva mai inventata: internet.
Attorno, la paranoia da nerd divenuto divo di Sean Parker - un ottimo Justin Timberlake -, ed una schiera di giovani, aspiranti programmatori, stagiste, groupies da fare invidia alle più grandi rockstar.
Attorno, un sacco di soldi e l'attenzione di un mondo che dimentica i vincenti che, normalmente, dovrebbero essere "quelli vestiti da scheletri che inseguono lo sfigato" - meravigliosa citazione di Karate kid -, i ricchi e potenti, i belli, i protagonisti e li porta dalla parte degli oppressi, a rivendicare diritti violati dalla mente acuta di Zuckerberg e trovarsi sempre una distanza dietro, come in una gara di canottaggio che non potranno mai e poi mai chiudere in testa.
Attorno, tutto, in una certa qual misura.
Dentro, nulla.
Perchè Mark è un nerd, un piccolo genio dei computer che, al contrario, nei rapporti umani non brilla come quando scrive codici, e perde stima ed attenzione della ragazza che, involontariamente, porterà alla creazione di Facebook e diverrà una sorta di ossessione per il suo artefice, allontana Eduardo, il suo migliore amico, abbagliato dallo stile più fashion di Sean Parker, affronta con fare spocchioso gli avvocati nelle udienze legate alle richieste di risarcimento dello stesso Eduardo e dei gemelli Winklevoss, suppone e presuppone, gioca al disinteressato anche quando non lo è.
Eppure, come la giovane avvocatessa terrà a sottolineare in chiusura, Mark non è uno stronzo, "ci tiene solo molto ad esserlo".
Perchè Mark è un genio, indiscutibilmente.
Ma è solo, invidioso, e non avrà mai l'aspetto dei Winklevoss, il fascino di Parker o l'etica di Eduardo.
E neppure il carattere necessario a costruire un rapporto, sia esso di amicizia o sentimentale, o per accettare una sconfitta, o gioire per una vittoria.
Mark è un genio piccolo piccolo.
Ed è estremamente umano.
Per questo Facebook è fico, e va così forte.
Perchè sui nostri profili in rete, siamo noi i protagonisti, sempre e comunque, anche quando, fuori, passiamo per carta da parati.
E i protagonisti, inevitabilmente, hanno tutti dalla loro, sono ammirati e rimorchiano, sempre e comunque.
Questa è la vera chiave, il segreto dei social network e il motore di ogni epoca, pur con regole e strumenti differenti.
Se non avessi incontrato Julez, e non fossimo felici e sposati, con ogni probabilità, ora avrei anch'io la mia brava paginetta su Facebook, anche se non nasconderei certo il perchè.
In fondo, Mark Zuckerberg lo sa.
Lo sanno i milioni di utenti di FB.
Lo sa Sean Parker, e, forse, hanno ricevuto una nota in proposito anche gli investitori di questo quasi neonato, incredibile business.
E prima di Facebook, quando ancora internet cominciava ad affacciarsi nelle nostre case, nelle vite della gente comune e a cambiare la società, uno dei massimi Maestri della settima arte l'aveva già detto a gran voce, come un testamento, prima di andarsene.
"E ora cosa dobbiamo fare?"
"Scopare."
Quel signore si chiamava Stanley Kubrick.
Non credo avrebbe apprezzato Facebook.
Ma, di sicuro, The social network sarebbe stato promosso anche da Lui.

MrFord

"Splendid isolation
I don't need no one
splendid isolation
don't want to wake up with no one beside me."
Warren Zevon - "Splendid isolation" -

sabato 20 novembre 2010

Walk the line

Assecondando il trend "musicale" che sta prendendo piega sul blog in questi giorni, e riagganciandomi al discorso fatto a proposito di Sid&Nancy e delle grandi storie d'amore del rock, non posso esimermi dal parlare del biopic ispirato dalle vicende di uno dei miei miti non solo musicali, quel Johnny Cash passato attraverso generazioni di culture negli States dal country profondo e i tour con Elvis fino alla celebratissima serie di dischi American recordings prodotti dal geniale Rick Rubin.
In realtà, il film - del quale non citerò l'abominevole titolo italiano - concentra la sua attenzione, in particolare, sulla tormentata storia d'amore che vide protagonisti Johnny Cash e June Carter, dapprima compagni di tour, dunque amici e confidenti, infine, dopo aver assistito a matrimoni falliti e crisi interiori, finalmente uno accanto all'altra, come sarà dal loro matrimonio al termine delle loro vite.
E per uno accanto all'altra, intendo davvero, come potrebbe essere nel più intenso degli Up: Johnny e June non si separano mai, sono presenti ai reciproci concerti, alle registrazioni dei dischi, sui set delle trasmissioni e dei film cui partecipa Johnny, si occupano delle loro proprietà e dei figli, sopravvivono alle peggiori crisi di "perdizione" nelle quali Cash, di tanto in tanto, ricasca.
La loro unione, benchè già in qualche modo già sancita dai cuori, si decide ufficialmente durante il tour che vede il "Man in black" esibirsi a Folsom, per uno storico concerto che segnò il suo più grande successo, perchè accolto da critica e pubblico anche oltre i confini del country: ed è proprio da quella storica data live - replicata fedelmente anche nelle singole battute - che Mangold sceglie di partire, dando origine ad una narrazione classica attraverso un lungo flashback che ripercorre le tappe principali della vita di Cash fino a quel momento, dalla morte dell'amatissimo fratello al complicato rapporto con il padre, dal servizio militare al primo matrimonio, dagli inizi come venditore porta a porta al provino che lo porterà ad unirsi ad Elvis, June Carter e Jerry Lee Lewis in un tour che ne decreterà l'ascesa come nuova star del cantautorato Usa.
Al centro delle vicende che si susseguono il rapporto ed il legame che crescono, si consolidano, rischiano la rottura e poi tornano ancora più vicini fra loro di John e June, che una volta insieme si definiranno Holy terror e Wildwood flower: e non può che essere così.
I due musicisti si completano, fondendo il carattere a tratti scostante e sempre in bilico di Cash e quello solare e deciso di June, che compie un percorso che la porta a fare da madre, amica, confidente, amante fino a compagna di viaggio fino alla fine.
Un pò quello che ogni donna fa con la persona con cui sceglie di condividere la propria vita.
Una vita che per Johnny viene quasi provvidenzialmente salvata, proprio nel momento peggiore, dalla determinazione e dall'affetto di June, che continuerà a rifiutarlo sistematicamente fino a quando, proprio come in un film, non cederà quando quel vecchio mascalzone di Cash non interromperà un concerto per ottenere il sì più importante della sua - anche se sarebbe meglio dire loro - esistenza.
Esistenza che condivideranno istante per istante.
E che si porterà via June, inaspettatamente, nella primavera del 2003, proprio quando tutti avrebbero scommesso a colpo sicuro che ad andarsene per primo sarebbe stato Johnny.
Johnny ormai debole e vecchio, eppure ancora capace di lavorare ad un ultimo disco prima di raggiungerla, neppure sei mesi dopo.
L'Holy terror e il Wildwood flower non ne volevano proprio sapere di stare l'uno lontano dall'altra.

Mi rendo conto che ho parlato a profusione di Cash e June, ma quasi per nulla del film, che, per quanto assolutamente accademico possa sembrare, è un ottimo prodotto d'intrattenimento, girato con mestiere, che coinvolge e riesce ad avvicinare alla musica di uno dei più importanti artisti americani del secolo scorso anche il pubblico distante dal country.
Inoltre, occorre ammettere che Joaquin Phoenix - ma del resto, nel suo caso già si sapeva - e Reese Whiterspoon - questa sì che fu una sorpresa - sono stati in grado di fornire due performance straordinarie, impegnandosi anche nella realizzazione delle parti cantate, che nella pellicola sono completamente reincise - e suonate - dai due attori.
Uno di quei film per tutti, che sicuramente avrà scontentato e continuerà a scontentare una parte della critica e dei fan più "hardcore" di Cash, che forse avrebbero preferito una narrazione incentrata sui suoi eccessi, eppure fedele a parte della vita del cantautore ed in grado di emozionare anche i cowboys più duri.
Inoltre, onestamente, credo che, per quanto commerciale sia, la scelta di incentrarsi sull'amore nella vita di Cash sia enormemente più difficile ed impegnativa che dedicarsi a sbronze, anfetamine e sballi di vario genere: un pò come paragonare un'uscita in discoteca il sabato sera, in piena "caccia", o un matrimonio da costruire giorno per giorno.
La baldoria non sarà quotidiana, ma la coscienza e la felicità di qualcosa di costruito con le proprie forze, alla fine, sarà sempre troppo grande per qualsiasi "notte da leoni".
E su questo, posso parlare per esperienza.

MrFord

"As sure as night is dark and day is light,
I keep you on my mind both day and night,
and happiness I've known proves that it's right
because you're mine, I walk the line."
Johnny Cash - "I walk the line" -

Scott Pilgrim Vs. The world

Edgar Wright è un talento naturale, niente storie.
Ricordo il tempo in cui, al primo incontro con la locandina de L'alba dei morti dementi, rimasi impietrito da quello che pareva essere l'ennesimo filmaccio spazzatura che portava American pie ad incontrare Scary movie, e la cosa non fece che irritarmi alquanto.
Fortunatamente - per me - venni spinto dalla macabra curiosità ed osservai la quarta di copertina del dvd.
Risultato: commenti entusiastici di Peter Jackson - che potrà non essere il preferito di molti, ma non è neppure un signor nessuno -, Quentin Tarantino - che, lo ammetto, allora era in alto mare nel suo rapporto con il sottoscritto - e soprattutto, George Romero.
Se il Maestro degli zombies esalta - per davvero! - un film nel "suo" genere, significa che deve valerne proprio la pena, mi dissi: e fu così.
L'alba dei morti dementi - Shaun of the dead l'azzeccatissimo, e non insulso, titolo originale, di cui prima o poi parlerò - è una perla assoluta del Cinema demenziale, una sorta di sbornia alla Monty Python nel pieno de La notte dei morti viventi.
Il buon Edgar, a quel punto, compie il grande salto nelle star nascenti con il suo attore feticcio e co-sceneggiatore Simon Pegg, e non solo viene invitato da Romero in persona a partecipare alle riprese de La terra dei morti viventi - il nostro dinamico duo interpreta i due morti viventi che si contendono le carni di Asia Argento -, ma prepara una seconda parodia ispirata agli action movies e comincia a fare capolino nella mente dei produttori oltreoceano.
Così, neppure il tempo di finire di festeggiare per il successo dello stupefacente Hot fuzz - parlerò anche di questo, senza dubbio alcuno -, ed Edgar si muove negli States, per iniziare la lavorazione di Scott Pilgrim.
Da tempo - esattamente da quell'agosto 2007, quando con Julez vidi il suddetto Hot fuzz in una sala semivuota nel centro della Milano deserta del cuore dell'estate - attendevo il nuovo lavoro di Wright, ed ammetto che, almeno nel corso della prima parte, le mie attese sono state parzialmente deluse.
Stilisticamente e visivamente curatissimo, elegante e perfetto, Scott Pilgrim gioca tutte le sue carte d'impatto sulla presunta simpatia di Michael Cera - uno che, per dirla tutta, io prenderei a cazzotti sonori dalla mattina alla sera manco fossi il Puckerman di Glee - e sullo stile sicuramente cool che normalmente sarei portato a definire tendente al radicalchicchismo.
Troppe onomatopee fumettose in stile vecchio telefilm di Batman, una sceneggiatura brillante ma non ironica quanto quelle scritte a quattro mani con Pegg, troppe strizzate d'occhio e una struttura omaggio ai vecchi videogiochi platform a schermi che rischiava di diventare ripetitiva.
Eppure, con il passare dei minuti, mi sono ritrovato inchiodato al divano in attesa di scoprire non tanto quale sarebbe stata la prossima battuta, o chi l'avrebbe pronunciata, se il prossimo ex da sconfiggere sarebbe stato più terribile del precedente - ovvio! - e perchè, quanto l'aspetto più disperatamente violento e drammatico di una pellicola apparentemente innocua come questa: il tutto perchè, signore e signori, Scott Pilgrim Vs. The world altro non è che una disperata battaglia con l'amore, quello che ci strugge e ci abbatte, ci permette azioni incredibili e provoca clamorose cadute.
L'amore che ci fa improvvisare artisti, o ci fa smettere di pensare di esserlo.
L'amore che è il sentimento più vecchio del mondo, eppure non smettiamo mai di volerne sentire parlare.
L'amore di Alta fedeltà, Se mi lasci ti cancello, (500) giorni insieme, Juno: Scott Pilgrim deve qualcosa ad ognuna di queste pellicole, e pur se furbetta e decisamente attenta alla sua costruzione ed apparenza, arriva dritta al cuore di chi vuole guardare oltre la cortina dei calcioni, dei muri di note e degli stage che si susseguono.
Potrà sembrare strano che un tamarro del mio calibro possa essersi concentrato sul confronto fra Scott, Ramona e Knives in chiusura del film, piuttosto che sulle sonore scazzottate o sul colpo decisivo che Scott stesso rifila per chiudere il loro combattimento a Todd, nuovo fidanzato della sua ex Envy nonchè ex fidanzato della sua attuale fidanzata Ramona - "Hai appena disintegrato il mio ragazzo con una testata", epico! -, eppure è proprio così.
Johnny Cash scriveva che, invecchiando, si diventa più sensibili, anche se non lo si ammette mai apertamente.
Zucchero, quando ancora faceva buona musica, gridava di avere bisogno d'amore.
Tutto senza neppure citare i Fantastici quattro.
Non i supereroi, quelli della maglietta che sfoggia Scott in una breve sequenza, peraltro identica ad una di quelle che acquistai a Orlando.
Quelli ancora più grandi.
I Beatles.

MrFord

"All you need is love."
Beatles - "All you need is love" -

giovedì 18 novembre 2010

Sid&Nancy

La storia di Sid Vicious e della sua compagna Nancy Spungen, del Chelsea Hotel di New York e del 12 ottobre 1978 è nota a gran parte dei fan del punk - e non solo - come una delle più coinvolgenti, travolgenti, dirompenti della Storia della Musica.
I Romeo e Giulietta della rivolta e della droga hanno simboleggiato - e simboleggiano ancora oggi - una vera e propria icona, e senza dubbio hanno rappresentato, come i Sex Pistols, una frontiera che rompeva gli argini di epoche intere e proiettava il mondo in una nuova dimensione, in cui tutto era fallibile, improvvisato, vissuto all'istante ed all'istante buttato dritto nel cesso.
Ora, i biopic musicali, anche quando non sono ben riusciti, risultano sempre affascinanti, se non per i singoli artisti raccontati per le epoche analizzate, la musica scoperta o riscoperta, la possibilità di confrontarsi con momenti storici non vissuti, se non nei racconti, nei libri, nelle canzoni o nelle leggende che alcuni di questi performer sono diventati: dall'eleganza straordinaria del Bird di Eastwood al becero Morrison di Stone, dal classico Cash di Walk the line al Ray formato Oscar interpretato da Jamie Foxx, è impossibile non subire almeno in parte il fascino "maledetto" - anzi, soprattutto se maledetto - delle rockstar divenute qualcosa di anche più grande di un mito.
E' questo, di certo, il caso di Sid&Nancy, preso solo cinematograficamente non certo una pellicola memorabile, ma ugualmente in grado di suscitare curiosità ed interesse rispetto ad uno dei movimenti in realtà più dissacranti - ed importanti - della storia della musica recente: gruppi come i succitati Sex Pistols di Vicious, i Ramones o i Germs - solo per citare alcuni dei più noti - ebbero il grande merito di distruggere tutte le certezze del ventennio loro precedente per stimolare nuove produzioni che, quasi da subito, li superarono per condurre la musica in quello che furono gli anni ottanta e novanta.
Curioso come, osservando Gary Oldman - straordinario - e Chloe Webb - la stessa de I gemelli, pensate un pò! - il primo pensiero è che neppure loro dovevano davvero essere consci della portata di quella improvvisata, assolutamente casuale rivoluzione, almeno quanto quelli che, una quindicina di anni fa, potevano essere miti o senza dubbio esseri leggendari ora assumano, ai miei occhi di spettatore, appassionato di Musica e Cinema, l'aspetto di due ragazzini spaventati, scossi ed intimoriti dal campo di battaglia che è il palco della vita - che frase ad effetto, quasi mi viene da prendermi in giro da solo! -, e mossi nelle loro scelte (?) soltanto dalla paura.
Il male di vivere, lo chiamava Montale.
Quello che i soldati di The hurt locker sfamano e bruciano nell'istante che li separa da una potenziale esplosione di un ordigno.
Quello del Kobain di The last days, che brucia subito anzichè spegnersi lentamente come il Kurgen di Highlander.
Quello di Sid e Nancy, due ragazzi innamorati che non ebbero la forza di spingersi al di fuori delle loro stanze, e consumarono le loro vite al Chelsea, nel cuore di New York, anche se per Sid l'attesa sarebbe durata ancora qualche mese.
O forse volevano solo così, e non c'è nessuno che possa giudicarli.
Perchè è questo che tutti desideriamo, in fondo.
Essere quello che siamo.
E trovare qualcuno che ci guardi proprio in quel modo, e resti dov'è, senza voler andare da nessun'altra parte che al nostro fianco.
Sid e Nancy, morti nel sangue, attraverso un coltello che - si dice - sia stato voluto dall'una ed abbia accompagnato fino alla fine l'altro.
Dexter e Lumen, nati nel sangue, attraverso un coltello che sa di vendetta, voluto dall'una ed accompagnato dall'altro nel cuore di chi, "più che di morire, non merita di vivere".
Aveva proprio ragione Scorsese.
Questo "è il mezzo del futuro".
Tutto pare legato come Inception e casuale quanto Lost.
Sid&Nancy non sarà un filmone, ma fanculo, mi ha portato fino a qui, ora.
E tanto basta.

MrFord

"And now, the end is near,
and so I face the final curtain,
you cunt, I'm not a queer,
I'll state my case, of which I'm certain."
Sid Vicious - "My way" -  

I tre della croce del Sud

Torno alle atmosfere magiche del film classico, dei ricordi - a dire il vero ormai molto soffusi - delle serate con mio nonno, ai mari del Sud delle avventure con la a maiuscola, nonchè a due dei miti più grandi del Cinema americano e non solo: John Ford e John Wayne.
Insieme per alcune delle pietre miliari della (loro) Storia, da Sentieri selvaggi a L'uomo che uccise Liberty Valance, passando per Ombre rosse e Un uomo tranquillo - solo al pensiero di queste pellicole ho brividi profondi e pelle d'oca -, ormai in età "da pensione", i due uomini d'acciaio della grande tradizione della Frontiera si prendono una meritatissima pausa nella splendida cornice della Polinesia Francese con questa gradevolissima commedia romantica che altro non si può definire se non di gusto classico, senza però rinunciare a qualche spacconata da veri uomini nella migliore tradizione delle bottigliate in testa - e sto citando la quarta di copertina del dvd, non uno dei miei ormai tradizionali richiami da battaglia! -.
Due vecchi commilitoni - Wayne, per l'appunto, e Lee Marvin - ormai perfettamente integrati nell'ambiente sociale polinesiano vengono a sapere per caso che la figlia - da lui mai conosciuta - del medico del luogo e loro vecchio comandante sta arrivando sull'isola per questioni patrimoniali e per conoscere il padre: i due ordiscono dunque un piano che preveda di occupare la ragazza fino al ritorno del genitore senza rivelarle dei tre figli avuti dallo stesso a seguito del matrimonio con la principessa del luogo, morta di parto dando alla luce il più piccolo.
E' quasi scontato parlare degli equivoci e delle situazioni imbarazzanti che questa bugia porterà come bagaglio, così come della scintilla che scoccherà fra la giovane e John Wayne, che sarà pronto a mollare la sua vecchia vita passata dietro il bancone della taverna locale - il Donovan's reef che è anche il titolo originale del film - per mettere la testa a posto e progettare una famiglia con la sua a quel punto promessa sposa, il tutto nella migliore tradizione de "l'amore non è bello se non è litigarello" tipica della commedia brillante degli anni cinquanta e sessanta.
Detta così potrà anche suonare come la sagra delle banalità, eppure anche guardandola svogliatamente un qualsiasi spettatore sarà in grado di rendersi conto di quanto classici di questo genere possano colpire ed affascinare anche a mezzo secolo dalla loro realizzazione, e pur non essendo capolavori parlare di temi attuali ed importanti quali la famiglia, l'integrazione, l'arricchimento culturale proveniente dal rispetto fra tradizioni diverse, ed anche qualche sana scazzottata, capace di affinare il carattere e temprare il corpo.
Sicuramente non sarebbe il primo film di Ford che mi sentirei di consigliare a qualcuno per poter dimostrare l'importanza dell'opera di uno dei più grandi Maestri della Storia del Cinema - ancora oggi, ritengo il vecchio John uno dei dieci registi più grandi di tutti i tempi, e chissà che una volta o l'altra non posti una classifica dedicata a questo argomento -, ma ugualmente può rappresentare una sorta di piccola, genuina svolta verso il classico per chi non è avvezzo a visioni particolarmente autoriali ed un piacevole ritorno "a casa" per chi già conosce, e rivive piacevolmente, l'esperienza di un autore fondamentale.
Per tutti gli altri, e per chi prova a dare contro alla premiata ditta Ford/Wayne, sono grandi, sonorissime bottigliate in testa.


MrFord


"South, goin' South,
check us out we're going South."
Lagwagon - "Goin' South" -

martedì 16 novembre 2010

Il regno di Ga' Hoole - La leggenda dei Guardiani -

Ci sono momenti in cui riesce difficile spiegarsi per quale motivo un regista si imbarchi in avventure insolite, almeno quanto, da spettatori, ci ritroviamo di fronte a pellicole per le quali, una volta terminata la visione, restano interrogativi esistenziali e profondi che potrebbero essere ricondotti e condensati in una sola domanda: "per quale motivo l'ho visto"?
Probabilmente, considerati il distributore - Warner - e l'approccio - merchandising, videogiochi, libri e quant'altro -, nel caso di Zack Snyder si è trattato, principalmente, di un megamarchettone fatto per soldi e contratto, considerati i prossimi - e certo commercialmente più rischiosi - lavori in programma per il regista di Watchmen.
Resta, invece, l'interrogativo per il quale sia andato in cerca e mi sia sparato, cullato da Brugal e Coca, questo film senza neppure pormi troppe domande.
Ma andiamo con ordine.
Il regno di Ga' Hoole non fa schifo, non è una di quelle cose che fanno accapponare la pelle - e ingigantire il senso di colpa - anche solo al ricordo di aver pensato di avventurarsi nella visione, eppure non c'è nulla, se non i gufi stessi, che non sappia di già visto, sentito, rappresentato, senza contare che il breve minutaggio e lo script decisamente "facile" non aiutano a pensare anche solo lontanamente di stare assistendo ad uno spettacolo originale o accattivante.
Mescolando La collina dei conigli, Il signore degli anelli, Guerre stellari ed Avatar - questa è per te, Cannibale: quando ho visto l'albero dei Guardiani avvolto dalle fiamme ho sorriso al pensiero - Snyder e soci ci portano nel regno di Ga' Hoole, dove due fratelli rapiti dai Puri - una sorta di razza ariana composta nella sua classe "dirigenziale" soltanto da Barbagianni - si ritrovano su fronti opposti nella più grande battaglia del loro tempo, simile a quelle che il padre raccontava loro prima di addormentarsi, quando erano ancora gufetti.
Soren, sognatore ed altruista, costituirà, in fuga dai Puri, una sorta di "compagnia" che troverà la via per l'albero dei Guardiani, leggendari guerrieri che già una volta, in passato, fermarono l'avanzata del malvagio Metalbeak, sovrano dei temibili barbagianni e responsabile del passaggio di Kludd, fratello di Soren, al "lato oscuro".
Lo stesso protagonista, da par suo, faccia a faccia con il leggendario guerriero dei racconti ascoltati per tutta la vita, ha una reazione di stupore simile a quella di Luke Skywalker al suo primo incontro con Yoda, ma imparerà che un grande guerriero non è subordinato al suo aspetto, così come a seguire il suo istinto e muoversi fra le correnti abbandonandosi alla sua Natura.
Ma il fatto che sappia tutto di già sentito non sarebbe così terribile - in fondo è un prodotto destinato ad una fascia d'età bassina, ed è probabile che, per i fanciulli in questione, già Il signore degli anelli sappia di vecchio - se non fosse che nulla nella sceneggiatura riesce a far anche solo pensare che si possa verificare un colpo di scena, o che un ingranaggio nell'incedere della storia salti, deviando dalla linearità spietata che, fra una strizzatina d'occhio alla Disney ed una all'epica classica, risulta francamente noiosa per i "grandi" già vaccinati a questo tipo di storie e quindi sicuramente più esigenti e difficili da stupire.
Non che si debba necessariamente ricorrere ad espedienti particolarmente complessi - la Pixar è l'esempio perfetto, dell'utilizzo magistrale della semplicità -, eppure la strada che corre fra Ga' Hoole e Mostropoli è davvero, davvero lunga.
Doveste imbattervi, per caso o per scelta, in questo film, dunque, cercate di pensare il più possibile come se foste i vostri figli, chiudendo un occhio - o entrambi - sull'identità culturale che i Jedi, gli Hobbit o i Na'Vi hanno fornito agli spettatori di tutto il mondo negli ultimi trent'anni: forse, e solo allora, Il regno di Ga 'Hoole potrà sembrarvi un posto magico ed incredibile, e sarete ansiosi di scoprirlo come fosse la prima volta.

MrFord

"Because my eyes they can't stand the light
no, I'm a night owl, honey,
sleep all, sleep all day long."
James Taylor - "Night owl" -

lunedì 15 novembre 2010

Wall street - Money never sleeps

A rifletterci bene, Gordon Gekko è un pò il Tony Montana di tutti quelli che, invece di rincoglionirsi dietro una qualsiasi arma da fuoco giocando a fare i cazzo duro, hanno capito che il mondo gira attorno a ben altre dinamiche di potere, e ora sono tutti laureati in economia e fanno i soldi alla facciazza nostra di poveri peccatori della strada.
Ed anche un pò alle nostre spalle.
Più di vent'anni fa irrompeva nella mitologia anni ottanta una delle pellicole simbolo di Oliver Stone, ancora capace di scalzare, nel cuore degli spettatori, cose di molto superiori quali Jfk o Nixon, e perfettamente inseribile in un discorso molto più ampio condotto dal regista rispetto agli Stati Uniti e la loro bizzarra mitologia fatta di eccessi e cadute, talento e banalità inimmaginabili.
La stessa filmografia del vecchio Oliver, in qualche modo, rispecchia questa duplice natura, e passa da cose estremamente interessanti quali quelle appena citate a schifezze atomiche come World Trade Center, senza dimenticare gli sfoggi kolossal di Nato il quattro luglio ed Alexander, che personalmente tengo sempre in palmo di mano, tanto per essere chiari sull'argomento.
Da tempo i fan più accaniti chiedevano il ritorno sulle scene di Gordon Gekko, incastrato da Budd Fox/Charlie Sheen al termine del primo capitolo ma sempre pronto a tornare sulla breccia, ancora mosso dall'antico spirito di giocatore incallito che lo contraddistingueva.
E Stone non si fa pregare, e in men che non si dica, complici un ottimo montaggio ed una colonna sonora da urlo firmata Eno/Byrne - due leggende arrivate in diretta dai gloriosi eighties - parte alla grande confezionando una prima metà tesissima e serrata, capace di denunciare le porcate delle banche in prossimità della crisi che un paio d'anni fa colpì il mercato immobiliare americano e non solo - così come immobiliare e non solo - come in una partita di domino, e legata ad una "bolla" - come ama definirla il protagonista Jacob/Shia Labeuf - di quelle all'origine di ogni grande cambiamento della Storia, a partire dal Big Bang.
Peccato che non c'era la borsa, avrà pensato Gekko.
E i tulipani olandesi del seicento ne sanno qualcosa. Ma questa è un'altra storia.
So che vi starete già esaltando, al pensiero di un secondo capitolo partito anche meglio del primo, ed impreziosito da partecipazioni di lusso come quelle di Frank Langella - straordinario -, Eli Wallach - una leggenda - e la brevissima, stupenda apparizione di Charlie Sheen/Budd Fox - geniale il suo passaggio a "filantropo che si occupa di se stesso" -: eppure, con l'evolversi della trama e dell'elemento di fiction, questo ritorno a Wall Street perde il suo fascino, ed anche il coraggio che caratterizza lo spirito di competizione selvaggia che anima i suoi protagonisti nei meandri dei mercati globali.
Perchè se è vero che Jacob impara sulla sua pelle l'importante lezione di vivere la propria fortuna, invece di accumularla soltanto, risulta davvero arduo immedesimarsi in un protagonista che, sull'orlo della bancarotta - a suo dire, sia chiaro - stacca assegni da trentamila (!!!) dollari per la madre in difficoltà e si permette di gettare un milione di bonus aziendale (!!!) in azioni destinate alla svendita: onestamente, nell'happy ending telefonatissimo che Stone riserva ai suoi protagonisti e agli spettatori, con Gekko rinato, e di nuovo - e solo apparentemente - squalo e la festa di compleanno del figlio di Jacob e sua figlia Winnie in terrazza, riesce davvero difficile non pensare che tutto risulti come un vero e proprio schiaffo alla miseria, quasi come se qui si girasse un film su quanto ci costa fare la spesa e fosse proiettato in uno dei villaggi africani dove Bono dice di portare prosperità e invece si ferma solo un suo portavoce per ordinare come vanno cucite le magliette degli U2.
Il mondo sarà anche una questione di punti di vista, e l'Uomo l'animale più terribile e pericoloso esistente, ma sinceramente, avrei preferito vedere quanto "spietati" possono essere questi famelici giocatori d'azzardo che, dalle roccaforti della finanza, governano senza darlo a vedere tutti i giochi che dirigono il mondo, invece di un bamboccio qualsiasi fare la morale al piatto da cui mangia.
Buon appetito, Jacob.
E ricordati che parte di quelle ricette costosissime, la paghiamo noi, che abbiamo un mutuo sulle spalle.

MrFord

"Money, get away
get a good job with more pay
and you're ok."
Pink Floyd - "Money" -

domenica 14 novembre 2010

Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi

Ormai quasi tre mesi fa, la prima volta che Dembo e compagna fecero capolino in casa Ford, comparve, fra i doni che, come uno dei Re Magi, il suddetto Dembo si era preoccupato di consegnarmi, anche questo curioso romanzo di Tom Robbins, nell'altrettanto curiosa veste di prestito dalla durata indefinita, neppure troppo subordinato alla lettura dello stesso.
Già una volta, anni fa, ad un mio compleanno - credo fosse il 2006, se la memoria non m'inganna -, Julez aveva compiuto un'impresa simile, componendo il suo regalo, fra le altre cose, con un libro regalato ed uno prestato, ai tempi in cui eravamo amici e costituiva - ma ancora non avevo avuto modo di accorgemene adeguatamente - già una parte importante della mia Famiglia.
Ma torniamo ai feroci invalidi: passate le letture estive e con ancora in mente Lansdale, il primo approccio con l'imponente volume di Robbins mi lasciò spiazzato, non tanto da una qualità non all'altezza - tutt'altro -, quanto da un approccio decisamente blando al ritmo della vicenda scelto meticolosamente dall'autore, che, probabilmente, come il suo protagonista, nasconde senza troppo impegno una predilezione particolare per i fiumi di parole, le citazioni, i pensieri che si raccolgono senza preoccuparsi troppo di dove portino, mettendo il lettore alla prova e spostando la concentrazione dello stesso dall'evolversi della trama all'evolversi dell'eloquio di Switters.
Agente segreto in bilico fra la rozza crudeltà dei "cowboys" e l'ingessata magnanimità degli "angeli" - così vengono catalogate le due principali correnti degli uomini della CIA -, il nostro protagonista è, in assoluto e senza dubbio, uno dei personaggi più strambi, accattivanti e curiosi che mi sia mai capitato di affrontare come lettore: appassionato e leggero, armato e pacifista - nel senso "dialettico" del termine, perchè tra una chiacchierata fiume ed un colpo di pistola il nostro sceglierà sempre la prima -, integerrimo e profondamente tentabile - ne sanno qualcosa il grande amico Bobby Case, sua nonna ribattezzata Maestra e la minorenne cugina Suzy, oggetto delle sue fantasie sessuali più irrefrenabili -, da subito confonde il lettore abituato a trovarsi di fronte personaggi tutti d'un pezzo, deviando una missione ufficiale per consegnare alla Libertà il vetusto pappagallo Saylor Boy, compagno fidato della nonna da decenni, nel pieno della giungla amazzonica.
E proprio nel cuore del Brasile delle antiche tradizioni, grazie all'incontro con Oggi è domani, uno sciamano kandakandero dalla testa a forma di piramide, avverrà la prima svolta del romanzo, che porterà Switters di nuovo negli Stati Uniti su una sedia a rotelle, costretto alla meditazione e alla ricerca di una svolta che possa trasformare il suo percorso, modificare il suo Destino.
Un Destino che passa da Seattle, da Suzy e da una redenzione che lo spingerà all'azione, diretto in Medio Oriente e al deserto siriano, in cui la dimensione dei suoi pensieri, dei dubbi e degli interrogativi seminati dalla maledizione che lo ha colto prenderà forma in Domino e nelle sue consorelle, suore sul punto di essere scomunicate in bilico fra desiderio e clausura, sapere e passione, ingenuità e voglia di vivere, la Bibbia e Matisse.
In una sorta di Ultimo tango a Parigi senza morti di mezzo ed intervallato da intriganti questioni teologiche, Switters guida a questo punto il lettore nella parte più coinvolgente del romanzo, legata a doppio filo al crescente legame instauratosi con Domino, capace di passare dal vino alle profezie di Fatima, dal sesso selvaggio al romanticismo di chi condivide una vita, dal confronto con la Chiesa a Oggi è domani.
Curiosamente, nel momento in cui si arriverà alla risoluzione inevitabile della parte di vicenda legata alla maledizione, e quei cinque centimetri da terra non saranno più tali, la mente del lettore sarà talmente impegnata a riflettere sugli spunti forniti da Switters, o altrettanto distratta dalla sua leggerezza, da non aspettarsi neppure più il confronto con l'inevitabile.
Ma cos'è mai, poi, l'inevitabile?
Il Destino? La morte? Il mistero della fede? L'amore? Il sesso? Il cibo?
Chi può dirlo, finchè non viene?
Nessuno. O forse tutti noi.
Perchè se la soluzione è domani, oggi è domani.
Nel dubbio, madama carta di credito potrà sempre portarci in qualche posto esotico ed aiutarci a suon di alcool e giochi erotici a scegliere la via migliore.
Dopotutto, le donne amano i feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi.


MrFord


"And you can be my wheelchair
you can help my get by and you can help me get through.
And when I finally get out there (out there)
and do something worthwhile then I'll owe it all to you."
Arguments - "Wheelchair" -