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martedì 29 giugno 2010

Prince of Persia


Forse, con l'età, mi sto rammollendo.
Sempre più spesso, ultimamente, eccezion fatta per schifezzuole trascurabili come Scontro di titani o porcate d'autore inammissibili come Antichrist, mi capita di apprezzare anche film d'intrattenimento puro assolutamente maltrattati dalla critica, specialmente quella giovane, online e radical chic.
Che sia una sorta di inconscia presa di posizione contro quel fare da intenditori che poi tutti sappiamo celare semplicemente velleità mai espresse di aspiranti registi?
Non lo so neppure io.
Fatto sta che Prince of Persia - a tutti gli effetti un videogiocone tutto mestiere e parkour - mi ha davvero intrattenuto come si converrebbe ad un film di questo tipo.
Stravaccato sul divano sorseggiando cherry non potevo davvero chiedere di meglio al relax di una serata casalinga: Mike Newell, passato dal cinema d'autore al mestiere d'autore, porta a casa il compito assegnatogli da Disney e dai produttori confezionando un prodotto che incrocia Assassin's Creed - se ci avete giocato almeno una volta, sarà stato impossibile non notare assonanze incredibili fra il videogioco suddetto e le evoluzioni del buon principe sui tetti di Alamut - alla saga dei Pirati dei Caraibi, dalla quale eredita, specialmente grazie al personaggio interpretato da Alfred Molina e ai battibecchi fra Tamina e Dastan, quell'ironia spiccia che, dagli anni '80, traccia un netto confine fra il film d'intrattenimento che suscita noia mortale e quello che, effettivamente, tiene fede al suo nome.
In questo senso, proprio come la trilogia piratesca legata a Jack Sparrow e soci, Prince of Persia ricorda - con le dovute proporzioni - i film d'avventura mainstream che caratterizzarono il decennio della mia infanzia, e sinceramente mi trovo spiazzato dal fatto che, negli Usa come qui da noi, il successo al botteghino - dalla critica me l'aspettavo - sia stato scarso.
Non che la cosa mi preoccupi.
Essenzialmente, mi godo i salti videoludici di Dastan e l'intricata trama temporale - forse troppo intricata per il pubblico "troppo" e troppo poco per il pubblico "poco"? - senza pensare  che questo debba essere un film da ricordare, o un capolavoro del Cinema: il suo ruolo è ben altro.
Ovvero: offrire una sorta di pausa mentale di un paio d'ore scarse che non causi sonno inarrestabile o eccessi di rabbia verso regista e produttori, che somigli ad un'attrazione di Gardaland - o a un videogioco, poco importa - e che favorisca la lenta, gustosa discesa verso il sonno o la sbronza.
Quasi senza dubbio - incassi inaspettatamente bassi permettendo - ci sarà un sequel, e sinceramente, in barba all'autorialità - o forse no, visto che si parla del regista di Quattro matrimoni e un funerale e Donnie Brasco -, sarei più intrigato dal godermi di nuovo divano e cherry di fronte ad una nuova avventura di Dastan e fratelli che non al già annunciato Sherlock Holmes di Guy Ritchie, che pure, nell'ambito del divertimento senza pretese, si difendeva.
Prometto che presto sciorinerò qualche sviolinata d'essai, ma intanto, con il caldo e la voglia di ferie che incombono, non mi vergogno affatto di qualche salto mortale Playstation style.

"Might as well jump
(jump)
Go ahead an' jump
(jump)."

lunedì 28 giugno 2010

Invictus


Mi è già capitato di sottolineare quanto, a volte, sia un regista a fare il film, e non il contrario.
Invictus è uno di quei casi in cui l'uomo dietro la macchina da presa trasforma una materia che sarebbe potuta passare per didascalica e retorica in un inno non solo al valore sociale e al riscatto nella non violenza, ma anche allo sport, che in questo caso è il rugby ma potrebbe essere uno qualsiasi.
Ispirato alla reale vicenda di Nelson Mandela e dell'avventura degli Springboks, nazionale sudafricana di rugby ammessa di nuovo alle competizioni internazionali proprio nel mondiale di cui si narra nella pellicola (1995) a seguito degli anni di esilio legati agli orrori dell'apartheid, Invictus si concentra sul valore delle battaglie silenziose, combattute a fondo, in cui ci si gioca il tutto per tutto, nella grande tradizione del cinema di Eastwood, anche se, in questo caso come fu per Changeling, diversamente dalla consuetudine Clint racconta di una (grandissima) vittoria.
Sicuramente il nostro cavaliere pallido preferito è più a suo agio quando sono dei losers i suoi protagonisti, ma occorre ammettere che anche con Invictus il lavoro svolto è straordinario, e testimonia ancora una volta la grandissima capacità di rinnovarsi di un regista che, ormai ottantenne, continua ad aver voglia di percorrere nuove strade, mettendosi alla prova senza tirarsi indietro, passando da una sorta di produzione low cost come Gran Torino ad una confezione di gran lusso come Invictus, che regala anche le scene migliori che si siano mai viste su grande schermo di una partita di rugby.
Il tutto concentrandosi, come di consueto, sui personaggi, regalando al pubblico un ritratto d'eccezione di Mandela, interpretato da un grandissimo Morgan Freeman - che andrebbe ascoltato nella versione originale per comprendere a fondo il lavoro incredibile svolto dall'attore sulla dizione - senza dimenticarsi del ruolo che ebbe nell'impresa sportiva e sociale degli Springboks Francois Pienaar, capitano della squadra: eppure il vero significato del miracolo che Mandela operò - almeno parzialmente, ma questa è un'altra storia - nel cuore della "nazione arcobaleno" si comprende osservando l'evoluzione dei rapporti fra bianchi e neri, in particolare nella coesistenza dei due gruppi di guardie di sicurezza del Presidente, uniti da principio solo professionalmente, gli uni sostenitori "del gioco da selvaggi giocato da gentiluomini" e gli altri "del gioco da gentiluomini giocato da selvaggi", rispettivamente rugby e calcio, prima di quel fatidico mondiale due discipline fortemente scisse dalle differenze razziali.
Accompagnati dalle note di una colonna sonora splendida, gli Springboks, pur senza incertezza - tutti sanno che vinsero la finale contro i famigerati All blacks dell'astro nascente Lomu -, emozionano il pubblico quasi quanto allora fecero con il loro pubblico, una nazione che usciva da anni di terrore e che cominciava ad intravedere una luce alla fine del tunnel: e la loro corsa all'alba, sospinti dal pubblico delle strade, bianchi o neri che fossero, mi ha riportato alla mente Alì di Michael Mann, quando nel cuore di Kinshasa, nel corso dei suoi allenamenti prima dello storico incontro con Foreman, Cassius Clay divenne un idolo per le folle, quasi un eroe come ce n'erano dei tempi antichi, sorretto e portato come in volo dal continuo grido "Alì bumaye!".
Così, il "reazionario" Clint racconta il razzismo da una prospettiva unica e profonda, senza mai esplicitare necessariamente l'argomento, e lasciando che siano lo sport e i suoi protagonisti a dare un messaggio universale: mai come guardando Invictus mi è tornato in mente il titolo di un altro dei suoi film "minori", perfetto, in questo caso, per coniare un nuovo soprannome oltre a cavaliere pallido.
Cacciatore bianco, cuore nero.
Un'altra meta, Clint.
Sei davvero il capitano della tua anima.

"God bless Africa
raise high Her glory
hear our Prayers
God bless us, her children."
MrFord

Cop out - Poliziotti fuori

Dalle mie parti si vuole molto bene a Kevin Smith.
A prescindere.
Detto questo, occorre ugualmente ammettere che, tolti i due Clerks e il "sacrilego" Dogma, il buon Silent Bob non si può certo dire un regista di quelli da ricordare.
Poliziotti fuori - orribile adattamento italiano del gioco di parole Cop out - è simpatico, divertente a tratti, ma assolutamente lontano dall'essere - come vorrebbe - una sorta di nuovo Hot fuzz: questo principalmente perchè Kevin Smith tenta di mescolare la sua abilità di schietto e tendenzialmente volgare narratore "pane e salame" dell'amicizia virile con l'atmosfera del cinema d'azione, che, con tutti i suoi limiti, risulta sempre essere ostico per i registi che non sanno davvero confrontarsi con esso fino in fondo.
Dunque deciderò deliberatamente di ignorare l'ultimo terzo di pellicola - quello in cui l'azione, per intenderci, prende il sopravvento sull'ironia sguaiata - per consigliarvi due sane risate senza pretese con i duetti Willis/Morgan nella prima parte, arricchiti dalla presenza di Sean William Scott, nel perfetto e calzante ruolo del "jackass" simpatico mascalzone.
Attenzione, però: non stiamo parlando dei succitati Clerks, o di qualcosa di irrinunciabile. Parliamo di un film da pieno relax del sabato sera che comporta la propensione alle risate a seguito di sgangherate citazioni cinefile e monologhi su cagate da record - e crepa sulla tazza del cesso -, non di un'opera autoriale che ha nella demenzialità il suo punto di forza - leggasi L'alba dei morti dementi e Hot fuzz, per l'appunto -: si astengano, dunque, i puritani cinefili e i puritani e basta, lasciando campo a quelli che sono i veri fan di Smith, che, come fosse il nostro "regista di quartiere", continua a sfornare lavori "a misura d'uomo".
Purchè l'uomo suddetto sia disposto a un amicizia virile che ha qualcosa del rapporto di coppia e ad un sostenuto turpiloquio.
Se non fosse per altro, guardatelo almeno per il dialogo con il piccolo ladro d'auto.
Antologia totale.

"You gotta fight
for your right
to party!"
MrFord

Capitalism: a love story

Ammetto di essermi legato al dito la vittoria di Michael Moore al Festival di Cannes, nell'anno in cui la Palma sarebbe dovuta andare di diritto a Mystic river, con Fahrenheit 9/11 - peraltro il suo peggior film -, e di aver spesso criticato il Grillo made in Usa per il suo eccessivo didascalismo nonchè la sua voglia, a tratti, di sensazionalizzare il dolore della gente per piegarlo ai suoi scopi cinematografici.
Una specie di versione di qualità di Studio aperto.
Eppure gli anni mi hanno addolcito, e credo di aver finalmente realizzato quale sia stato, da Bowling a Columbine - il suo miglior film, così pareggio i conti - in poi, il suo grande merito rispetto al pubblico e alla settima arte: Michael Moore è riuscito a portare il documentario alla grande audience, mescolando gli elementi classici del documentario stesso ad una tensione da fiction e ad una presenza scenica che ricorda i format tv.
Tutti quelli che, fino a qualche anno fa, avrebbero recitato come un mantra "machepalleandareavedereundocumentarioalcinema", ora sono diventati grandi sostenitori del genere, e in alcuni casi, date le tematiche trattate da Moore, girano nei negozi spacciandosi per grandi intenditori nonchè veri alternativi.
Non tutte le ciambelle riescono col buco, del resto.
Ma occorre dare al buon Michael quel che è del buon Michael, che ha avuto la stessa importanza di Peter Jackson per il grande cinema d'avventura per il documentario, in questo inizio millennio.
Con Capitalism, così come fu con Sicko, il regista di Flint si dedica ad un tema che può essere considerato universale - in questo caso, come da titolo, il capitalismo - affrontandolo dall'interno, cercando di mostrare tutte le magagne che gli Stati Uniti hanno mostrato nella loro storia principalmente repubblicana, ed in particolare legata alle amministrazioni Reagan e Bush Junior.
Il lavoro di ricerca e più formalmente documentaristico passa decisamente in secondo piano rispetto ad un crescendo di tensione che pare più simile a quello di un film di fiction, riuscendo allo stesso modo a raccontare - in minima parte, s'intenda - tutte le porcate che i grandi amministratori di banche hanno combinato negli anni con tanto di beneplacito di congresso e presidenti: nonostante alcuni colpi bassi - Michael, basta intervistare gente in lacrime! - risultano agghiaccianti pratiche come l'induzione ad una nuova ipoteca sulla casa di proprietà o polizze sulla vita degli impiegati stipulate dalle grandi aziende speranzose del destino segnato dei loro impiegati, considerate le cifre milionarie incassate in caso di decesso.
Il tutto, ovviamente, ad insaputa delle famiglie che, ovviamente, non vedono un centesimo neanche da lontano.
Ma la qualità più importante di Capitalism sta nel fervore - pur se ironico - che Moore mette nel dichiarare ufficialmente tutto il suo disprezzo per la corsa al libero mercato, che produce una percentuale irrisoria di ricchi contro una quasi totalità di esponenti del ceto medio che annaspano tra mutui, stipendi da fame, spese mediche e posti di lavoro mai garantiti: il capitalismo come nemico della democrazia, i richiami a Roosvelt e Obama e il rimando al disastro compiuto durante e a seguito dell'uragano Katrina sono un manifesto coraggioso e potente, che apre scenari decisamente rivoluzionari per quella che è sempre stata la società a stelle e strisce, per motivi storici e "motivazionali" distante da parole come socialismo, sciopero e autogestione.
Eppure, nel momento del bisogno, le realtà del mondo, a prescindere dai retroterra culturali e storici, divengono incredibilmente simili: e prima di ritrovarci a dover davvero combattere quella scarsissima percentuale di miliardari che dominano il mondo da dietro una scrivania perchè ci avranno tolto il diritto di voto, converrà cominciare a presentare alternative valide, e dal nostro piccolo cambiare passo passo il grande.
In fondo, quei signori miliardari non avrebbero nulla, se non fosse per noi.
Moore pare suggerire: "Proviamo a togliere loro la sedia mentre vi si gettano, pronti ad un'altra entusiasmante giornata al posto di comando".
E io rispondo: "Perchè no?"
In fondo quelli non sono mai stati abituati a stare col culo per terra.

"If you don't like my fire,
then don't come around,
cause I'm gonna burn one down."
MrFord

sabato 26 giugno 2010

Il secondo tragico Fantozzi

Mi dispiace iniziare dal secondo, ma di sicuro ci sarà spazio, presto o tardi, di parlare anche del primo.
Fantozzi e tutta la sua "saga" sono divenuti, ormai, parte integrante della cultura popolare italiana, andanto ben oltre il Cinema e il suo pubblico: il personaggio creato da Paolo Villaggio, allora alla sua seconda serie di disavventure sotto la guida esperta di Luciano Salce, mostra tutta la sua incredibile potenzialità di sconfitto regalando un intero bagaglio di congiuntivi sbagliati, situazioni lavorative al limite dell'assurdo, una rivalsa che arriva solo una volta ogni tanto, e mai con gli effetti desiderati.
Il ragioniere più noto del cinema italiano è sempre sulla corda, in equilibrio fra la risata e la triste presa di coscienza, circondato da personaggi che escono dall'essere macchiette finendo per entrare nella realtà quotidiana di chiunque - in quegli anni, ma non solo - abbia affrontato le più classiche situazioni "da ufficio", la consapevolezza di essere solo un ingranaggio del sistema, la fatica ad arrivare a fine mese e le aspirazioni mai espresse.
Tutto questo incorniciato da alcuni degli episodi divenuti storici per tutti i fan del personaggio ed i cultori del cinema di genere italiano: il viaggio a Montecarlo con il Semenzara, la cena di gala finita con l'inseguimento del terribile cane della contessa Serbelloni Mazzanti, l'immacolata concezione, il rifacimento de "La corazzata Potemkin" - in barba a tutti i radical chic cinematografici - e la fuga a Capri con la famigerata signorina Silvani.
Il finale, inoltre, come fu per il primo capitolo, diviene lo specchio della condizione dell'impiegato inevitabilmente ed inesorabilmente costretto ad asservirsi al potere, incarnato da un mega direttore galattico dall'aura quasi divina che elargisce un perdono che assume i connotati di una sorta di pena da girone dantesco: perchè il ritorno tra le braccia sicure dell'azienda ha un prezzo che va pagato, ed accolto con gratitudine, come il boccone amaro di una cena natalizia preparata dall'inossidabile signora Pina, moglie stoica e coraggiosa emblema di generazioni di casalinghe con la famiglia sulle spalle.
In fondo, anche il buon Fantozzi, vessato dalla vita e dal lavoro, riesce a esorcizzare le sconfitte con un solido "ma chi se ne frega".
Forse perchè è ben cosciente che la forza che cela quel suo piccolo corpo è più grande di qualsiasi divinità aziendale. E non solo.

"Sveglia e caffè,
barba è bidet:
presto, che perdo il tram."
MrFord

giovedì 24 giugno 2010

Italia-Slovacchia (2-3)

Avevo detto che ci si giocava tutto, e così è stato.
Per la seconda volta nella storia, l'Italia è fuori dai mondiali nella fase a gironi.
Due pareggi e una sconfitta, tutti meritati, contro avversari assolutamente alla nostra portata.
Dopo il trionfo di Berlino, un tonfo che è quasi pari a quello del mondiale 2002, quando fummo eliminati dalla Corea del Sud agli ottavi di finale.
Dovrei essere indignato per la qualità di gioco espressa, deluso dal risultato, abbattuto, e quant'altro.
E invece no.
Perchè gli ultimi dieci minuti di Italia-Slovacchia hanno valso tutta la pena delle quasi tre partite giocate degli azzurri: tensione, incertezza, speranza, delusione, emozioni a non finire di quelle che solo i mondiali, e solo lo sport, possono regalare.
Il bello di praticare, giocare, seguire una competizione di questo tipo - calcio o qualsiasi altra disciplina sia - è affrontare tutta la gamma di emozioni che noi, da esseri umani, primitivi e passionali, possiamo provare: lasciarsi andare allo stomaco, al cuore, al sudore, a tutto quello che ci fa sentire fisicamente vivi è qualcosa di indescrivibile, che va oltre ogni sogno infranto o realizzato.
E' stata una cavalcata brevissima, ma i suoi ultimi istanti hanno valso tutta l'apatia precedente.
Alziamo la testa e guardiamo a chi rimane, questa volta sportivamente - del resto anche la Francia è tornata a casa - e che gli altri si giochino il tutto per tutto e regalino più spettacolo possibile.
Questa volta tocca a noi tenere i cavalli.
In fondo è un ruolo che non mi ha mai spaventato.

"Soy un perdedor,
I'm a loser baby, so why don't you kill me."
MrFord

Educazione di una canaglia


Premetto che uno dei miei romanzi preferiti in assoluto, parlando di cuore e stomaco, è Come una bestia feroce, sempre del buon vecchio Edward Bunker.
Vi sarà capitato, nel corso degli anni '80 e '90, di vedere questo losco figuro fare comparsate in pellicole come Il cavaliere pallido di Clint Eastwood o Le iene di Quentin Tarantino, giusto per citarne due di quelle poco note.
Un pò meno probabile, ma potreste aver anche incrociato Animal factory di Steve Buscemi, tratto dall'omonimo romanzo, ed ispirato palesemente alle esperienze che l'autore fece nelle prigioni di San Quentin e Folsom, in pieno stile Johnny Cash.
Ed Bunker ha fatto suo in pieno - e in anticipo sui tempi, essendo una ventina d'anni più vecchio - l'assunto di Lansdale che consiglia ad ogni narratore o aspirante tale di cimentarsi nella materia che più conosce, in modo da favorire una prosa potente quanto sincera: di più non si potrebbe dire, del suo stile.
Se non che uno che ha passato praticamente due terzi della prima metà della sua vita in carcere o in strutture simili, ed è sopravvissuto riuscendo a portare a compimento il sogno di diventare uno scrittore - e che scrittore -, è solo che da rispettare.
Educazione di una canaglia è l'autobiografia che Bunk si è concesso, dopo quattro romanzi pubblicati, a sessantacinque anni, in modo da fare i conti con il suo passato e mostrare al pubblico e ai suoi lettori la vera genesi delle sue opere - che ho sempre divorato, nonostante la mia spudorata preferenza per il già citato Come una bestia feroce, suo primo lavoro pubblicato -: dall'infanzia a Los Angeles agli istituti di correzione minorile, dal complesso rapporto con il potere alla prima permanenza a San Quentin a soli diciassette anni, da una famiglia disgregata e assente alla figura ispiratrice di Louise Fazenda, ex attrice di muto nonchè compagna di Hal Wallis, uno dei più potenti produttori dell'epoca d'oro degli Studios hollywoodiani, dalla recidività alla fuga, dalla maturità nel mezzo delle guerre razziali in carcere fino alla realizzazione dei propri sogni.
La sincerità e l'affidamento alla memoria non sempre giovano alla tecnica e all'uniformità del lavoro compiuto, ma c'è da dire che onestamente non credo che a Bunker interessasse questo, quanto fare luce - quasi più per se stesso - sui suoi ricordi in modo da pareggiare ogni conto in sospeso possibile con il passato: è evidente, infatti, quanto Educazione di una canaglia sia sbilanciato nel racconto sull'infanzia e la gioventù di Bunk, più che sulla sua maturità e vecchiaia, quasi la felicità e la realizzazione, insieme ad un'umana nostalgia dei propri "tempi migliori", rendessero l'autore evidentemente più motivato e felice di raccontare momenti pure terribili della prima parte della sua vita.
Ad ogni modo, il messaggio più importante che traspare dalle pagine sta tutto nella volontà ferrea del suo autore, che fa della caparbietà e della perseveranza due doti fondamentali per affrontare una vita al capo opposto della semplicità senza mai pensare di smettere di camminare, fare marcia indietro o fermarsi.
Il tutto con l'onestà di una quasi dichiarazione di colpevolezza: perchè se non ce l'avesse fatta con la scrittura, avrebbe continuato la sua carriera criminale.
Un'ammissione che rende ancora più umani i suoi già incredibilmente vivi personaggi, e che permette di rivisitare - o scoprire - i suoi romanzi vivendoli ancora più in profondità.
Se non ci credete, passate dalle parti di Max Dembo.
Nessuno può uscire indenne da un incontro come quello.
E ve ne dico un'altra, se non vi basta tutto questo ben parlare di Educazione di una canaglia, che pur se in forma di romanzo, ha tutte le funzioni di un saggio: Come una bestia feroce è il Delitto e castigo dei nostri tempi.
Fate voi.
E anche se in ritardo: so long, Ed.
Spero tu ce l'abbia fatta ancora una volta.


"San Quentin, what good do you think you do?
Do you think I'll be different when you're through?
You bent my heart and mind and youmay my soul,
and your stone walls turn my blood a little cold."
MrFord



martedì 22 giugno 2010

I predatori dell'arca perduta

Alzi la mano chi ancora non si emoziona, diverte e gode uno qualsiasi dei capitoli della saga di Indiana Jones.
Figuriamoci il migliore.
Raramente, nella storia recente del Cinema - forse, eccetto Nolan con i suoi Batman -, un regista è riuscito così clamorosamente a trasformare un prodotto prevalentemente d'intrattenimento trasformandolo in oggetto di culto amato in egual misura dal grande pubblico e dalla "nicchia" che finge di non venire coinvolta da operazioni di questo genere: Spielberg, allora nella sua forma migliore, grazie ad un soggetto trasformato in una sceneggiatura scoppiettante da Lawrence Kasdan, omaggia fumetti, cinema d'avventura degli anni '30 e '40, commedia romantica e cinema d'azione, indovinando uno dei personaggi più carismatici e amati del cinema americano, quell'Indiana Jones un pò stronzo e un pò nerd, Don Giovanni e impacciato tentatore, coraggioso avventuriero e professore imbarazzato cui da volto un Harrison Ford che neppure nei panni di Han Solo ha avuto così tanta fortuna.
La sequenza d'apertura, in cui l'eroe si vede appena, è la sintesi perfetta di quanto efficace possa essere una pellicola di genere, ed è solo l'inizio di una vera e propria sarabanda che cattura, diverte e riesce a parlare universalmente a qualunque spettatore, in barba ad età e convenzioni sociali e cinematografiche.
Gli storici inseguimenti, le corse a perdifiato per salvarsi la pelle dalle trappole mortali tese dalle popolazioni antiche, il confronto con "i cattivi" per antonomasia - i nazisti, che ritroveremo nel terzo capitolo della quadrilogia - con in palio il ritrovamento dell'Arca dell'alleanza, i duetti scoppiettanti Harrison Ford/Karen Allen, scene di culto come il colpo di pistola al minaccioso egiziano armato di scimitarra sono solo l'inizio di un'avventura unica, e di una ricetta perfetta che rende I predatori dell'arca perduta il simbolo del cinema d'intrattenimento intelligente, oltre al principio di una saga amatissima e seguita dagli spettatori di tutto il mondo, pur se rimanendo - parlando criticamente, senza mettere i sentimenti - il miglior prodotto dei quattro che accompagneranno Indiana Jones in avventure sempre più sorprendenti.
Di sicuro, è un ottimo modo per tornare bambini senza perdere tutto il gusto di essere cresciuti: e rimanere meravigliati ad ogni visione successiva è qualcosa che, come dice il sommo poeta Mastercard, non ha prezzo.

"But it might sound like a disaster
can you make this thing go faster?"
MrFord

lunedì 21 giugno 2010

Il grande Lebowski

A volte si incontra un film, che non è semplicemente un film.
Ma è il film giusto, nel posto giusto, al momento giusto.
E questo è Il grande Lebowski, dei Coen, nel 1998.
Più o meno in questo modo comincia la narrazione dello Straniero, che ci introduce all'indimenticabile vicenda che vede come suo centro di gravità poco permanente il Drugo, al secolo Jeffrey Lebowski, pigro da competizione, white russian addicted - come dargli torto!? -, gran giocatore di bowling e detective improvvisato di stampo chandleriano: ma in realtà non è questo, quello che importa.
Così come non importano una colonna sonora perfetta, una sceneggiatura da scuola del Cinema, attori in forma splendida - restate ammirati guardando e riguardando Seymour Hoffman -, una sequenza mai vista di prodigiose scene di culto - impossibile enumerarle e rigorosamente citarle tutte - e una regia senza alcuna sbavatura.
Il grande Lebowski è un film che cambia la vita, inesorabilmente.
E' come uno spartiacque fra la Forza e il Lato oscuro, Gandalf e Saruman, DeNiro e Pacino, e qualunque altro grande dualismo causa di dilemmi eterni appartenente alla storia della settima arte: dopo aver visto questo film la prima volta, niente sarà più lo stesso.
Sinceramente, non ricordo il numero esatto di passaggi che il Drugo ha avuto sui televisori che hanno fatto la mia storia, ma certamente superano i dieci, e probabilmente i venti, e ogni anno, da parecchio tempo a questa parte, il primo giorno d'estate dedico la serata proprio a lui, che riesce a farmi proprio ridere - almeno qualche volta - come e più di quanto non l'abbia fatto quando ho incrociato per la prima volta la sua strada, tanti anni fa.
Lo Straniero sussurra che è confortante avere un Drugo in giro, ed è proprio così che stanno le cose. 
Il grande Lebowski è stato il secondo dvd che ho acquistato nella mia vita, nell'ormai lontano 2000, quando ancora il bluray non esisteva, e fresco fresco di Playstation 2 potevo finalmente passare al nuovo formato superando le vecchie cassette che registravo con mio fratello a centinaia dalla tv.
L'ho mostrato ad amici, fidanzate, più o meno fidanzate, e ho imparato nel frattempo a concedermi qualche spinello ogni tanto e molti più white russians.
L'ho messo in visione in più occasioni in negozio, cercando di accalappiare quanti più nuovi "drughisti" possibili.
Ci ho ripensato quando sono uscito di casa ed ho rubato una bellissima maglietta con l'effige "The dude", sempre a mio fratello.
E quando ad Amsterdam, passando per un mercatino, ne ho trovata un'altra che portavo anche oggi, per festeggiare estate e nuova visione.
E' stato un sostegno nei momenti in cui lo spirito mancava, e mi sentivo una merda ambulante senza alcuna prospettiva.
Mi ha fatto ridere a Sidney, quando sul finire del viaggio di nozze, nello studio di Tony Coen, stavo dolorosamente resistendo alle ultime fasi del tattoo sul petto, e si facevano pause per ridere dei confronti fra Walt e il Drugo. 
Ho ancora quella copia, me l'hanno regalata.
E sono stato di nuovo felice stasera, quando per la prima volta dopo tre anni Julez l'ha finito con me, stravaccati sul divano tra fragole con panna, Jack Daniels, il Cherno-culo di Mia e Diego, rincitrullito come al solito.
Ora sono qui, e vi sarete accorti che del film non ho parlato quasi per nulla.
Ma non serve.
Perchè a volte si incontra un film, che non è semplicemente un film.
Ma è il film giusto, nel posto giusto, al momento giusto.
Questi sono i film della vita.
Diventano parte di te, e la tua storia parte di loro.
Perchè è così che la dannata commedia umana prosegue, e si perpetua.
Amen, Straniero.

"A volte sei tu, che mangi l'orso.
E a volte è l'orso che mangia te."
MrFord

Italia - Nuova Zelanda (1-1)


Avevo parlato, a seguito dell'entusiasmante esordio della Nazionale con il Paraguay, della costanza quasi scientifica che permette agli azzurri - e qui calo immediatamente un velo pietoso sul ricamo presente sui colletti delle maglie dei ragazzi - di tenere sul filo i tifosi praticamente ad ogni occasione possibile, rendendo ogni passo di una competizione un vero e proprio calvario per lo spettatore.
La partita di ieri con la Nuova Zelanda - una squadra atleticamente preparatissima, tecnicamente pari all'ultima delle formazioni di quartiere, o delle isole Far Oer - è stata un ottimo esempio della lenta agonia cui l'Italia sottopone ogni suo sostenitore al pari degli appassionati di calcio di tutto il mondo: ottantotto minuti di tentativi d'attacco che hanno prodotto un unico gol - su rigore - e un palo che pareva quasi un miracolo di quel Dio del calcio che ha deciso di darsi malato, prevedendo la discesa in campo della nostra squadra portabandiera.
Di contro, gli amici Kiwi "all whites", memori dei loro colleghi di successo del rugby, in quei due minuti avanzati, hanno prodotto tre azioni, segnando un gol su calcio piazzato - come il Paraguay - e rischiando di mettere dentro altre due pere, cosa impedita principalmente dai limiti tecnici dei giocatori neozelandesi.
Il confronto fra volume di gioco prodotto e risultato ottenuto pende, dunque, clamorosamente in favore dei nostri certo non irresistibili avversari.
Ma per quale motivo, sarà venuto da pensare a ognuno di voi come al sottoscritto, la nazionale campione del mondo arranca con una squadra che solo per la seconda volta nella sua storia si affaccia alla fase finale di un mondiale, festeggiando ogni punto come una vittoria in finale?
Sarà per le scelte di Lippi, che ha deciso di optare per una squadra fatta di giocatori di cuore invece di singoli di talento, e che si è scoperto, invece, difettare - e non solo - nel suddetto "reparto"?
Sarà per un attacco sterile formato dall'irresistibile tandem di imbullonati Iaquinta e Gilardino, nonchè dai pericolosissimi Pazzini - ma è davvero entrato nel secondo tempo? - e DiNatale - rivoglio RobertoBaggio!!! -?
Sarà per una difesa che dimentica gli avversari dando l'impressione di una nave pronta all'affondamento a bordo della quale il capitano non ha alcuna voglia di sbattersi ancora per timonare e in cui ci si affida in tutto e per tutto all'intervento "divino" di Avemaria Marchetti?
Sarà perchè i nostri avversari segnano gol irregolari - patetica l'autoconvinzione dei nostri commentatori - e ci danno dentro di gomito?
Sarà perchè stiamo conservando le cartucce migliori per quando affronteremo l'Olanda - che finora ha sempre vinto - negli ottavi di finale, sorprendendo pubblico e critica sfoderando talento e bel gioco annichilendo gli orange?
Sarà perchè il già citato e famoso in tutto il mondo deretano italiano non ha ancora fatto capolino negli stadi sudafricani?
Chi può dirlo!?
Intanto, giusto per non essere da meno rispetto alla premiata ditta Civoli/Bagni, la sparo grossa anch'io.
Giovedì pomeriggio, con la Slovacchia, ci aspetta la gara più importante di questo mondiale.
Dentro o fuori, con un unico risultato favorevole. La vittoria.
Come al solito, critiche a parte, saremo tutti lì, con i ragazzi, come se nulla, ieri, fosse accaduto.
Cosa che, in effetti, è stata.
Ma volete proprio che esageri?
Se dovessimo finalmente portare a casa i tre punti per la prima volta, e superare indenni questo girone ormai dantesco, Olanda o Brasile che ci attendano, arriveremo dritti in finale.
Non chiedetemi perchè, in fondo lo sapete già.

"Perchè la terra dei cachi
è la terra dei cachi."
MrFord

Ninja assassin

C'era una volta James McTiegue, allievo che superava i maestri - i fratelli Wachowski, creatori della troppo osannata trilogia matrixiana - sfornando un action movie di livello davvero sorprendente qualche anno fa, in un periodo politicamente rischioso, raccontando le gesta di V, leggendario personaggio orwelliano creato dal genio Alan Moore negli anni '80 sulle pagine di una delle graphic novel più importanti dell'ultimo quarto di secolo di fumetto.
V per vendetta aveva tutti i contenuti del cinema d'azione in senso classico, ma riusciva a catturare con un ritmo vertiginoso e contenuti morali profondi anche il pubblico più ricercato.
C'era una volta, per l'appunto.
Perchè il secondo film di James McTiegue è Ninja assassin.
Che non è esattamente in grado di suscitare nello spettatore le stesse emozioni del suo predecessore.
Peccato davvero, perchè gli effetti e le parti dedicate all'azione c'erano tutte - i ninja che entrano ed escono dalle ombre e i combattimenti al limite del gore sono davvero notevoli -, così come le idee di base - vendetta, riscatto morale, perdita e riconquista dei valori umani -: ma la sceneggiatura - firmata Sand&Straczynski, che chissà mai cosa si sarà fumato prima di mettersi a scrivere questa - e la lenta, inesorabile debacle all'interno dei clichè del film di genere cui si assiste nella seconda parte inabissano inesorabilmente risultato e regista.
Nonostante, dunque, un inizio tutto sommato gradevole capace di richiamare - pur se con i debiti paragoni - Batman begins e il confronto fra la volontà di Wayne di raddrizzare i torti e quella della setta delle ombre di porsi oltre la giustizia, il tentativo di inserire nella storia elementi da spy story - imbarazzante tutta la parte dedicata alle indagini e alle pressioni sugli agenti che decidono di schierarsi al fianco del ninja ribelle Raizo - e la susseguente discesa negli abissi dell'action movie con il protagonista che prende un sacco di botte tanto alla fine ce la fa sempre, perchè gli altri sono mille ma nessuno è come lui diventa, purtroppo, di una disarmante banalità capace solo parzialmente di essere coperta dai fiumi di sangue in pieno stile Kill Bill che sprizzano in ogni dove.
Rientriamo sempre - bene assicurarlo - nel calderone dei titoli inutili in una videoteca personale ma ugualmente innocui, capaci di fare il loro mestiere riempiendo una serata il cui primario bisogno è dato dal profondo relax.
E, come sempre, la durata non eccessiva è un pregio da non sottovalutare.

"I've been watching,
I've been waiting,
in the shadows for my time."
MrFord

sabato 19 giugno 2010

Scala al paradiso

Esistono alcuni film che incarnano il vero e proprio potere magico del Cinema, quell'illusione capace di far provare un senso di stupore e meraviglia anche di fronte alla fantasia, al suo utilizzo e a trame che, applicate ad ogni altra pellicola simile - solo fatta male - suonerebbero almeno almeno ridicole.
Scala al paradiso è uno di questi film.
Quei cari, insostituibili capolavori che in genere vengono trasmessi per caso in tv sotto Natale, o in estate, pensando che tanto nessuno si preoccuperà più di tanto se mancano i blockbuster o le trasmissioni più seguite, e se li farà andar bene: spesso, quando capitano di queste cose, il pubblico finisce per essere ipnotizzato dalle immagini così insolite, "antiche", in qualche modo, eppure irresistibili di queste pellicole.
La vita è meravigliosa di Capra è il primo esempio di questa specie ormai più che estinta, così come può esserlo Il terzo uomo di Reed: ebbene, se non l'avete ancora gustato, aggiungete a questa schiera anche Scala al paradiso, un vero e proprio gioiellino firmato Powell e Pressburger, due veri e propri mostri sacri del Cinema dell'epoca dei grandi studios, e in generale - soprattutto per quanto riguarda Powell, che firmò cose gigantesche come Scarpette rosse e L'occhio che uccide -.
Sapiente miscela di fantasy e realismo, commedia e dramma, grande storia d'amore e satira sociale, questo film ipnotizza con dialoghi che paiono gli antenati dell'umorismo grottesco che esploderà con i Monty Phyton e una cura visiva straordinaria, ricca di trovate assolutamente geniali legate all'utilizzo del colore e del b/n - applicati il primo alla realtà come la conosciamo, i secondi all'aldilà - e a rappresentazioni indimenticabili come il tribunale dell'altro mondo che con l'allontanarsi della macchina da presa assume la forma di una galassia a spirale e la scala che da il titolo alla pellicola, celata oltre la via lattea, marmorea ed apparentemente infinita.
A questo si aggiungano personaggi azzeccati e in pieno rispetto della brillantezza della commedia romantica del tempo, e il tema, appunto, dell'amore, capace di superare anche la neppure troppo celata "guerra fredda" fra inglesi e americani con le rispettive visioni della vita e della libertà, legato a doppio filo a quelli della morte, della capacità di affrontarla e, soprattutto, della seconda possibilità, elemento cardine anche di La vita è meravigliosa.
Una favola simile a quelle che si ascoltano da piccoli e mantengono intatto il loro fascino anche quando i ruoli si ribaltano e siamo noi a tramandarle ai nostri figli e nipoti, che sfido davvero chiunque a non apprezzare, si parli di Cinema o di semplice piacere.
Se vi gira, godetevelo, perchè quasi fosse uno slogan, viene proprio da dire che non ne fanno più, così.

"When all are one and one is all,
to be a rock and not to roll.
And she's buyin' the stairway to heaven."
MrFord

venerdì 18 giugno 2010

Francia - Messico (0-2)


Una delle lezioni più importanti dello sport è senza dubbio il contegno di origine praticamente cavalleresca che ci insegna e suggerisce di essere praticanti e sostenitori sempre equilibrati ed obiettivi, anche quando si è più direttamente coinvolti.
Esistono, però, due eccezioni inviolabili per questa regola: la prima è data dai momenti in cui è la propria squadra a scendere in campo in occasioni importanti - e in questo caso è comunque umanamente possibile riuscire a gestire la tensione e mantenersi tutto sommato tranquilli - e la seconda si verifica quando undici dei ventidue ad inseguire il pallone sono i nostri amatissimi cugini transalpini.
Mi ero ripromesso di postare i commenti solo ed esclusivamente dedicati alle partite dell'Italia, ma di fronte allo spettacolo di ieri sera, non ho davvero resistito: come in una vorticosa ellissi di matrice lostiana - a Messico '86 fummo eliminati impietosamente proprio dalla Francia di Platini con lo stesso risultato del match di neanche ventiquattr'ore fa - i bleus guidati da Mr. Simpatia Domenech hanno incassato una sonora batosta che rischia prepotentemente di prenotare per loro il volo di ritorno in patria dopo l'ultima partita del girone di qualificazione, che li vedrà opposti ai padroni di casa del Sudafrica, anche loro messi non proprio benissimo, considerato che Uruguay e Messico potrebbero optare per l'ormai famosa torta e ipotecare il passaggio di turno soltanto pareggiando.
Ma non voglio che questo post sia una mera cronaca, o un'opinione sportiva.
Lo sport, qui, è rimasto a casa. E' presente soltanto l'incontenibile gaudio che suscitano i volti spaesati dei galletti, da Henry avvolto nella giacca a vento in panchina agli sguardi interrogativi dei suoi compagni in campo, a cercare da qualche parte una risposta all'interrogativo principale della loro serata: cosa ci facciamo qui?
Sinceramente non lo so neanche io, considerato che la mia sempre cara Irlanda è stata lasciata a casa proprio da una "mano de Dios" del succitato Henry, ma di certo i messicani lo sapevano bene: e come una vendetta divina, il trentasettenne con la buzza numero dieci dei "sombreros", entrato nella ripresa, schianta le speranze di rimonta francesi con un rigore impeccabile, mosso dallo spirito del suo complicatissimo nome di battesimo che ricorda quello del serpente piumato Quetzalcoatl.
E nel tripudio generale dei messicani che si abbracciano formando una montagna umana ci confondiamo nella festa sfruttando le somiglianze dei nostri tricolori, rivedendo Zidane a testa bassa che lascia lo stadio subito dopo l'espulsione nella finale di Berlino, confidando che gli ottavi di questo Sudafrica 2010, i blues se li guardino seduti comodi nelle loro poltrone parigine.
Detto questo, sempre che domenica i Kiwi non ci diano una pettinata altrettanto memorabile.
Nel frattempo, mi scopro natio di Tijuana, brindo a tequila e inneggio al bolso Quetzalcoatl del miracolo, che mi viene incontro segnando la vittoria mentre io penso al suo "labiale" che, inconfondibilmente, dichiara, tottianamente parlando: "Due pere, adesso a casa!".
Evviva il fair play.

"Allons enfants de la Patrie,
le jour de gloire est arrivè!"
MrFord

mercoledì 16 giugno 2010

Voglio la testa di Garcia

Peckinpah ha una lunga, gloriosa tradizione, nel mio cuore di cinefilo nonchè grande appassionato di western. 
E non solo.
Il suo gusto crepuscolare, le storie fatte di estremo romanticismo e pessimismo senza fine da sempre aprono una breccia unica nel mio cuore: da Cable Hogue al Mucchio selvaggio, passando per Junior Bonner, il buon vecchio Sam ha sempre avuto il proiettile giusto per stendermi.
Voglio la testa di Garcia non è da meno, e rappresenta, in qualche modo, pur non raggiungendo le vette di altre sue opere, una vera e propria summa della poetica del regista, capace di spaziare creando atmosfere idilliache, quasi bucoliche, e attimi di violenza terribili da sostenere anche solo con il pensiero.
Bennie e la sua compagna, con i loro sogni di coppia quasi fuori tempo massimo, di fronte al mondo intorno, fatto di tanta animalità quanta solo il più crudele dei predatori - leggasi Uomo - può mostrare, mosso dalle realtà di vendetta, gelosia, brama di denaro o di potere, zoppicano appassiti prima ancora che l'inevitabile autunno giunga a livellare, per usare una metafora nostrana.
Così come Pike Bishop e i suoi del mucchio, i protagonisti sanno che le loro aspirazioni avranno un triste epilogo ad attenderle, simili al destino di Alfredo Garcia, amore impossibile della figlia di un ricco possidente disposto a porre una taglia sulla testa dell'uomo che non sarà mai padre di suo nipote e di torturare la sua erede solamente per il gusto di mostrare il suo potere.
Eppure, come il Dillinger di Michael Mann, i cuori seguitano a battere, a credere in un futuro che cambierà il giro dei dadi al tavolo della vita, un futuro che prevede notti romantiche sotto le stelle e che la realtà muterà inesorabilmente in incursioni di uomini che paiono viscose minacce della notte placabili soltanto attraverso sparatorie all'ultimo sangue.
Nessuno è destinato a salvarsi, in questo mondo di frontiera che pare assotigliarsi sempre più senza voler mai del tutto scomparire, e la presenza surreale della componente religiosa - che riporta alla mente Jodorowski, e prima ancora Bunuel - e dei monologhi da antologia che Bennie recita come se la testa di Garcia fosse ancora cosciente e viva rendono questa sensazione ancora più potente e terribile, ricca di sfumature e dura come solo Peckinpah ci ha abituato ad essere.
Il dialogo sul valore religioso dei cadaveri è dirompente, e anche se tutto questo sembrerà solo un gran pippone da cinefilo di quelli che ho criticato fino a ieri, vi dico che Cinema come questo - dei registi al momento in giro credo che solo Johnnie To potrebbe riuscire in qualcosa di simile - sia più unico che raro, difficile da descrivere ed assolutamente indimenticabile da vivere.
Quindi, invece di perdervi nelle mie chiacchiere, fate una cosa buona e giusta: prendete coraggio, e provateci.
Ma sappiate che con il vecchio Sam - ragazzo del West, del resto -, non si torna più indietro.


"Oh baby baby it's a wild world,
it's hard to get by just upon a smile."
MrFord
 

martedì 15 giugno 2010

Italia - Paraguay (1-1)

L'ultima partita di un mondiale che mi è capitato di vedere è stata memorabile sotto ogni punto di vista.
Correva il luglio 2006, venivo di corsa da una convention di fumetti a Novara nelle vesti di autore - ricordo che finimmo il limoncello dell'osteria dove cenammo - e, nel grande teatro del Palacucco, rimasi con il fiato sospeso fino all'ultimo - e decisivo - rigore calciato da Grosso.
Era una vita - nel 1982 ero troppo piccolo per ricordare qualcosa - che inseguivo una vittoria dell'Italia ai mondiali, sfumata più volte dal dischetto - 1990, 1994, 1998 -, e mi trattenni il più possibile, almeno fino alla certezza di poter finalmente veder sollevata la coppa.
Al mio fianco, durante quella fatidica lotteria, c'era Julez, che nel frattempo, da amica che chiamai il giorno seguente per sapere come e con chi ero tornato a casa - tutt'ora non ricordo cosa accadde, da un certo punto in poi di quella notte - è diventata mia moglie.
In quattro anni molte cose possono cambiare, ma alcune, inevitabilmente, restano: l'emozione di un mondiale è sempre grande, e l'approccio dei "ragazzi", non ci sono ct e formazioni che tengano, è lo stesso.
Con gli azzurri occorre straordinariamente soffrire, non importa quale squadra ci si trovi a fronteggiare.
Neanche il certamente non insidioso Paraguay, una squadra che ha le stesse probabilità di vincere il mondiale di Cassano ai tempi delle convocazioni.
Del resto, è ormai di buon auspicio, per noi, patire tremendamente il girone di qualificazione per poi liberare il famoso cuore italiano - a volte è stato più aulicamente chiamato culo - dagli ottavi in poi.
Speriamo che, anche quest'anno, la gloriosa tradizione del deretano sia dalla nostra parte, nonostante l'antipatia evidente del Paul Newman di Viareggio e l'assoluto anonimato della nostra compagine - ma davvero ci credete che il numero dieci è Totò Di Natale!?!?!? -, che ci delizia con la schiena rotta di Buffon, i buchi di Cannavaro, l'imbullonamento al campo di Zambrotta e Iaquinta, la grazia femminea di Montolivo e la corsa senza requie e senza ragione di Pepe, che forse dovrebbe prendere fiato, per evitare di ciccare clamorosamente ogni passaggio - o tiro - alla fine di una sgroppata.
Non a caso l'assist per il gol di DeRossi è venuto proprio dal suo piede, su palla inattiva. Inattiva, appunto.
Ad ogni modo, poteva andarci peggio, e la fiducia resta, anche se sono ben lontani i giorni in cui era Roberto Baggio a farci sognare.
Domenica ci aspetta la Nuova Zelanda, una delle mie mascotte di questo Sudafrica 2010, che se esiste un Dio del calcio dovremmo seppellire almeno con un sonoro quattro a zero: ma visto che, almeno nel caso degli azzurri, niente è certo, voglio guardare avanti senza pensarci troppo, confidando in quello che, fondamentalmente, continua a farmi trepidare in queste occasioni. L'emozione.
Perchè se liberiamo la mente dalle banalità, il calcio - come ogni altro sport, visto con gli stessi occhi e lo stesso entusiasmo - è come il Cinema: una grande epopea che esiste con l'intento di fabbricare meraviglia, capace di divertire e commuovere, interpretata da grandi stelle e comparse invisibili ed orchestrata da registi a volte d'eccezione.
E se vi era rimasto anche un solo, lontanissimo dubbio che io fossi uno di quei cinefili che a parte la poltrona della sala e il radicalchicchismo non pensano neppure ad avvicinarsi ad un pallone, fugatelo senza paura.
Qui si gioca, si tifa - con goduria, mica frustrazione come i signori della Lega Nord che ho letto aver esultato al gol del Paraguay -, si sogna.
Tanto, una scusa per la sbronza post partita, si trova sempre.

"Po, poroppoppò, po."
MrFord

lunedì 14 giugno 2010

Glee


L'universo delle serie tv, specialmente dopo l'avvento di Lost, ha conosciuto una seconda giovinezza negli ultimi dieci anni, sfornando prodotti per tutti i gusti e dalla qualità insolitamente elevata per lo standard cui il piccolo schermo ci aveva abituati.
Sempre più difficile, dunque, pensare di poter essere sorpresi, ancor più trovarsi di fronte ad un fenomeno capace di coinvolgere e stupire fette di pubblico diverse fra loro: negli ultimi anni - sempre dopo Lost, per intenderci - queste realtà sono state così poche da poter essere contate sulla punta delle dita, e di recente solo Dexter e True blood hanno avuto i numeri per essere inserite nel novero.
Tutto questo fino allo scorso autunno, quando Glee ha fatto la comparsa sugli schermi Usa divenendo da subito un cult per critica, pubblico e celebrità, che hanno cominciato a fare a gara nel volersi conquistare uno spazio musicale all'interno della serie - Madonna e Lady Gaga, giusto per dirne due di quelle poco note -, che ha trionfato ai Globes e strabiliato nella prima metà della stagione d'esordio per spontaneità, freschezza, un cast azzeccatissimo e una cura della parte legata alle canzoni e alla loro esecuzione pressochè perfetta.
Le favole, però, restano tali, e alla ripresa dopo la pausa invernale, Glee torna cambiato, deludendo da subito le schiere di fan che cominciano a trovarlo pretestuoso, attento solo al fenomeno di moda creatosi attorno alla serie e alle canzoni, e privo di quella semplicità e della carica che l'avevano portato alla ribalta.
La scrittura stessa degli episodi pare inoltre essere rimasta vittima di quello che io chiamo "effetto Dreamworks", fenomeno per il quale un film d'animazione è costruito attorno alle figure di simpatici protagonisti che infilano una gag dietro l'altra - nel caso di Glee si parla di canzoni - che messe tutte in fila vanno a costituire il minutaggio della pellicola.
Per farla breve: spessore della storia zero.
Così, stancamente, e più che altro mosso dalla curiosità per le canzoni scelte e dei conseguenti nuovi arrangiamenti - ho personalmente adorato le versioni di Shout it out loud e Beth dei Kiss e ancor più di Loser di Beck - mi avviavo a concludere la stagione pensando a quanto sarebbe stato difficile attendere con impazienza il prossimo anno per continuare a seguire le avventure dei ragazzi del professor Schuester.
E proprio quando la speranza pareva perduta, Ryan Murphy e soci decidono di concludere la serie nel pieno spirito che li aveva guidati alla sua genesi e al suo principio, e confezionano un season finale che, senza dubbio, può essere considerato l'episodio migliore della stagione - pur tenendo nel cuore una preferenza personale per quello dedicato al rapporto fra Kurt e suo padre -: intitolato "semplicemente" Journey, in quaranta minuti riesce a dare l'interpretazione perfetta di quello che è lo spirito della serie così come una summa dell'idea che ne ha dato l'ossatura artistica.
I New directions si ritrovano ad affrontare le regionali, che potrebbero significare il loro successo o l'ultimo atto del club, fronteggiando i rivali di sempre - i temutissimi Vocal adrenaline -, la gravidanza di Quinn e la presenza nella giuria dell'acerrima nemica di Will Schuester, l'allenatrice al vetriolo Sue Sylvester, portando come cavallo di battaglia un medley dei Journey, che avevano sancito la loro nascita come club e che esprimono quanto, in un viaggio, sia molto più importante il tragitto stesso che non la meta raggiunta.
Pensando all'età dei protagonisti, al loro rapporto con il professor Schuester e con la scalata al vertice delle regionali, è interessante quanto bene siano riusciti gli autori a condensare l'idea di un serial "di formazione" ad un tempo ironico, divertente, educativo e intelligente, requisiti troppo spesso colpevolmente assenti dalle produzioni "teen oriented".
Ovviamente non svelerò nulla di questo finale, ma posso dire di essermi ricreduto sulle potenzialità che credevo perdute di questa serie, e che mi ritrovo ad attendere, al contrario di ogni previsione, con grande impazienza la seconda stagione.
Il bello degli outsider è proprio questo: a volte riescono a stupirti come nessun vincente è in grado di fare.

"Workin' hard to get my fill,
everybody wants a thrill,
payin' anything to roll the dice
just one more time."
MrFord
 

domenica 13 giugno 2010

La prima cosa bella

Capita, a volte, quando guardo un film profondamente italiano, di trovarmi stupito di quanto palesemente provinciali e scontati riusciamo ad essere, a dispetto del glorioso passato cinematografico del nostro paese, soprattutto legato al trentennio che va dalla fine dei quaranta alla fine dei settanta.
Rossellini, De Sica, Visconti, Risi, Monicelli, Rosi e soprattutto Fellini - ma ce ne sarebbero molti altri, da citare - riuscivano, spesso e volentieri, a raccontare storie culturalmente e sociologicamente figlie del "bel paese" senza per questo risultare alieni al panorama d'esportazione, o figli degli stereotipi classici da italiano in vacanza.
Negli ultimi anni, complici gli sfaceli dell'ultimo Festival di Venezia - qualcuno ha detto Baaria!? - pareva fosse impresa ardua ritrovare quello spirito tutto cuore che da sempre ha contraddistinto anche le opere più tecniche e raffinate dei registi di casa nostra, ed io stesso cominciavo a rassegnarmi a dichiarare morta la commedia all'italiana nel senso più puro del termine, e mi vedevo costretto a rifugiarmi nei meravigliosi ma principalmente artistici universi di Bellocchio e Sorrentino.
Quand'ecco che Virzì, dai tempi di Ovosodo mai così brillante, mi sfodera una sorpresa sincera, emozionante, ben recitata e coinvolgente come La prima cosa bella.
Costruito sulle vicende di una famiglia a partire dall'estate del 1971, sviluppa due linee temporali parallele che raccontano, dal punto di vista dei figli Bruno e Valeria, le vicende di Anna, donna tutta cuore e bellezza, impulsiva e non troppo di cultura - ma istintiva e sveglia -  come un Fellini, per l'appunto, l'avrebbe voluta, dal momento della sua incoronazione a mamma più bella della spiaggia fino agli ultimi giorni da malata terminale di cancro.
La prima, grande trovata di regista e sceneggiatori parte proprio da qui: perchè se il punto di vista della narrazione - Bruno e Valeria - appare scontato nel presente della storia, diviene stimolante e tremendamente efficace nel passato, quando i due, prima bambini, poi adolescenti inquieti, vivono il trauma della separazione dei genitori e le vicissitudini conseguenti quasi spiandole dal buco di una serratura, senza mai avere un quadro completo delle situazioni e dei personaggi che le vivono, o avendolo secondo una loro personale interpretazione di voci ed opinioni, spesso figlie di calunnie e maldicenze.
Sarà il presente a fornire ai due, ormai adulti e problematici almeno quanto i genitori decenni prima, le risposte che, nel tempo, hanno imparato a tacere - Valeria - o evitare - Bruno.
Intorno, una galleria di personaggi che paiono usciti dall'amarcord casalingo di ognuno di noi, e che assumono i connotati di parenti, amici e compagni di viaggio che mostrano - da bravi esseri umani - il meglio e il peggio che possono offrire alla vita.
Emblematica, in questo senso, la figura della zia, dapprima istintivamente detestabile e, di seguito, sinceramente compresa anche per le sue scelte peggiori.
Virzì riesce, dunque, ad azzeccare il più possibile in un film ad alto rischio di retorica ed "italianità", coinvolgendo ed emozionando, riuscendo anche a far passare in secondo piano le scelte meno azzeccate della sceneggiatura - il fratello Cristiano, il matrimonio e la morte di Anna - rispetto ai momenti migliori - i bambini che corrono verso la madre maltrattata dal conte, il set del film di Risi, il confronto fra Bruno e il padre all'esterno del negozio di articoli sportivi -.
Tutto questo senza contare il fatto che il regista livornese riesce, per la prima volta, a farmi apprezzare - e a rimanere a bocca aperta - di fronte ad un'interpretazione di Stefania Sandrelli, da me personalmente sempre detestata.
All'interno di un cinema, accanto al figlio, con tutta la saggezza delle persone d'esperienza e le lacrime che le rigano il viso, riesce a portare sullo schermo, e nei suoi occhi, la vera, grande bellezza di tutte le mamme.

"Viva la mamma,
affezionata a quella gonna un pò lunga,
così elegantemente anni '50,
sempre così sincera."
MrFord

Gli abbracci spezzati

Almodovar è uno che ama il Cinema. Ma proprio tanto.
La sua passione, figlia di tutto il calore che la cultura popolare assegna alla Spagna, ha da sempre reso i suoi lavori a loro modo unici ed ipnotici, dai più ai meno riusciti, e devo ammettere che, pur non avendo il buon Pedro ancora scritto la parola capolavoro nella sua filmografia, non ha quasi mai tradito le mie aspettative, mantenendo una costanza di rendimento invidiabile nel corso degli anni.
Gli abbracci spezzati è, da questo punto di vista, perfettamente in linea con la produzione del regista madrileno: un'opera complessa, fotografata splendidamente e ritmata dai battiti dei cuori dei protagonisti, incapaci - come tutti i personaggi firmati Almodovar - di resistere alle loro passioni, siano essere positive oppure no.
Non stiamo parlando - e qui interviene il gusto personale - di lavori splendidi come Carne tremula, Parla con lei o Donne sull'orlo di una crisi di nervi - tutt'ora i miei preferiti -, ma di una sorta di incompleta improvvisazione capace comunque di trasmettere al pubblico tutto l'amore che il regista prova per la settima arte.
E se, rimanendo in tema, Scorsese con il suo The aviator aveva liberato la furia di una produzione titanica, Pedrito pare preoccuparsi, al contrario, solo delle emozioni intime che il Cinema è in grado di suscitare, che sono specchio della vita ma non solo: possono significare morte - come nel caso della triste storia di Lena -, rinascita - nella figura di Mateo Blanco/Harry Caine -, redenzione - Ray X e Judit, crescita - Diego -.
E nell'esplorazione di tutti questi volti così diversi, l'importanza dell'immagine - o meglio, della sua essenza - assume dimensioni sempre maggiori grazie all'utilizzo dell'ultimo film realizzato da Mateo Blanco, fatto montare con intenti distruttivi dal produttore Ernesto Martel, reso folle dalla gelosia per Lena.
Il passaggio - e il ritorno - di Mateo Blanco passerà proprio attraverso il confronto con un passato tenuto segreto per troppo tempo, che libererà le immagini dalle catene della colpa - così faccio qualche citazione cinematografica anche io - per riconsegnare ai protagonisti e al pubblico - grazie ad uno squisito omaggio a Donne sull'orlo di una crisi di nervi - tutto il valore di quelle vite e di quella pellicola.
E ad un tratto, come solo la magia del grande schermo può, quegli abbracci spezzati paiono ricomporsi.
"Occorre sempre portare a termine un film, anche alla cieca", sussurra Mateo Blanco al giovane Diego e alla ritrovata Judit.
Lui, che ha perso la vista per il mondo, ma non quella per il Cinema.
Il mezzo del futuro, caro Pedro, il mezzo del futuro.
Che posso dirti, se non che hai tutto il mio appoggio?
Continua ad amarlo così, e noi non potremo che ringraziare.

"Solo y ya sin ti,
me tienes como un perro herido
me tienes como un ave sin su nido
estoy solo como arena sin su mar."
MrFord

venerdì 11 giugno 2010

Firefox - Volpe di fuoco


Questo è davvero un omaggio da fan incallito del buon vecchio Clint, ma devo proprio ammetterlo: Firefox è peggio de La recluta.
La costruzione, così come l'esecuzione, non ha nulla che non vada rispetto alla media oggettiva dei film di genere, tranne, forse, qualche eccesso di fiducia nella faciloneria del pubblico tipico dei film horror o d'azione, eppure tutto sommato regge, anche negli effetti speciali ormai onestamente datatissimi.
Quello che davvero rema contro Firefox - senza dubbio il peggior film di Clint regista, anche se potrei averlo già detto con il già citato La recluta, e in quel caso mi rimangio tutto - è dato principalmente dall'assoluta mancanza di ironia - presente in tutti i film "minori" del Nostro - e dalla scarsità di un crescendo di tensione, necessario per una pellicola d'azione che non voglia correre il rischio di annoiare lo spettatore, invece che incollarlo allo schermo.
Sembra, in qualche modo, di stare a guardare un episodio di 24, in cui, nonostante le difficoltà presenti e costanti, nessuno ha il dubbio che, alla fine, Jack Bauer verrà davvero messo alle corde: così è per Firefox, come 24 prodotto in uno spirito reaganiano/repubblicano che non aggiunge effettivamente nulla alla filmografia di Clint, e che al contrario mi fa pentire di non aver parlato prima dei suoi veri capolavori, anche se personalmente mi sento soddisfatto di riuscire a stroncare un lavoro del mio regista di culto, perchè significa che, nonostante tutto, la mia ragione funziona ancora, e riesce a tenere a bada menosità potenziali ed istintività pura e semplice.
Ad ogni modo non tutto il male viene per nuocere, e occorre ammettere che i semi del pentimento che il pilota Mitchell Gant - reduce del Vietnam e reso vulnerabile dal senso di colpa nato dalla morte di una ragazzina davanti ai suoi occhi - coltiva nel corso di tutta la pellicola, uniti al sacrificio degli agenti e scienziati doppiogiochisti al "servizio" del Kgb sono in grado di mostrare, anche se alla lontana, i cambiamenti che coinvolgeranno l'approccio politico di Eastwood al Cinema negli anni a venire.
Tornando ad essere "freddo", invece, devo dire che, se non siete amanti del cinema del "cavaliere pallido", o non lo conoscete e vi apprestate a farlo, questa è la pellicola meno indicata per cominciare in quanto, principalmente, mero esercizio che solo un fan di vecchia data, con in mente e nel cuore impresse ben chiare le immagini dei suoi capolavori, può gestire e gustare come si fa con un omaggio o un ricordo.
Ma nulla di più.
Se volete il vero Clint, dirigetevi altrove.
Onestamente, sarò ben lieto di guidarvi.
Se, poi, la strada vi suonerà bene, vorrà dire che un giorno o l'altro ci ritroveremo a ridere e sbronzarci di fronte a questo miracoloso jet figlio degli anni della guerra fredda.

"It would be such an ignorant thing to do,
if the russians love their children too."
MrFord 

giovedì 10 giugno 2010

Il porto delle nebbie


Poche storie, Marcel Carnè è uno di quei mostri sacri che hanno fatto la storia del Cinema.
Francese e non.
E mi viene da sorridere quando sento gli universitari un pò tronfi e molto radical chic straparlare a proposito Godard, Truffaut e soci figli delle rivoluzioni degli anni sessanta e settanta quando in realtà quelle stesse rivoluzioni sono frutto del lavoro dei grandissimi veri, Carnè in testa.
Quando un regista regala agli spettatori - e attenzione, qui non conta saperne o non saperne, essere appassionati o battersene i cosiddetti, si parla di capolavori e basta - Les enfants du paradis si dovrebbe assistere a qualsiasi sua opera in silenzio religioso ringraziando che ci sono dei Maestri di questo livello: immagino che non sia possibile, se non in un mondo ideale in cui Carnè è conosciuto e gustato dal pubblico indiscriminatamente, e così, in attesa di parlare del succitato punto cardinale del Cinema sponsorizzo più forte che posso Il porto delle nebbie, una sorta di brumosa ed invernale versione de Il bandito della Casbah di Julien Duvivier, altro supercapolavorone, accomunato a Il porto delle nebbie dal protagonista e da una storia dal finale amarissimo e legata all'irrealizzabilità dell'amore.
Ma se nel caso del bandito lo spirito che mescolava latinità e medioriente - una Algeri così neanche Pontecorvo, l'ha mostrata - trasmetteva ugualmente una voglia di vivere dirompente, con Il porto delle nebbie si assiste ad una versione più dimessa e pessimistica del tentativo di fuga del braccato protagonista, lo spigoloso disertore Jean.
Specchio del suo carattere pare essere il porto di Le Havre e lo sviluppo della trama, quasi interamente basata sulle suggestioni della fotografia e sui dialoghi scritti da Prevert, che trova negli scatti d'ira e di romanticismo del protagonista uno sfogo soltanto parziale, accumulando energie e tensione fino al finale, uno dei più terribili e pessimistici del cinema dell'epoca, e ancora oggi capace di sconvolgere lo spettatore e toccare corde che il tempo e i cambiamenti che esso porta nella società non possono aver cambiato.
La nebbia che pesa come un macigno, quasi fosse solida, tagliata dalle vane speranze di Jean e, soprattutto, della sua innamorata Nelly, è indipendente da mode ed epoche, dagli spettatori e dalle convenzioni "naturali" del Cinema e di tutti i suoi sottogeneri.
E' semplicemente grande.
E come tale andrebbe gustato.

"But i can't let you go,
if I let you go,
you slip into the fog."
MrFord

mercoledì 9 giugno 2010

Dralion


Vedo già il dubbio insinuarsi nelle vostre smorfie, all'idea che io stia per parlare di uno spettacolo del Cirque du soleil, fenomeno di costume che è stato, specialmente nei primi anni del nuovo millennio, un vero e proprio tormentone, nonchè miele per le api radical chic con la volontà di cavalcare un nuovo fenomeno e per quelle operaie che non vedevano l'ora di mostrarsi all'avanguardia.
Cancellatevi ogni ghigno dalla faccia, ragazzi cari.
Qui non si ha di fronte solo una moda del momento, ma qualcosa che ha cambiato le regole del circo inteso come tutti noi lo abbiamo sempre inteso, tra cinema e zingari, bancarelle di luna park e manifesti coloratissimi attaccati nei sottopassaggi dei grigi svincoli delle nostre tangenziali.
Il Nouveu cirque - ecco che la mia Julez diviene consulente tecnico fondamentale -, di cui il Cirque du soleil è portabandiera, ribalta il concetto del tendone almeno quanto Lost ha fatto con quello di serial tv: per prima cosa la storia, o il concetto della stessa, è base e punto focale dell'intero spettacolo, non più basato solo ed esclusivamente sul susseguirsi di numeri completamente scollegati l'uno dall'altro, magistralmente eseguiti e giocati sulla ricerca dell'applauso e dell'effimero decretarsi di un successo.
Qui si parte da un concetto, per poi allargarsi a macchia d'olio.
Certo, i numeri ci sono, e assolutamente incredibili: cose da mille e una notte, che sono frutto dell'unione di un talento artistico innato e di decenni, anni, ore, minuti, secondi di allenamento costante. Ma tutti, e proprio tutti, nella confezione, sono al servizio di un'unica idea, o trama - se così si può chiamare -, che in Dralion in particolare gioca sull'abilità di "confondere" il pubblico con i trucchi dei suoi protagonisti per poi sferrare i colpi decisivi grazie all'apporto stupefacente dei clowns, totalmente innovativi rispetto al concetto tradizionale di questa malinconica figura, tutti eccezionali artisticamente, e capaci di smitizzare l'aura quasi magica dello spettacolo in una rilettura tanto moderna quanto leggera.
Una specie di The prestige.
Certo, io parlo da profano totale, quindi ora accantono i pipponi da chi finge di saperne e ammetto senza pudore di essere rimasto per quasi tutto il tempo strabiliato - oltre che divertito, considerati, oltre i succitati clown, siparietti da perla come il cantante in stile Piton - dai numeri che questi incredibili artisti sono in grado di produrre: cose come il passaggio di giocoleria con le palle - che detto così suona proprio strano - o il numero dei ragazzini in equilibrio sui "palloni" - qui ancora più strano - o i tessuti tramutati in storia d'amore dai due Romeo e Giulietta in blu richiamano tutto il mistero e il fascino dello "spettacolo più grande del mondo", e valgono senz'altro da soli il tempo della visione.
Eppure c'è qualcosa che è impossibile descrivere, in questo mondo nuovo che ho iniziato ad esplorare.
Qualcosa che ricorda il Cinema.
Il passaggio che vuole una storia narrata al centro di tutto, capace di venire prima anche dello sfoggio tecnico più impensabile.
Ma andando oltre la storia e l'innovazione del Nouveau cirque, dello spettacolo, della sua trama e dei suoi numeri, la cosa principale è che guardando Dralion mi sono sentito come uno dei tanti bambini con il sorriso pieno e lo sguardo rivolto al cielo che di sfuggita vengono inquadrati.
La meraviglia, cari ragazzi, è il cuore più grande del più grande spettacolo del mondo.
Che è il Circo.
O il Cinema?
Forse un pò tutti e due.


"No one leaves til the night is done,
the amplifier starts to hum,
the carnival it's just begun.
You're in the psy,
you're in the psycho-circus...
And I say welcome to the show!"
MrFord