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venerdì 18 giugno 2010

Francia - Messico (0-2)


Una delle lezioni più importanti dello sport è senza dubbio il contegno di origine praticamente cavalleresca che ci insegna e suggerisce di essere praticanti e sostenitori sempre equilibrati ed obiettivi, anche quando si è più direttamente coinvolti.
Esistono, però, due eccezioni inviolabili per questa regola: la prima è data dai momenti in cui è la propria squadra a scendere in campo in occasioni importanti - e in questo caso è comunque umanamente possibile riuscire a gestire la tensione e mantenersi tutto sommato tranquilli - e la seconda si verifica quando undici dei ventidue ad inseguire il pallone sono i nostri amatissimi cugini transalpini.
Mi ero ripromesso di postare i commenti solo ed esclusivamente dedicati alle partite dell'Italia, ma di fronte allo spettacolo di ieri sera, non ho davvero resistito: come in una vorticosa ellissi di matrice lostiana - a Messico '86 fummo eliminati impietosamente proprio dalla Francia di Platini con lo stesso risultato del match di neanche ventiquattr'ore fa - i bleus guidati da Mr. Simpatia Domenech hanno incassato una sonora batosta che rischia prepotentemente di prenotare per loro il volo di ritorno in patria dopo l'ultima partita del girone di qualificazione, che li vedrà opposti ai padroni di casa del Sudafrica, anche loro messi non proprio benissimo, considerato che Uruguay e Messico potrebbero optare per l'ormai famosa torta e ipotecare il passaggio di turno soltanto pareggiando.
Ma non voglio che questo post sia una mera cronaca, o un'opinione sportiva.
Lo sport, qui, è rimasto a casa. E' presente soltanto l'incontenibile gaudio che suscitano i volti spaesati dei galletti, da Henry avvolto nella giacca a vento in panchina agli sguardi interrogativi dei suoi compagni in campo, a cercare da qualche parte una risposta all'interrogativo principale della loro serata: cosa ci facciamo qui?
Sinceramente non lo so neanche io, considerato che la mia sempre cara Irlanda è stata lasciata a casa proprio da una "mano de Dios" del succitato Henry, ma di certo i messicani lo sapevano bene: e come una vendetta divina, il trentasettenne con la buzza numero dieci dei "sombreros", entrato nella ripresa, schianta le speranze di rimonta francesi con un rigore impeccabile, mosso dallo spirito del suo complicatissimo nome di battesimo che ricorda quello del serpente piumato Quetzalcoatl.
E nel tripudio generale dei messicani che si abbracciano formando una montagna umana ci confondiamo nella festa sfruttando le somiglianze dei nostri tricolori, rivedendo Zidane a testa bassa che lascia lo stadio subito dopo l'espulsione nella finale di Berlino, confidando che gli ottavi di questo Sudafrica 2010, i blues se li guardino seduti comodi nelle loro poltrone parigine.
Detto questo, sempre che domenica i Kiwi non ci diano una pettinata altrettanto memorabile.
Nel frattempo, mi scopro natio di Tijuana, brindo a tequila e inneggio al bolso Quetzalcoatl del miracolo, che mi viene incontro segnando la vittoria mentre io penso al suo "labiale" che, inconfondibilmente, dichiara, tottianamente parlando: "Due pere, adesso a casa!".
Evviva il fair play.

"Allons enfants de la Patrie,
le jour de gloire est arrivè!"
MrFord

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