Orlando, sì.
Che non è il film, ma la città in Florida.
E' lì che io e Julez passeremo qualche giorno divertendoci come bambini fra gli Universal Studios e The wizarding world of Harry Potter, soggiornando bel belli all'Hard rock hotel.
Tutto questo grazie ad una proverbiale botta di culo - per dirla come il bardo -.
Ci si risentirà al nostro ritorno.
Tabaccai permettendo (ma questa è un'altra storia).
MrFord
"Born in the Usa
I was born in the Usa."
Bruce Springsteen - "Born in the Usa"-
Pagine
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domenica 26 settembre 2010
Appuntamento con l'amore
E' un'impresa quasi titanica pensare di postare un film come questo dopo aver scritto di Inception.
A dire il vero, sarebbe difficile parlare di qualsiasi pellicola, dopo la monumentale fatica di Nolan.
Quindi perdonate ogni possibile mancanza d'ispirazione a fronte della mia promessa di provarci, a rendere queste righe almeno lontanamente interessanti.
Per prima cosa, posso dire che mi aspettavo di molto peggio: una schifezza subumana alla Bride wars, tanto per citarne una.
Invece, pur se scritto e diretto peggio, Appuntamento con l'amore ricorda più La verità è che non gli piaci abbastanza, tra le commediole sentimentali americane sicuramente una delle più guardabili delle ultime stagioni.
Anche in questo caso - e in misura maggiore - il cast è nutritissimo, e vanta i volti più amati e semplicemente belli - ma belli belli belli in modo assurdo - di serie tv e film di genere, orchestrati cercando di realizzare una sorta di lavoro corale, intrecciando vicende e storie in maniera disuguale e non sempre azzeccata, eppure funzionale, per quanto possa concedere un perfetto film da popcorn e divano al femminile del sabato pomeriggio.
Per quanto mi riguarda, posso tranquillamente dichiarare che l'intero film è valso le vicende di Bradley Cooper ed Eric Dane - rispettivamente il Will di Alias e lo Sloane di Grey's anatomy, idoli del pubblico femminile -, solo apparentemente in un ruolo nel loro standard, Taylor Lautner - il Jacob della saga di Twilight - che inciampa facendo gli ostacoli e i bloopers inseriti con i titoli di coda, in pieno Pixar style.
Meno riusciti, tornando ai personaggi, l'ottimista a tutti i costi di Ashton Kutcher, i come di consueto insipidi Topher Grace e Anne Hathaway e il traditore Patrick Dempsey, qui in un ruolo diametralmente opposto - ma sempre chirurgo - del suo Derek Shepard, per nulla aiutato da un cambio di doppiaggio inspiegabile.
Ora, forse mi sento troppo buono e non sto maltrattando troppo la sceneggiatura tendenzialmente scolastica o l'effettivamente eccessiva durata - una mezzora e qualche personaggio in meno non sarebbero stati affatto male -, ma dovrete perdonarmi anche questo.
In fondo, dopo essersi goduti una cosa abnorme come Inception, ho quasi pensato che fosse sopportabile Jamie Foxx che suona il piano alla festa contro il S. Valentino scimmiottando la sua stessa interpretazione in Ray.
Ma solo forse.
Diciamo che potreste trovare film molto peggiori di questo, ma, pur rimanendo nel contesto "film romantico da vedere con la propria metà o con quella che vorreste lo diventasse", non è certo il primo della lista: un caso eclatante, insomma, di pellicola assolutamente mediocre.
Che non è poi così male, rispetto ad abomini che troppo spesso passano sul grande schermo, ma pur sempre pochino rispetto a un genere che, già di suo, non è troppo florido di film memorabili.
Chi ha detto Inception?
Mi pare che siano stati Bradley Cooper e Eric Dane, laggiù in ultima fila.
Sì, ragazzi. Avete proprio ragione.
Inception è un film memorabile.
Sapevo che non ce l'avrei fatta.
MrFord
"Cupid,
draw back your bow,
I am begging your arrow flow
straight to my lover's heart
for me, nobody but me."
Amy Winehouse - "Cupid"-
A dire il vero, sarebbe difficile parlare di qualsiasi pellicola, dopo la monumentale fatica di Nolan.
Quindi perdonate ogni possibile mancanza d'ispirazione a fronte della mia promessa di provarci, a rendere queste righe almeno lontanamente interessanti.
Per prima cosa, posso dire che mi aspettavo di molto peggio: una schifezza subumana alla Bride wars, tanto per citarne una.
Invece, pur se scritto e diretto peggio, Appuntamento con l'amore ricorda più La verità è che non gli piaci abbastanza, tra le commediole sentimentali americane sicuramente una delle più guardabili delle ultime stagioni.
Anche in questo caso - e in misura maggiore - il cast è nutritissimo, e vanta i volti più amati e semplicemente belli - ma belli belli belli in modo assurdo - di serie tv e film di genere, orchestrati cercando di realizzare una sorta di lavoro corale, intrecciando vicende e storie in maniera disuguale e non sempre azzeccata, eppure funzionale, per quanto possa concedere un perfetto film da popcorn e divano al femminile del sabato pomeriggio.
Per quanto mi riguarda, posso tranquillamente dichiarare che l'intero film è valso le vicende di Bradley Cooper ed Eric Dane - rispettivamente il Will di Alias e lo Sloane di Grey's anatomy, idoli del pubblico femminile -, solo apparentemente in un ruolo nel loro standard, Taylor Lautner - il Jacob della saga di Twilight - che inciampa facendo gli ostacoli e i bloopers inseriti con i titoli di coda, in pieno Pixar style.
Meno riusciti, tornando ai personaggi, l'ottimista a tutti i costi di Ashton Kutcher, i come di consueto insipidi Topher Grace e Anne Hathaway e il traditore Patrick Dempsey, qui in un ruolo diametralmente opposto - ma sempre chirurgo - del suo Derek Shepard, per nulla aiutato da un cambio di doppiaggio inspiegabile.
Ora, forse mi sento troppo buono e non sto maltrattando troppo la sceneggiatura tendenzialmente scolastica o l'effettivamente eccessiva durata - una mezzora e qualche personaggio in meno non sarebbero stati affatto male -, ma dovrete perdonarmi anche questo.
In fondo, dopo essersi goduti una cosa abnorme come Inception, ho quasi pensato che fosse sopportabile Jamie Foxx che suona il piano alla festa contro il S. Valentino scimmiottando la sua stessa interpretazione in Ray.
Ma solo forse.
Diciamo che potreste trovare film molto peggiori di questo, ma, pur rimanendo nel contesto "film romantico da vedere con la propria metà o con quella che vorreste lo diventasse", non è certo il primo della lista: un caso eclatante, insomma, di pellicola assolutamente mediocre.
Che non è poi così male, rispetto ad abomini che troppo spesso passano sul grande schermo, ma pur sempre pochino rispetto a un genere che, già di suo, non è troppo florido di film memorabili.
Chi ha detto Inception?
Mi pare che siano stati Bradley Cooper e Eric Dane, laggiù in ultima fila.
Sì, ragazzi. Avete proprio ragione.
Inception è un film memorabile.
Sapevo che non ce l'avrei fatta.
MrFord
"Cupid,
draw back your bow,
I am begging your arrow flow
straight to my lover's heart
for me, nobody but me."
Amy Winehouse - "Cupid"-
Inception
Alla fine è arrivato.
Ed è più difficile pensare a quello che non scriverò, o non potrò scrivere, o non vorrò scrivere, che a tutto quello che preme per uscire, e schiaffarsi sul foglio bianco per riuscire a rendere la profonda, stupefacente grandiosità di quest'opera.
Si potrebbe definire Inception partendo dal vecchio concetto del "c'era una volta", tanto caro alle fiabe, e cominciare a pensare che, a qualche decennio da ora, questa sarà una delle pellicole che definirà il futuro passato della settima arte, scindendo tutto ciò che c'era prima e dopo di lei.
O tornare indietro come faranno in quell'anno a venire cui facevo cenno poco fa, al 1941 per l'esattezza, più precisamente al momento in cui uscì nelle sale Il mistero del falco di John Huston, noir da leggenda che ruotava attorno ad una fantomatica statua - il falco del titolo, per l'appunto - "fatta della materia di cui sono fatti i sogni".
Un altro modo è chiudere gli occhi e pensare a quanto struggente, passionale, terribile, magico, incredibile possa essere l'amore che ci cambia la vita, e passando attraverso i ricordi cinematografici del percorso di una coppia che scorre in Up o della malinconia da utopia irrealizzabile di Nemico pubblico - quasi curioso che la protagonista sia la stessa Marion Cotillard - venate dai terribili segreti di una coppia distrutta come in Shutter island - e qui è il protagonista, Leonardo DiCaprio, ad essere in comune alle due pellicole -.
E' anche possibile pensare alla complessità e alla stratificazione della scrittura, e passando per la critica associare, per importanza, impatto e potenza, Inception a Bastardi senza gloria. Aldo Reine, al termine dell'incredibile lavoro di Tarantino, afferma di essere riuscito a confezionare il suo capolavoro. In qualche modo, potrebbe fare lo stesso il Cobb di Nolan.
Tutto questo senza dimenticare l'indimenticabile esperienza visiva che questo film riserva agli spettatori, portando meraviglia ed una riflessione sulla tecnologia: si parla tanto di 3D, di effetti strabilianti, di tentativi sempre più complessi per "entrare" nell'azione narrata sullo schermo. Eppure, guardando Inception, le sue architetture e le vertiginose, elegantissime evoluzioni di macchina, qualsiasi occhiale pare uno strumento inutile di fronte all'incredibile effetto "fiato sospeso" che danza fra cadute, piroette e tempi dilatati.
Il concetto che fu sostegno del primo Matrix pare un ponticello di fiammiferi confrontato con questo Golden Gate per occhi e mente orchestrato dallo strabiliante illusionista Christopher.
E a proposito di illusioni, con Inception Nolan porta un passo oltre la magia che aveva sconvolto gli spettatori di The prestige - personalmente il mio film del cuore del regista inglese -, continuando ad affrontare il tema dell'inganno e, se possibile, portando lo stesso ad un livello ancora superiore, scardinando i meccanismi del pensiero ed innescando un gioco a scatole cinesi alla ricerca del "trucco perfetto", quello da cui si può scegliere se essere ingannati oppure no, se vivere oppure no, se tornare o abbandonarsi.
Come mio fratello ricordava al termine della visione, citando La Bamba, in cui uno sciamano recitava al giovane Ritchie Valens "vivere è dormire, e morire è svegliarsi": che sia vero, oppure no, poco importa.
La grandezza dell'illusione sta nella possibilità di poter pensare di fare entrambe le cose.
Ed eccomi di nuovo qui, a pensare a quanto è stato, e a quanto e come sarà ogni prossima visione - perchè un film come questo non smette mai di insegnarci qualcosa -, a cercare di controllare il fiume di parole ed emozioni che, alla distanza, stanno premendo come una montagna d'acqua una diga minuscola il mio cuore e la mia mente di fronte ad Inception.
Vorrei poter liberare il tutto, e lasciare che l'onda del racconto, delle idee, delle immagini travolga il post, me, voi, senza pensare a quello che avete visto, o potrete vedere, o credete di aver veduto.
Vorrei potermi tuffare, scendere il più profondamente possibile, come un'apnea in cui si possa respirare profondamente, godere di quegli abissi, e poi tornare indietro con un salto, giusto per capire quanto possa essere grande il sogno e quanto infinitamente più potente sia la realtà.
Perchè è proprio quella realtà a generarli. Tutti i sogni. Tutti i tuffi. Tutti i salti.
E per capire questo, non ho bisogno di un totem danzante che sia capace di riportarmi a quando "eravamo giovani insieme".
Lo guardo lì, sospeso, e resto stupito.
Cosa avete scelto, voi? Cosa sceglierete?
Io rabbrividisco, sospiro, e alla fine penso che cercherò sempre, anche e soprattutto di fronte a questa meraviglia, di "guardare in faccia la realtà".
Il sogno più grande è proprio quello.
MrFord
"Sweet dreams are made of this,
who am I to disagree
I travel the world and the seven seas
everybody's looking for something."
Eurythmics - "Sweet dreams" -
Ed è più difficile pensare a quello che non scriverò, o non potrò scrivere, o non vorrò scrivere, che a tutto quello che preme per uscire, e schiaffarsi sul foglio bianco per riuscire a rendere la profonda, stupefacente grandiosità di quest'opera.
Si potrebbe definire Inception partendo dal vecchio concetto del "c'era una volta", tanto caro alle fiabe, e cominciare a pensare che, a qualche decennio da ora, questa sarà una delle pellicole che definirà il futuro passato della settima arte, scindendo tutto ciò che c'era prima e dopo di lei.
O tornare indietro come faranno in quell'anno a venire cui facevo cenno poco fa, al 1941 per l'esattezza, più precisamente al momento in cui uscì nelle sale Il mistero del falco di John Huston, noir da leggenda che ruotava attorno ad una fantomatica statua - il falco del titolo, per l'appunto - "fatta della materia di cui sono fatti i sogni".
Un altro modo è chiudere gli occhi e pensare a quanto struggente, passionale, terribile, magico, incredibile possa essere l'amore che ci cambia la vita, e passando attraverso i ricordi cinematografici del percorso di una coppia che scorre in Up o della malinconia da utopia irrealizzabile di Nemico pubblico - quasi curioso che la protagonista sia la stessa Marion Cotillard - venate dai terribili segreti di una coppia distrutta come in Shutter island - e qui è il protagonista, Leonardo DiCaprio, ad essere in comune alle due pellicole -.
E' anche possibile pensare alla complessità e alla stratificazione della scrittura, e passando per la critica associare, per importanza, impatto e potenza, Inception a Bastardi senza gloria. Aldo Reine, al termine dell'incredibile lavoro di Tarantino, afferma di essere riuscito a confezionare il suo capolavoro. In qualche modo, potrebbe fare lo stesso il Cobb di Nolan.
Tutto questo senza dimenticare l'indimenticabile esperienza visiva che questo film riserva agli spettatori, portando meraviglia ed una riflessione sulla tecnologia: si parla tanto di 3D, di effetti strabilianti, di tentativi sempre più complessi per "entrare" nell'azione narrata sullo schermo. Eppure, guardando Inception, le sue architetture e le vertiginose, elegantissime evoluzioni di macchina, qualsiasi occhiale pare uno strumento inutile di fronte all'incredibile effetto "fiato sospeso" che danza fra cadute, piroette e tempi dilatati.
Il concetto che fu sostegno del primo Matrix pare un ponticello di fiammiferi confrontato con questo Golden Gate per occhi e mente orchestrato dallo strabiliante illusionista Christopher.
E a proposito di illusioni, con Inception Nolan porta un passo oltre la magia che aveva sconvolto gli spettatori di The prestige - personalmente il mio film del cuore del regista inglese -, continuando ad affrontare il tema dell'inganno e, se possibile, portando lo stesso ad un livello ancora superiore, scardinando i meccanismi del pensiero ed innescando un gioco a scatole cinesi alla ricerca del "trucco perfetto", quello da cui si può scegliere se essere ingannati oppure no, se vivere oppure no, se tornare o abbandonarsi.
Come mio fratello ricordava al termine della visione, citando La Bamba, in cui uno sciamano recitava al giovane Ritchie Valens "vivere è dormire, e morire è svegliarsi": che sia vero, oppure no, poco importa.
La grandezza dell'illusione sta nella possibilità di poter pensare di fare entrambe le cose.
Ed eccomi di nuovo qui, a pensare a quanto è stato, e a quanto e come sarà ogni prossima visione - perchè un film come questo non smette mai di insegnarci qualcosa -, a cercare di controllare il fiume di parole ed emozioni che, alla distanza, stanno premendo come una montagna d'acqua una diga minuscola il mio cuore e la mia mente di fronte ad Inception.
Vorrei poter liberare il tutto, e lasciare che l'onda del racconto, delle idee, delle immagini travolga il post, me, voi, senza pensare a quello che avete visto, o potrete vedere, o credete di aver veduto.
Vorrei potermi tuffare, scendere il più profondamente possibile, come un'apnea in cui si possa respirare profondamente, godere di quegli abissi, e poi tornare indietro con un salto, giusto per capire quanto possa essere grande il sogno e quanto infinitamente più potente sia la realtà.
Perchè è proprio quella realtà a generarli. Tutti i sogni. Tutti i tuffi. Tutti i salti.
E per capire questo, non ho bisogno di un totem danzante che sia capace di riportarmi a quando "eravamo giovani insieme".
Lo guardo lì, sospeso, e resto stupito.
Cosa avete scelto, voi? Cosa sceglierete?
Io rabbrividisco, sospiro, e alla fine penso che cercherò sempre, anche e soprattutto di fronte a questa meraviglia, di "guardare in faccia la realtà".
Il sogno più grande è proprio quello.
MrFord
"Sweet dreams are made of this,
who am I to disagree
I travel the world and the seven seas
everybody's looking for something."
Eurythmics - "Sweet dreams" -
venerdì 24 settembre 2010
Suxbad
Passato il "dramma" dell'incontro con il mojito del petroliere, io e Julez ci siamo recati dal ritrovato Dembo e Signora per una cena very yeah da innaffiare con un bel pò di simpatico Brugal, rum riscoperto di recente, soprattutto associato alla Coca cola.
Lo stesso Dembo, in cambio del Clerks 2 sfoderato in casa Ford, ha proposto la visione digestiva di Suxbad, del quale non cito neppure l'orrido, insensato, assurdo sottotitolo italiano, che mi sono ben guardato anche dall'inserire nel titolo del post.
Onestamente, da quello che mi era stato detto e da un paio di recensioni che avevo letto in rete, pensavo mi sarei trovato di fronte una sorta di versione leggermente più autoriale di American pie e simili, tanto che, in un primo momento, ho avuto il sospetto che il Brugal sarebbe stato l'attrattiva principale della visione.
Invece, nonostante tutti i limiti del caso, ammetto senza problemi di essermi divertito, e non poco, di fronte ad una pellicola che, se non può essere paragonata alle perle di Kevin Smith o Edgar Wright, resta comunque un ottimo esempio di commedia adolescenziale made in Usa, condita con la giusta dose di volgarità non volgare - di nuovo, Kevin Smith docet - ed impreziosita dalla presenza di uno dei personaggi più azzeccati del genere delle ultime stagioni cinematografiche: McLovin.
Christopher Mintz-Plasse, che abbiamo potuto ammirare anche in Kick ass, regala al pubblico un'interpretazione perfetta del nerd assoluto, protagonista delle sequenze più esilaranti del film e spalleggiato da Seth Rogen - anche co-autore della sceneggiatura - e Bill Hader, più che in forma nel ruolo di poliziotti che è meglio perdere che trovare.
Interessante, inoltre, quanto l'approccio reale dietro alle gag sul sesso sia quello del film di formazione legato al percorso di molti adolescenti che, dopo anni passati a vivere un rapporto simbiotico con il proprio migliore amico, si ritrovano, quasi naturalmente, a prendere un diverso cammino accanto alla prima, vera ragazza.
In questo senso, molto intelligente ed azzeccata la scelta del finale, che risolve nel modo migliore il rapporto fra i due protagonisti Seth ed Evan, giocando ironicamente sulla componente omosessuale del rapporto fra i due - del resto, quale amicizia importante non comprende una percentuale di attrazione, anche soltanto mentale!? - e mostrando con leggerezza uno dei passaggi più importanti per un adolescente in viaggio verso la vita da adulto.
Quella stretta di mano e quello sguardo nell'andirivieni della scala mobile valgono più di mille parole.
Complimenti a regista e sceneggiatori, dunque, per aver reso un prodotto sulla carta becero e sguaiatissimo in un'acuta - per certi versi - e divertente commedia che per i vecchi Ford sa anche un pò di amarcord.
Ad ogni modo, nessun discorso vale questo film più di McLovin.
McLovin. McLovin. McLovin.
Tutti noi adoriamo McLovin.
E' come Elias di Clerks 2, il Brugal con la Coca, la pellicola con il Cinema, il sesso con il letto.
Ecco, forse quest'ultima è un pò esagerata.
Però la butto lì, tanto per mantenere lo spirito del film.
McLovin
Ok, la smetto.
MrFord
"Know what we want and we get it from you
we do what we like and we like what we do."
Andrew WK - "Party hard"-
Lo stesso Dembo, in cambio del Clerks 2 sfoderato in casa Ford, ha proposto la visione digestiva di Suxbad, del quale non cito neppure l'orrido, insensato, assurdo sottotitolo italiano, che mi sono ben guardato anche dall'inserire nel titolo del post.
Onestamente, da quello che mi era stato detto e da un paio di recensioni che avevo letto in rete, pensavo mi sarei trovato di fronte una sorta di versione leggermente più autoriale di American pie e simili, tanto che, in un primo momento, ho avuto il sospetto che il Brugal sarebbe stato l'attrattiva principale della visione.
Invece, nonostante tutti i limiti del caso, ammetto senza problemi di essermi divertito, e non poco, di fronte ad una pellicola che, se non può essere paragonata alle perle di Kevin Smith o Edgar Wright, resta comunque un ottimo esempio di commedia adolescenziale made in Usa, condita con la giusta dose di volgarità non volgare - di nuovo, Kevin Smith docet - ed impreziosita dalla presenza di uno dei personaggi più azzeccati del genere delle ultime stagioni cinematografiche: McLovin.
Christopher Mintz-Plasse, che abbiamo potuto ammirare anche in Kick ass, regala al pubblico un'interpretazione perfetta del nerd assoluto, protagonista delle sequenze più esilaranti del film e spalleggiato da Seth Rogen - anche co-autore della sceneggiatura - e Bill Hader, più che in forma nel ruolo di poliziotti che è meglio perdere che trovare.
Interessante, inoltre, quanto l'approccio reale dietro alle gag sul sesso sia quello del film di formazione legato al percorso di molti adolescenti che, dopo anni passati a vivere un rapporto simbiotico con il proprio migliore amico, si ritrovano, quasi naturalmente, a prendere un diverso cammino accanto alla prima, vera ragazza.
In questo senso, molto intelligente ed azzeccata la scelta del finale, che risolve nel modo migliore il rapporto fra i due protagonisti Seth ed Evan, giocando ironicamente sulla componente omosessuale del rapporto fra i due - del resto, quale amicizia importante non comprende una percentuale di attrazione, anche soltanto mentale!? - e mostrando con leggerezza uno dei passaggi più importanti per un adolescente in viaggio verso la vita da adulto.
Quella stretta di mano e quello sguardo nell'andirivieni della scala mobile valgono più di mille parole.
Complimenti a regista e sceneggiatori, dunque, per aver reso un prodotto sulla carta becero e sguaiatissimo in un'acuta - per certi versi - e divertente commedia che per i vecchi Ford sa anche un pò di amarcord.
Ad ogni modo, nessun discorso vale questo film più di McLovin.
McLovin. McLovin. McLovin.
Tutti noi adoriamo McLovin.
E' come Elias di Clerks 2, il Brugal con la Coca, la pellicola con il Cinema, il sesso con il letto.
Ecco, forse quest'ultima è un pò esagerata.
Però la butto lì, tanto per mantenere lo spirito del film.
McLovin
Ok, la smetto.
MrFord
"Know what we want and we get it from you
we do what we like and we like what we do."
Andrew WK - "Party hard"-
Exiled
Johnnie To, come ho già più volte detto e ripetuto, è senza ombra di dubbio il Michael Mann d'oriente, nonchè l'autore di uno dei piani sequenza d'azione più incredibili del Cinema recente - la clamorosa apertura di Breaking news -, e finalmente, complice anche la partecipazione ispiratissima di Johnny Hallyday nel suo recente Vendicami, comincia ad essere un pò più conosciuto anche dal grande pubblico occidentale.
Finalmente perchè, se si escludono le parentesi di Yesterday once more e The executioners - non a caso gli unici fuori dal consueto contesto gansteristico che abbia girato -, il buon vecchio Johnnie non ha praticamente mai sbagliato un colpo.
Con Exiled recupero l'ultimo dei titoli usciti per il mercato italiano che mancava alla mia collezione, e ancora mi cullo nelle danze fra i proiettili e nella consueta dose di malinconica, senza scampo, mortale amicizia virile che lega i protagonisti della storia, caratteristica principale delle opere di To.
Come fu con The mission, anche in Exiled un manipolo di sicari della mala - in questo caso legato da un passato trascorso tutto insieme, stile compagni di scuola e di pistola - si trova ad affrontare un'impresa praticamente impossibile e con scarse possibilità di sopravvivenza che parte dal ritorno a Macao di Wo, un tempo compagno inseparabile, ora bersaglio dello spietato Boss Fei.
La rinuncia a portare a termine l'esecuzione dell'amico innescherà una catena di eventi dalla quale l'unica possibilità d'uscita è quella in posizione orizzontale, crivellati dai proiettili: questo, ovviamente, non influirà per nulla la decisione di buttarsi nel confronto delle due coppie di sicari protagonisti, che saranno pronti, con la leggerezza di chi conosce il proprio Destino, ad affrontare ogni scelta affidandosi quasi completamente al caso - bellissimi i siparietti attorno alla moneta, con l'incombente interrogativo "dove andiamo?" -.
Mescolando sapientemente noir e western, e trasportando i tempi e le attese che noi definiremmo "leoniane" per le strade di una Macao in bilico fra le architetture europee ed il mondo orientale, To disegna un altro affresco di una bellezza visiva mozzafiato, che ha il suo apice nella stupenda - stupenda, dico, badate bene - sparatoria all'interno dell'appartamento del chirurgo illegale: una coreografia straordinaria fra tende, sangue e proiettili che si evolve in una fuga risolta con una soluzione visiva che ricorda La finestra sul cortile di Hitchcock.
Ad aggiungere punti ai punti, specie per il pubblico maschile, la consueta attenzione posta al legame di amicizia fra i protagonisti e alla sua importanza - esempio da antologia le foto di gruppo nella piccolissima cabina "da fototessere" poco prima dell'ultimo scontro con il Boss Fei -, nonchè una confezione di lusso impreziosita da una fotografia da brividi, sporchissima e dai colori saturi.
Non il suo lavoro migliore - specialmente in fase di scrittura, che risulta a tratti tendente al nebuloso/compiaciuto -, ma un film che si fa amare, capace di dilatare il tempo quasi fino a fermarlo per poi concedersi improvvise, travolgenti accelerate più pericolose di qualsiasi proiettile.
Un lavoro da sicari professionisti.
MrFord
"Hit me with your best shot
why don't you hit me with your best shot?
Hit me with your best shot
fire away!"
Pat Benatar - "Hit me with your best shot"-
Finalmente perchè, se si escludono le parentesi di Yesterday once more e The executioners - non a caso gli unici fuori dal consueto contesto gansteristico che abbia girato -, il buon vecchio Johnnie non ha praticamente mai sbagliato un colpo.
Con Exiled recupero l'ultimo dei titoli usciti per il mercato italiano che mancava alla mia collezione, e ancora mi cullo nelle danze fra i proiettili e nella consueta dose di malinconica, senza scampo, mortale amicizia virile che lega i protagonisti della storia, caratteristica principale delle opere di To.
Come fu con The mission, anche in Exiled un manipolo di sicari della mala - in questo caso legato da un passato trascorso tutto insieme, stile compagni di scuola e di pistola - si trova ad affrontare un'impresa praticamente impossibile e con scarse possibilità di sopravvivenza che parte dal ritorno a Macao di Wo, un tempo compagno inseparabile, ora bersaglio dello spietato Boss Fei.
La rinuncia a portare a termine l'esecuzione dell'amico innescherà una catena di eventi dalla quale l'unica possibilità d'uscita è quella in posizione orizzontale, crivellati dai proiettili: questo, ovviamente, non influirà per nulla la decisione di buttarsi nel confronto delle due coppie di sicari protagonisti, che saranno pronti, con la leggerezza di chi conosce il proprio Destino, ad affrontare ogni scelta affidandosi quasi completamente al caso - bellissimi i siparietti attorno alla moneta, con l'incombente interrogativo "dove andiamo?" -.
Mescolando sapientemente noir e western, e trasportando i tempi e le attese che noi definiremmo "leoniane" per le strade di una Macao in bilico fra le architetture europee ed il mondo orientale, To disegna un altro affresco di una bellezza visiva mozzafiato, che ha il suo apice nella stupenda - stupenda, dico, badate bene - sparatoria all'interno dell'appartamento del chirurgo illegale: una coreografia straordinaria fra tende, sangue e proiettili che si evolve in una fuga risolta con una soluzione visiva che ricorda La finestra sul cortile di Hitchcock.
Ad aggiungere punti ai punti, specie per il pubblico maschile, la consueta attenzione posta al legame di amicizia fra i protagonisti e alla sua importanza - esempio da antologia le foto di gruppo nella piccolissima cabina "da fototessere" poco prima dell'ultimo scontro con il Boss Fei -, nonchè una confezione di lusso impreziosita da una fotografia da brividi, sporchissima e dai colori saturi.
Non il suo lavoro migliore - specialmente in fase di scrittura, che risulta a tratti tendente al nebuloso/compiaciuto -, ma un film che si fa amare, capace di dilatare il tempo quasi fino a fermarlo per poi concedersi improvvise, travolgenti accelerate più pericolose di qualsiasi proiettile.
Un lavoro da sicari professionisti.
MrFord
"Hit me with your best shot
why don't you hit me with your best shot?
Hit me with your best shot
fire away!"
Pat Benatar - "Hit me with your best shot"-
Rabbia
Buster "Rant" Casey è tante cose.
Addirittura si dice in giro - in diretta tv, nientemeno - che sia morto.
Se non a zonzo per il tempo a cercare di scoprire qualcosa in più su se stesso.
O su tutti noi.
Ammetto senza riserve di aver sempre considerato Palahniuk un borioso radical chic della peggior specie, di quelli che, tendenzialmente, talento a parte molto poco cordialmente detesto.
Probabilmente c'è da ammettere che potrà anche essere così, ma occorre allo stesso modo dire che Rabbia è davvero un'ottima sorpresa: superato lo shock iniziale di un romanzo - una "biografia orale" - costruito su interviste fatte ad amici, nemici, semplici conoscenti del protagonista, quindi sostanzialmente privo di un ritmo vero e proprio di narrazione - nel senso classico del termine -, l'opera dell'irrequieto Chuck diviene un mosaico progressivamente più accattivante e ricco, spingendo al massimo, pur non dandone l'impressione, l'acceleratore sulla curiosità e la fascinazione che il percorso di "Rant" Casey suscita nel lettore.
Passo dopo passo, dalla fatina dei denti al famigerato party crashing, ogni pagina prende possesso della volontà di scoperta e sperimentazione, e scorre nelle vene della mente come il veleno della peggiore delle vedove nere, nella migliore tradizione del lascito di Casey al mondo.
Ne sanno qualcosa Irene e Chat, gli amorevoli genitori, o Echo e Shot, inseparabili compagni di squadra al volante di innumerevoli macchine distrutte nelle finestre di gioco di party crashing. E non solo.
E' come se ne sapessimo qualcosa tutti, anche se non lo sappiamo.
Perchè Buster porta con se la rabbia, una delle malattie con il più alto potenziale infettivo che esistano.
Perchè la rabbia di Buster sconvolge gradualmente, ed esplode fino quasi a ribaltare la società.
Perchè la rabbia di Buster è alimentata da tanti piccoli morsi, ma non si consuma fino al momento del flashback.
Ora vi sembrerà di non capire nulla di tutto questo, ma fidatevi, è già così.
Non lo sapete, ma fra noi ci sono già gli storici, e tutti gli altri.
Quello che volete fare, come volete vivere, segnerà la differenza fra un posto e l'altro, fra notturni e diurni, fra chi torna indietro per eliminare i suoi genitori e vivere in eterno e chi sceglie di salvarsi e preservarsi, saltando da un tempo all'altro, nonno, padre e figlio ad un tempo.
La volontà come ricerca, e desiderio di confrontarsi con la propria condizione di Uomini.
E la rabbia, forse, di non poter davvero dettare le regole della finestra di gioco più grande di tutte: la vita.
Tutto questo, e molto altro, era - è, sarà? - Buster "Rant" Casey.
Cazzo, parlo come uno dei suoi compagni di squadra.
Può essere che abbia la rabbia anche io.
Di sicuro, voglio passare avanti e indietro, e giocarmi tutte le carte nella Grande Partita.
MrFord
"I'm a fist of rage
one foot in the grave
I'm a fist of rage
far from saved."
Kid rock - "Fist of rage"
Addirittura si dice in giro - in diretta tv, nientemeno - che sia morto.
Se non a zonzo per il tempo a cercare di scoprire qualcosa in più su se stesso.
O su tutti noi.
Ammetto senza riserve di aver sempre considerato Palahniuk un borioso radical chic della peggior specie, di quelli che, tendenzialmente, talento a parte molto poco cordialmente detesto.
Probabilmente c'è da ammettere che potrà anche essere così, ma occorre allo stesso modo dire che Rabbia è davvero un'ottima sorpresa: superato lo shock iniziale di un romanzo - una "biografia orale" - costruito su interviste fatte ad amici, nemici, semplici conoscenti del protagonista, quindi sostanzialmente privo di un ritmo vero e proprio di narrazione - nel senso classico del termine -, l'opera dell'irrequieto Chuck diviene un mosaico progressivamente più accattivante e ricco, spingendo al massimo, pur non dandone l'impressione, l'acceleratore sulla curiosità e la fascinazione che il percorso di "Rant" Casey suscita nel lettore.
Passo dopo passo, dalla fatina dei denti al famigerato party crashing, ogni pagina prende possesso della volontà di scoperta e sperimentazione, e scorre nelle vene della mente come il veleno della peggiore delle vedove nere, nella migliore tradizione del lascito di Casey al mondo.
Ne sanno qualcosa Irene e Chat, gli amorevoli genitori, o Echo e Shot, inseparabili compagni di squadra al volante di innumerevoli macchine distrutte nelle finestre di gioco di party crashing. E non solo.
E' come se ne sapessimo qualcosa tutti, anche se non lo sappiamo.
Perchè Buster porta con se la rabbia, una delle malattie con il più alto potenziale infettivo che esistano.
Perchè la rabbia di Buster sconvolge gradualmente, ed esplode fino quasi a ribaltare la società.
Perchè la rabbia di Buster è alimentata da tanti piccoli morsi, ma non si consuma fino al momento del flashback.
Ora vi sembrerà di non capire nulla di tutto questo, ma fidatevi, è già così.
Non lo sapete, ma fra noi ci sono già gli storici, e tutti gli altri.
Quello che volete fare, come volete vivere, segnerà la differenza fra un posto e l'altro, fra notturni e diurni, fra chi torna indietro per eliminare i suoi genitori e vivere in eterno e chi sceglie di salvarsi e preservarsi, saltando da un tempo all'altro, nonno, padre e figlio ad un tempo.
La volontà come ricerca, e desiderio di confrontarsi con la propria condizione di Uomini.
E la rabbia, forse, di non poter davvero dettare le regole della finestra di gioco più grande di tutte: la vita.
Tutto questo, e molto altro, era - è, sarà? - Buster "Rant" Casey.
Cazzo, parlo come uno dei suoi compagni di squadra.
Può essere che abbia la rabbia anche io.
Di sicuro, voglio passare avanti e indietro, e giocarmi tutte le carte nella Grande Partita.
MrFord
"I'm a fist of rage
one foot in the grave
I'm a fist of rage
far from saved."
Kid rock - "Fist of rage"
martedì 21 settembre 2010
Il profeta
Il tema carcerario è ormai una sorta di vero e proprio classico del Cinema, genere che ha regalato pietre miliari per tecnica - Un condannato a morte è fuggito di Bresson -, mito - Fuga da Alcatraz di Don Siegel -, incontro fra autorialità e blockbuster - Le ali della libertà -, nuova linfa - Cella 211 -.
Qualunque cineasta, dunque, approcci la dura realtà che sta dietro le mura di una qualsiasi struttura detentiva in una qualsiasi parte del mondo trova sul suo cammino uno degli ostacoli più ingombranti della settima arte: ovvero non risultare troppo didascalico, retorico o, semplicemente, pesante, sottovalutando tematiche che necessitano di essere sviscerate "dall'interno" anche quando il narratore - il regista, in questi casi - in galera non fosse neppure mai stato.
Audiard, già autore degli ottimi Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore, affronta la tematica sviluppando una vicenda fiume che è quasi un romanzo di formazione incentrando tutta l'architettura tecnica e ritmica della storia sul giovane Malik, diciannovenne rinchiuso "con i grandi" per la prima volta, lasciato cadere dal sistema a seguito dei suoi errori nel baratro che, a conti fatti, è un istituto correzionale "da duri": come insegna nei suoi autobiografici romanzi Ed Bunker, e come più volte è stato indicato anche dal Cinema, dalla Letteratura e dalla cronaca stessi, sopravvivere ad un sistema in cui vige strettamente la legge del più forte e la morte e la violenza sono all'ordine del giorno comporta inevitabilmente un cambiamento che induce anche il detenuto meno problematico a diventare una minaccia senza dubbio più grande, per se stesso e la società, al termine della pena rispetto al momento in cui era finito dietro le sbarre.
L'ascesa di Malik, partita sotto il segno del terrore e della morte - incredibile, in qualche modo hanekiana, la scena del primo omicidio -, prosegue inesorabile su binari che solo apparentemente danno l'impressione di essere morti, e si sviluppa nella capacità quasi machiavellica di intrecciare alleanze che non considerano pregiudizi razziali, di religione o più semplicemente di amicizia.
Il suo rapporto con Cesar - despota, boss, capo, mente, padre, nemico del giovane - assume quante più sfaccettature si possano immaginare per un racconto di formazione, per l'appunto, e culmina con due sequenze decisamente "tranquille" rispetto a quanto il film mostri, eppure dalla potenza dirompente: il dialogo sul caffè e il confronto finale, a distanza, nel cortile della prigione, sono pagine d'alta scuola, supportate da un grandissimo Niels Arestrup, che interpreta il vecchio boss corso con rabbia controllata e silenziosamente ribollente.
Le sequenze d'azione, legate alle missioni che proprio Cesar assegna al giovane Malik con il sopraggiungere dei primi permessi d'uscita, sono girate da Audiard con la consueta competenza, e trovano alcuni momenti - l'inseguimento per le strade di Parigi, la sordità temporanea data dalla pioggia di proiettili - assolutamente ispirati, degno completamento di un'opera visivamente imponente, corredata, forse, a tratti, da una troppo spinta autorialità - le visioni che rendono Malik "un profeta" -, ma ugualmente incisiva.
E proprio nel ruolo di "profeta" Malik trova la sua definitiva consacrazione da una parte e dall'altra delle sbarre, consolidando la sua posizione e "vita rinnovata", destituendo di fatto Cesar e divenendo il nuovo volto di quello che il suo vecchio mentore e nemesi rappresentava: con un crescendo finale da brividi, Audiard dipinge, rinunciando alle scene madri, il ritratto di un nuovo padrino dalle mille facce, senza confini, che basa le conquiste su mosse strategiche dettate dal progressivo accrescimento della propria cultura - Malik entra in carcere da analfabeta, ne esce poliglotta ed esperto di economia - prima ancora che sulla violenza fisica, che resta una risorsa da utilizzare solo quando il problema che si presenta appare irrisolvibile, almeno "a parole".
I sogni di Malik, ed il suo impero, che dalle mie parole e agli occhi dei suoi alleati possono apparire effettivamente profetici, in realtà non hanno nulla che non sia stato già assaporato, in ogni epoca, dall'Uomo: simboleggiano l'affermazione di un "più forte" che non è chi si impone nell'immediato, ma pianifica la propria sopravvivenza parallelamente alla vittoria, senza fretta e con tutta la pazienza e la freddezza che una certa tipologia di ruoli di comando impongono.
Ma alle sue spalle, oltre ad un nuovo esercito figlio di tutte le regole dettate dal millennio appena cominciato, non restano altro che violenza e morte.
Che poi siano sfocate, poco importa.
I loro volti sono sempre gli stessi.
MrFord
"San Quentin, what good do you think you do?
Do you think I'll be different when you're through?
You bent my heart and mind and you walk on my soul
your stone walls turn my blood a little cold."
Johnny Cash - "San Quentin" -
Qualunque cineasta, dunque, approcci la dura realtà che sta dietro le mura di una qualsiasi struttura detentiva in una qualsiasi parte del mondo trova sul suo cammino uno degli ostacoli più ingombranti della settima arte: ovvero non risultare troppo didascalico, retorico o, semplicemente, pesante, sottovalutando tematiche che necessitano di essere sviscerate "dall'interno" anche quando il narratore - il regista, in questi casi - in galera non fosse neppure mai stato.
Audiard, già autore degli ottimi Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore, affronta la tematica sviluppando una vicenda fiume che è quasi un romanzo di formazione incentrando tutta l'architettura tecnica e ritmica della storia sul giovane Malik, diciannovenne rinchiuso "con i grandi" per la prima volta, lasciato cadere dal sistema a seguito dei suoi errori nel baratro che, a conti fatti, è un istituto correzionale "da duri": come insegna nei suoi autobiografici romanzi Ed Bunker, e come più volte è stato indicato anche dal Cinema, dalla Letteratura e dalla cronaca stessi, sopravvivere ad un sistema in cui vige strettamente la legge del più forte e la morte e la violenza sono all'ordine del giorno comporta inevitabilmente un cambiamento che induce anche il detenuto meno problematico a diventare una minaccia senza dubbio più grande, per se stesso e la società, al termine della pena rispetto al momento in cui era finito dietro le sbarre.
L'ascesa di Malik, partita sotto il segno del terrore e della morte - incredibile, in qualche modo hanekiana, la scena del primo omicidio -, prosegue inesorabile su binari che solo apparentemente danno l'impressione di essere morti, e si sviluppa nella capacità quasi machiavellica di intrecciare alleanze che non considerano pregiudizi razziali, di religione o più semplicemente di amicizia.
Il suo rapporto con Cesar - despota, boss, capo, mente, padre, nemico del giovane - assume quante più sfaccettature si possano immaginare per un racconto di formazione, per l'appunto, e culmina con due sequenze decisamente "tranquille" rispetto a quanto il film mostri, eppure dalla potenza dirompente: il dialogo sul caffè e il confronto finale, a distanza, nel cortile della prigione, sono pagine d'alta scuola, supportate da un grandissimo Niels Arestrup, che interpreta il vecchio boss corso con rabbia controllata e silenziosamente ribollente.
Le sequenze d'azione, legate alle missioni che proprio Cesar assegna al giovane Malik con il sopraggiungere dei primi permessi d'uscita, sono girate da Audiard con la consueta competenza, e trovano alcuni momenti - l'inseguimento per le strade di Parigi, la sordità temporanea data dalla pioggia di proiettili - assolutamente ispirati, degno completamento di un'opera visivamente imponente, corredata, forse, a tratti, da una troppo spinta autorialità - le visioni che rendono Malik "un profeta" -, ma ugualmente incisiva.
E proprio nel ruolo di "profeta" Malik trova la sua definitiva consacrazione da una parte e dall'altra delle sbarre, consolidando la sua posizione e "vita rinnovata", destituendo di fatto Cesar e divenendo il nuovo volto di quello che il suo vecchio mentore e nemesi rappresentava: con un crescendo finale da brividi, Audiard dipinge, rinunciando alle scene madri, il ritratto di un nuovo padrino dalle mille facce, senza confini, che basa le conquiste su mosse strategiche dettate dal progressivo accrescimento della propria cultura - Malik entra in carcere da analfabeta, ne esce poliglotta ed esperto di economia - prima ancora che sulla violenza fisica, che resta una risorsa da utilizzare solo quando il problema che si presenta appare irrisolvibile, almeno "a parole".
I sogni di Malik, ed il suo impero, che dalle mie parole e agli occhi dei suoi alleati possono apparire effettivamente profetici, in realtà non hanno nulla che non sia stato già assaporato, in ogni epoca, dall'Uomo: simboleggiano l'affermazione di un "più forte" che non è chi si impone nell'immediato, ma pianifica la propria sopravvivenza parallelamente alla vittoria, senza fretta e con tutta la pazienza e la freddezza che una certa tipologia di ruoli di comando impongono.
Ma alle sue spalle, oltre ad un nuovo esercito figlio di tutte le regole dettate dal millennio appena cominciato, non restano altro che violenza e morte.
Che poi siano sfocate, poco importa.
I loro volti sono sempre gli stessi.
MrFord
"San Quentin, what good do you think you do?
Do you think I'll be different when you're through?
You bent my heart and mind and you walk on my soul
your stone walls turn my blood a little cold."
Johnny Cash - "San Quentin" -
Gamer
A volte non si sa perchè il nostro livello di masochismo cinematografico ci spinge a visioni che non hanno alcuna buona premessa.
Dopo l'esperienza allucinante di Giustizia privata, non contento e fattomi fregare una volta ancora dalla simpatia per Gerard Butler, ho deciso di approcciare anche quest'altra pellicola tutta - o quasi - incentrata sul buon vecchio Leonida e sulla gigioneggiante interpretazione di Michael C. Hall - che cercherò di non aver visto qui per ricordarmelo solo come lo straordinario protagonista di Six feet under e Dexter -.
Gamer è, senza mezzi termini, proprio un brutto film: e non dico brutto per sintetizzare un concetto, o partire con chissà quali elucubrazioni in merito.
Assolutamente no.
Semplicemente, non c'è nulla nella scarsa - fortunatamente! - durata che possa far pensare al contrario.
Montaggio e cura visiva videoclippare e martellanti - Tony Scott, in confronto, pare quasi Ozu -, sceneggiatura inconsistente e banale, scene involontariamente grottesche, citazioni o tentate tali da far rabbrividire anche i cinefili meno integralisti.
Non vorrei scomodare paragoni importanti in termini di schifo, ma era dai tempi di Feed - orrido film australiano che spero nessuno di voi abbia mai avuto la sfortuna di incrociare nel corso del suo cammino di spettatore - che non mi capitava di trovarmi di fronte un prodotto che pare la brutta - e decisamente troppo lunga - copia di uno scadente video musicale.
La riflessione sulla società attuale e sul ruolo di internet, inoltre - il social network "vissuto", così come i videogiochi - appare superficiale e priva di spessore, oltre ad avere il demerito di classificare il film non solo come pellicola d'azione - e già sarebbe stato terribile -, ma anche come riflessione trasversale sul ruolo della rete, in un tentativo di autorialità molto molto spiccia che, francamente, è talmente scadente da non riuscire neppure a provocare una sana incazzatura.
Credo non si possa dire di più, e francamente mi pare di aver parlato anche troppo.
Sarebbe bastata una sola parola.
Brutto.
Lo so, l'ho già detta, ma voglio avere l'impressione che, ora, il suo senso l'abbia trovato.
MrFord
"I am the game, and you don't wanna play me,
I am control, no way you can shake me."
Motorhead - "The game"
Dopo l'esperienza allucinante di Giustizia privata, non contento e fattomi fregare una volta ancora dalla simpatia per Gerard Butler, ho deciso di approcciare anche quest'altra pellicola tutta - o quasi - incentrata sul buon vecchio Leonida e sulla gigioneggiante interpretazione di Michael C. Hall - che cercherò di non aver visto qui per ricordarmelo solo come lo straordinario protagonista di Six feet under e Dexter -.
Gamer è, senza mezzi termini, proprio un brutto film: e non dico brutto per sintetizzare un concetto, o partire con chissà quali elucubrazioni in merito.
Assolutamente no.
Semplicemente, non c'è nulla nella scarsa - fortunatamente! - durata che possa far pensare al contrario.
Montaggio e cura visiva videoclippare e martellanti - Tony Scott, in confronto, pare quasi Ozu -, sceneggiatura inconsistente e banale, scene involontariamente grottesche, citazioni o tentate tali da far rabbrividire anche i cinefili meno integralisti.
Non vorrei scomodare paragoni importanti in termini di schifo, ma era dai tempi di Feed - orrido film australiano che spero nessuno di voi abbia mai avuto la sfortuna di incrociare nel corso del suo cammino di spettatore - che non mi capitava di trovarmi di fronte un prodotto che pare la brutta - e decisamente troppo lunga - copia di uno scadente video musicale.
La riflessione sulla società attuale e sul ruolo di internet, inoltre - il social network "vissuto", così come i videogiochi - appare superficiale e priva di spessore, oltre ad avere il demerito di classificare il film non solo come pellicola d'azione - e già sarebbe stato terribile -, ma anche come riflessione trasversale sul ruolo della rete, in un tentativo di autorialità molto molto spiccia che, francamente, è talmente scadente da non riuscire neppure a provocare una sana incazzatura.
Credo non si possa dire di più, e francamente mi pare di aver parlato anche troppo.
Sarebbe bastata una sola parola.
Brutto.
Lo so, l'ho già detta, ma voglio avere l'impressione che, ora, il suo senso l'abbia trovato.
MrFord
"I am the game, and you don't wanna play me,
I am control, no way you can shake me."
Motorhead - "The game"
domenica 19 settembre 2010
Mine vaganti
Confesso senza troppi patemi di non aver mai considerato Ozpetek il miracolo che spesso la critica e il pubblico italiano considerano: anzi, trovo che non abbia mai davvero superato la soglia del "carino" - nel senso di guardo un film non brutto e vagamente d'autore che non ha alcuna possibilità di segnarmi interiormente -, e nonostante la fama de Le fate ignoranti continuo a pensare che il suo lavoro migliore sia stato La finestra di fronte.
Ad ogni modo, spinto da recensioni lusinghiere che ne facevano il suo miglior film, ho approcciato Mine vaganti con un'aspettativa sicuramente superiore a quella di qualsiasi altro suo lavoro: fatica sprecata.
Per intenderci, non si tratta di un brutto film, facente parte della famosa categoria "ho una voglia quasi incontenibile di prendere a sonore bottigliate in viso il regista", ma neppure di qualcosa in grado di scalfire l'esterno ed entrare nel cuore: tutta la pellicola si muove su un filo sottile che passa da buone trovate - soprattutto in fase di scrittura - (l'idea di un fratello che "ruba" la confessione all'altro, la cena della famiglia di Tommaso con i suoi amici e il suo fidanzato) a banalità d'autore della peggior specie (i flashback della nonna - che pure resta il personaggio meglio riuscito -, i momenti forzatamente gay di Scamarcio), mantenendo uno standard noto come "senza infamia e senza lode".
Non vorrei, invece, tornando alla dichiarazione sul protagonista, fare la parte di quello che parla male di Scamarcio e della sua recitazione perchè Scamarcio è figo e tutte le donne - e gli uomini - d'Italia se lo vorrebbero scopare, ma occorre ricordare che l'unico ruolo in cui il neppure troppo simpatico Riccardo ha davvero bucato lo schermo è stato quello del Nero in Romanzo criminale, personaggio assolutamente freddo e monocorde, adatto alle sue assai trascurabili doti di interprete.
Detto questo, il film suscita più che altro una malinconica simpatia, come i personaggi del padre di Matteo e Antonio - un ottimo Ennio Fantastichini - o la zia ubriacona - una vera sorpresa, questa sul serio, interpretata da Elena Sofia Ricci -, senza mai davvero dare l'impressione di poter dare al Cinema italiano quella ventata d'aria fresca di cui necessita ormai da troppo tempo: parlando di commedia, infatti, un lavoro come La prima cosa bella gli è clamorosamente superiore, e se si pensa al dramma opere come Vincere non possono neanche essere immaginate nella stessa categoria.
Detto questo, e ammettendo ad ogni modo una confezione di mestiere e visivamente discreta, non pensiate di affrontare un capolavoro, o uno dei film dell'anno: piuttosto godetevi questa agrodolce commedia domestica per quello che è, con leggerezza ed un pizzico di nostalgia, come quando, sul finire della bella stagione, si fa strada in noi la consapevolezza del ritorno alla normalità della vita di tutti i giorni.
In fondo, Tommaso e sua nonna lo dicono: "noi siamo quello che lasciamo".
L'estate resta, dentro e attorno a noi, ma dobbiamo essere sempre pronti ad affrontare il prossimo autunno.
Così come per questo film.
Che malgrado il titolo, non è affatto una di quelle "mine vaganti" che portano il caos sconvolgendo l'ordine costituito per gettare le basi di un nuovo percorso.
MrFord
"Cinquantamila pagine
gettate al vento perchè
eterno è il ricordo,
il mio volto per te."
Nina Zilli - "50mila" -
Ad ogni modo, spinto da recensioni lusinghiere che ne facevano il suo miglior film, ho approcciato Mine vaganti con un'aspettativa sicuramente superiore a quella di qualsiasi altro suo lavoro: fatica sprecata.
Per intenderci, non si tratta di un brutto film, facente parte della famosa categoria "ho una voglia quasi incontenibile di prendere a sonore bottigliate in viso il regista", ma neppure di qualcosa in grado di scalfire l'esterno ed entrare nel cuore: tutta la pellicola si muove su un filo sottile che passa da buone trovate - soprattutto in fase di scrittura - (l'idea di un fratello che "ruba" la confessione all'altro, la cena della famiglia di Tommaso con i suoi amici e il suo fidanzato) a banalità d'autore della peggior specie (i flashback della nonna - che pure resta il personaggio meglio riuscito -, i momenti forzatamente gay di Scamarcio), mantenendo uno standard noto come "senza infamia e senza lode".
Non vorrei, invece, tornando alla dichiarazione sul protagonista, fare la parte di quello che parla male di Scamarcio e della sua recitazione perchè Scamarcio è figo e tutte le donne - e gli uomini - d'Italia se lo vorrebbero scopare, ma occorre ricordare che l'unico ruolo in cui il neppure troppo simpatico Riccardo ha davvero bucato lo schermo è stato quello del Nero in Romanzo criminale, personaggio assolutamente freddo e monocorde, adatto alle sue assai trascurabili doti di interprete.
Detto questo, il film suscita più che altro una malinconica simpatia, come i personaggi del padre di Matteo e Antonio - un ottimo Ennio Fantastichini - o la zia ubriacona - una vera sorpresa, questa sul serio, interpretata da Elena Sofia Ricci -, senza mai davvero dare l'impressione di poter dare al Cinema italiano quella ventata d'aria fresca di cui necessita ormai da troppo tempo: parlando di commedia, infatti, un lavoro come La prima cosa bella gli è clamorosamente superiore, e se si pensa al dramma opere come Vincere non possono neanche essere immaginate nella stessa categoria.
Detto questo, e ammettendo ad ogni modo una confezione di mestiere e visivamente discreta, non pensiate di affrontare un capolavoro, o uno dei film dell'anno: piuttosto godetevi questa agrodolce commedia domestica per quello che è, con leggerezza ed un pizzico di nostalgia, come quando, sul finire della bella stagione, si fa strada in noi la consapevolezza del ritorno alla normalità della vita di tutti i giorni.
In fondo, Tommaso e sua nonna lo dicono: "noi siamo quello che lasciamo".
L'estate resta, dentro e attorno a noi, ma dobbiamo essere sempre pronti ad affrontare il prossimo autunno.
Così come per questo film.
Che malgrado il titolo, non è affatto una di quelle "mine vaganti" che portano il caos sconvolgendo l'ordine costituito per gettare le basi di un nuovo percorso.
MrFord
"Cinquantamila pagine
gettate al vento perchè
eterno è il ricordo,
il mio volto per te."
Nina Zilli - "50mila" -
The transporter
Spinto dall'onda tamarra degli Expendables e dalla riscoperta di Jason Statham ho deciso di buttarmi nella visione di una delle pellicole che probabilmente meno resterà impressa nella mia memoria di spettatore viste ultimamente: The transporter.
Prodotto da Luc Besson - che personalmente ho sempre ritenuto un regista poco più che mediocre e troppo spesso e volentieri sopravvalutato dal grande pubblico -, questa breve pellicola ha comunque il pregio di non prendersi sul serio neppure per un secondo, e nel suo infinitesimale spessore di ricordare quegli action movie che impazzavano negli anni '80 - sì, ancora e sempre loro -, in cui la trama era assolutamente secondaria rispetto alle evoluzioni e alle improbabili esibizioni muscolari, atletiche o più semplicemente "scazzottate" in giro dei suoi protagonisti.
In questo senso, il Frank interpretato da Statham è l'incarnazione perfetta del tipico action hero praticamente invincibile, asso del volante e maniacale professionista del trasporto di pacchi o persone che si vuole essere sicuri arrivino a destinazione senza che vengano fatte domande o che il carico stesso sia messo in pericolo.
Per potersi votare a questa lucrosa professione, il buon Frank segue scrupolosamente delle regole che si è autoimposto per garantirsi una fama e la tariffa standard dei suoi servizi: ma ovviamente, l'ex soldato e impeccabile trasportatore ha un'anima da buono, e quando si trova per le mani un pacco che contiene una ragazza viene meno ad ogni suo proposito e si ritrova al centro di una lotta che prevede, grazie all'aiuto della stessa "impacchettata" e di un ispettore di polizia, l'eliminazione dei fautori di un traffico di clandestini provenienti dall'estremo oriente, spietati organizzatori di una tratta di umani.
Senza indugiare oltre sulla trama - del resto sappiamo tutti come andrà a finire -, occorre fare un plauso alle numerosissime trovate utilizzate per risolvere i combattimenti, tanto divertenti quanto improbabili, che raggiungono il loro apice con la sequenza all'interno dell'autobus e, soprattutto, quella dei pedali della bicicletta usati sul pavimento ricoperto di grasso: una sorta di pezzo di danza classica ritmato da pesantissimi calcioni sui denti.
A trovate interessanti nel campo dei combattimenti corpo a corpo si alternano passaggi della sceneggiatura (!?) a dir poco agghiaccianti - su tutti la fuga sott'acqua con tanto di attrezzatura completa da sub, ovviamente per due, e il lancio con il paracadute dall'aereo irrigatore: ma il tutto appare al servizio di un genere che non prevede nulla di più, e l'ironia e la coscienza di essere quello che si è rendono la pellicola un divertente intermezzo da sabato pomeriggio con patatine e rutto libero, di quei prodotti da spegnimento di cervello che non fanno pentire troppo di essersi presi una pausa dalle normali attività da elettroencefalogramma.
A questo occorre aggiungere che Jason Statham comincia davvero a diventarmi simpatico, e che nonostante le pessime recensioni dopo le risate di questo primo capitolo sono fortemente tentato di schiaffarmi anche gli altri due: sto forse diventando troppo tamarro per il Cinema d'autore!?
Naaaaa.
Semmai devo cominciare a pensare che per me non esistono Cinema d'autore e non.
Ma solo il Cinema.
MrFord
"Take destiny by the hand
and lead it far away
take it to another land
we will all decay."
The cranberries - "Carry on"
Prodotto da Luc Besson - che personalmente ho sempre ritenuto un regista poco più che mediocre e troppo spesso e volentieri sopravvalutato dal grande pubblico -, questa breve pellicola ha comunque il pregio di non prendersi sul serio neppure per un secondo, e nel suo infinitesimale spessore di ricordare quegli action movie che impazzavano negli anni '80 - sì, ancora e sempre loro -, in cui la trama era assolutamente secondaria rispetto alle evoluzioni e alle improbabili esibizioni muscolari, atletiche o più semplicemente "scazzottate" in giro dei suoi protagonisti.
In questo senso, il Frank interpretato da Statham è l'incarnazione perfetta del tipico action hero praticamente invincibile, asso del volante e maniacale professionista del trasporto di pacchi o persone che si vuole essere sicuri arrivino a destinazione senza che vengano fatte domande o che il carico stesso sia messo in pericolo.
Per potersi votare a questa lucrosa professione, il buon Frank segue scrupolosamente delle regole che si è autoimposto per garantirsi una fama e la tariffa standard dei suoi servizi: ma ovviamente, l'ex soldato e impeccabile trasportatore ha un'anima da buono, e quando si trova per le mani un pacco che contiene una ragazza viene meno ad ogni suo proposito e si ritrova al centro di una lotta che prevede, grazie all'aiuto della stessa "impacchettata" e di un ispettore di polizia, l'eliminazione dei fautori di un traffico di clandestini provenienti dall'estremo oriente, spietati organizzatori di una tratta di umani.
Senza indugiare oltre sulla trama - del resto sappiamo tutti come andrà a finire -, occorre fare un plauso alle numerosissime trovate utilizzate per risolvere i combattimenti, tanto divertenti quanto improbabili, che raggiungono il loro apice con la sequenza all'interno dell'autobus e, soprattutto, quella dei pedali della bicicletta usati sul pavimento ricoperto di grasso: una sorta di pezzo di danza classica ritmato da pesantissimi calcioni sui denti.
A trovate interessanti nel campo dei combattimenti corpo a corpo si alternano passaggi della sceneggiatura (!?) a dir poco agghiaccianti - su tutti la fuga sott'acqua con tanto di attrezzatura completa da sub, ovviamente per due, e il lancio con il paracadute dall'aereo irrigatore: ma il tutto appare al servizio di un genere che non prevede nulla di più, e l'ironia e la coscienza di essere quello che si è rendono la pellicola un divertente intermezzo da sabato pomeriggio con patatine e rutto libero, di quei prodotti da spegnimento di cervello che non fanno pentire troppo di essersi presi una pausa dalle normali attività da elettroencefalogramma.
A questo occorre aggiungere che Jason Statham comincia davvero a diventarmi simpatico, e che nonostante le pessime recensioni dopo le risate di questo primo capitolo sono fortemente tentato di schiaffarmi anche gli altri due: sto forse diventando troppo tamarro per il Cinema d'autore!?
Naaaaa.
Semmai devo cominciare a pensare che per me non esistono Cinema d'autore e non.
Ma solo il Cinema.
MrFord
"Take destiny by the hand
and lead it far away
take it to another land
we will all decay."
The cranberries - "Carry on"
venerdì 17 settembre 2010
Centurion
In casa Ford si vuole un gran bene al granitico anglosassone Neil Marshall.
Innanzitutto perchè, in questo decennio cinematografico così a corto di intrattenitori di livello uno come lui è puro ossigeno.
Inoltre lo scatenato Neil è uno da pane e salame e sangue e merda, e i suoi film vantano dialoghi sempre scoppietanti, una caterva di morti ammazzati ed effettacci legati a doppio filo alla tradizione gore.
Per concludere, i suoi quattro lavori mi hanno sempre fatto uscire soddisfatto dalla visione, con le dovute proporzioni, e già questo è cosa non da poco.
Dog soldiers, che giunse sulla mia tv spinto dalle recensioni lusinghiere che segnalavano questo nuovo volto del cinema britannico, mi risultò come un divertito, divertente e crudele meticcio figlio di Un lupo mannaro americano a Londra e Il cacciatore.
The descent, ancora oggi la sua opera migliore, è a mio parere - con La casa del diavolo, Wolf creek e forse, ma forse, un paio d'altri - uno degli horror fondamentali della storia recente del genere.
Doomsday, incredibile e rocambolesco mix di generi e situazioni, pur se meno riuscito dei precedenti, porta con se quella santa, santissima autoironia necessaria per ogni film di pretese non eccessivamente autoriali ed intellettualoidi.
E così giungiamo a Centurion: ancora privo di una distribuzione italiana - strano, vero!? -, quest'ultimo lavoro di Marshall parte con il piede già pigiato sull'acceleratore: Quintus Dias - interpretato da un ottimo Fassbender, già visto in Bastardi senza gloria -, un centurione romano, mani legate e a torso nudo, è in fuga, neve alle ginocchia, braccato da nemici che ancora non vediamo.
"Non è l'inizio ne la fine della mia storia", recita la voce fuori campo, mentre l'occhio si perde in una fotografia splendida, ormai uno standard consolidato per il vecchio Neil: questo l'incipit di un film d'avventura superviolento che è stato capace di ricordarmi l'intrattenimento "hell yeah!" che mi faceva impazzire da ragazzetto, ispirato alla reale vicenda della nona legione dell'esercito romano, dispersa in Britannia negli anni in cui fu eretto il Vallo di Adriano e l'Impero decise di fermare la sua avanzata nelle inospitali terre del Nord.
Non siamo di fronte ad un miracolo di innovazione, sia chiaro, ed i richiami a Conan il barbaro, Braveheart, Il gladiatore e Mongol sono continui ed evidenti, eppure il ritmo tiene alla grande, condito da carrettate di amputazioni e squartamenti - gli scontri con i Pitti, antenati di William Wallace, sono così cruenti da essere quasi più associabili all'horror che non al Cinema d'avventura - e dialoghi acuti e brillanti, sempre rispetto a questo tipo di pellicole - "Dev'essere un segugio, se è riuscita a trovarti il cazzo": impagabile -.
Inoltre la scelta di sorprendere eliminando quelli che ad una prima vista potevano apparire come protagonisti assoluti lasciando a Quintus Dias la guida di un manipolo di romani provenienti dalle più svariate province dell'impero - quasi "avveniristico" il momento in cui ognuno rivela le sue origini, almeno quanto l'idea dell'esercito dell'impero "all'americana" - impegnati non in una missione, o nella conduzione di una battaglia, ma nella fuga che rappresenta la loro unica possibilità di salvezza si rivela vincente pur portando con se inevitabili e prevedibili sviluppi - la storia fra Quintus e la strega, la parte finale -.
La spinta decisiva, però, la mano sulla spada che decapita, è la spietata, terribile Etain, sicario dei Pitti a capo della spedizione in caccia dei superstiti romani: una figlia della foresta muta e spaventosa, bellissima e letale. Un charachter definito soltanto con sguardi ed espressioni, figlia di tutta la furia della guerra che a morte aggiunge altra morte, e da assassini genera assassini.
In questo senso, come già accaduto nelle altre opere del regista, è interessante il confronto che, nelle situazioni di pericolo e rischio della propria vita, vede uomini e donne minacciati maggiormente da chi sta loro accanto - compagni, comandanti, amici - rispetto agli effettivi avversari.
Una terribile verità della nostra egoistica natura con la quale dovrà confrontarsi lo stesso Dias, e che - prevedibilmente finchè volete, ma d'effetto e ad ogni modo perfettamente godibile, come il resto del film - lo condurrà ad un epilogo ottimamente ricollegato all'incipit, che "non è l'inizio, ne la fine della mia storia", e che è simbolo di una ricerca d'appartenenza a qualcuno, più che a qualcosa, ad una persona più che a un impero o un'istituzione - in questo senso, vale anche il rapporto tra il generale Virilus e i suoi uomini, pronti dal primo all'ultimo a morire per lui, almeno quanto lui per loro-.
Se "homo homini lupus", dunque, la vera origine, il luogo per cui combattere, in cui vivere, in cui trovare quello che si è inseguito, è dato da chi, con noi, lupo non sarà, ne potrà mai essere.
MrFord
"Gone are the days when freedom shone
now blood and steel meet bone,
in the light of the battle's way
the sands of time will shake."
Manowar - "Battle hymns"
Innanzitutto perchè, in questo decennio cinematografico così a corto di intrattenitori di livello uno come lui è puro ossigeno.
Inoltre lo scatenato Neil è uno da pane e salame e sangue e merda, e i suoi film vantano dialoghi sempre scoppietanti, una caterva di morti ammazzati ed effettacci legati a doppio filo alla tradizione gore.
Per concludere, i suoi quattro lavori mi hanno sempre fatto uscire soddisfatto dalla visione, con le dovute proporzioni, e già questo è cosa non da poco.
Dog soldiers, che giunse sulla mia tv spinto dalle recensioni lusinghiere che segnalavano questo nuovo volto del cinema britannico, mi risultò come un divertito, divertente e crudele meticcio figlio di Un lupo mannaro americano a Londra e Il cacciatore.
The descent, ancora oggi la sua opera migliore, è a mio parere - con La casa del diavolo, Wolf creek e forse, ma forse, un paio d'altri - uno degli horror fondamentali della storia recente del genere.
Doomsday, incredibile e rocambolesco mix di generi e situazioni, pur se meno riuscito dei precedenti, porta con se quella santa, santissima autoironia necessaria per ogni film di pretese non eccessivamente autoriali ed intellettualoidi.
E così giungiamo a Centurion: ancora privo di una distribuzione italiana - strano, vero!? -, quest'ultimo lavoro di Marshall parte con il piede già pigiato sull'acceleratore: Quintus Dias - interpretato da un ottimo Fassbender, già visto in Bastardi senza gloria -, un centurione romano, mani legate e a torso nudo, è in fuga, neve alle ginocchia, braccato da nemici che ancora non vediamo.
"Non è l'inizio ne la fine della mia storia", recita la voce fuori campo, mentre l'occhio si perde in una fotografia splendida, ormai uno standard consolidato per il vecchio Neil: questo l'incipit di un film d'avventura superviolento che è stato capace di ricordarmi l'intrattenimento "hell yeah!" che mi faceva impazzire da ragazzetto, ispirato alla reale vicenda della nona legione dell'esercito romano, dispersa in Britannia negli anni in cui fu eretto il Vallo di Adriano e l'Impero decise di fermare la sua avanzata nelle inospitali terre del Nord.
Non siamo di fronte ad un miracolo di innovazione, sia chiaro, ed i richiami a Conan il barbaro, Braveheart, Il gladiatore e Mongol sono continui ed evidenti, eppure il ritmo tiene alla grande, condito da carrettate di amputazioni e squartamenti - gli scontri con i Pitti, antenati di William Wallace, sono così cruenti da essere quasi più associabili all'horror che non al Cinema d'avventura - e dialoghi acuti e brillanti, sempre rispetto a questo tipo di pellicole - "Dev'essere un segugio, se è riuscita a trovarti il cazzo": impagabile -.
Inoltre la scelta di sorprendere eliminando quelli che ad una prima vista potevano apparire come protagonisti assoluti lasciando a Quintus Dias la guida di un manipolo di romani provenienti dalle più svariate province dell'impero - quasi "avveniristico" il momento in cui ognuno rivela le sue origini, almeno quanto l'idea dell'esercito dell'impero "all'americana" - impegnati non in una missione, o nella conduzione di una battaglia, ma nella fuga che rappresenta la loro unica possibilità di salvezza si rivela vincente pur portando con se inevitabili e prevedibili sviluppi - la storia fra Quintus e la strega, la parte finale -.
La spinta decisiva, però, la mano sulla spada che decapita, è la spietata, terribile Etain, sicario dei Pitti a capo della spedizione in caccia dei superstiti romani: una figlia della foresta muta e spaventosa, bellissima e letale. Un charachter definito soltanto con sguardi ed espressioni, figlia di tutta la furia della guerra che a morte aggiunge altra morte, e da assassini genera assassini.
In questo senso, come già accaduto nelle altre opere del regista, è interessante il confronto che, nelle situazioni di pericolo e rischio della propria vita, vede uomini e donne minacciati maggiormente da chi sta loro accanto - compagni, comandanti, amici - rispetto agli effettivi avversari.
Una terribile verità della nostra egoistica natura con la quale dovrà confrontarsi lo stesso Dias, e che - prevedibilmente finchè volete, ma d'effetto e ad ogni modo perfettamente godibile, come il resto del film - lo condurrà ad un epilogo ottimamente ricollegato all'incipit, che "non è l'inizio, ne la fine della mia storia", e che è simbolo di una ricerca d'appartenenza a qualcuno, più che a qualcosa, ad una persona più che a un impero o un'istituzione - in questo senso, vale anche il rapporto tra il generale Virilus e i suoi uomini, pronti dal primo all'ultimo a morire per lui, almeno quanto lui per loro-.
Se "homo homini lupus", dunque, la vera origine, il luogo per cui combattere, in cui vivere, in cui trovare quello che si è inseguito, è dato da chi, con noi, lupo non sarà, ne potrà mai essere.
MrFord
"Gone are the days when freedom shone
now blood and steel meet bone,
in the light of the battle's way
the sands of time will shake."
Manowar - "Battle hymns"
giovedì 16 settembre 2010
La sera della prima
Giungo finalmente al termine del viaggio nei quattro classici di Cassavetes che comprai ormai quasi un anno fa al loro ritorno - non so da quanto li aspettavo - in dvd.
Dopo Ombre - rivoluzionario per l'approccio ed il montaggio, una sorta di Scorsese in anticipo, parlando di amore per New York -, L'assassinio di un allibratore cinese - totalmente seventies, ipnotico ed esagerato - e Volti - che ho trovato anche meglio di quanto la critica non lo dipingesse - mi sono rivolto a quello che, a mio parere, è il miglior film del vecchio John, per intensità, approccio quasi metacinematografico, passione.
Sicuramente, come ogni altra sua opera, non è una cosa per tutti, o almeno non una di quelle pellicole da approcciare alla leggera pensando che due ore e venti non sono comunque così tante: Cassavetes, con quel suo fare da intellettuale, il montaggio nervoso, lo stile irregolare, può mettere alla prova anche i più pazienti fra i nuovi spettatori delle sue opere, ed irritare ad un tempo i "veterani" che pensano di poterlo affrontare come fosse l'ultimo arrivato.
Del resto, mettere in scena un film sul teatro - ma ancor di più sul ruolo dell'attore - con sua moglie protagonista e giocarsi sul piatto una sorta di discussione nel rapporto con se stessi - regista, ma anche attore, in questo caso - non è affatto cosa da poco: ci vuole coraggio, prima che intelligenza, e determinazione prima che talento.
Per questo, a mio parere, La sera della prima assume un'importanza fondamentale nella filmografia di Cassavetes: è quasi come se il regista, da sempre identificato nel ruolo dello spocchioso, straripante talento, si mosse messo in gioco per mostrare il suo lato più umano e il più umanamente possibile, dichiarando al contempo un amore per il teatro e la messa in scena assoluto e quasi magico, in grado di trasmettere la sensazione unica di questo legame anche rispetto a tutti i momenti in cui, tra attori, regista, commediografo e produttori, eccetto una maschera di finta cortesia non resta nulla che non sia terribilmente oscuro.
Non possiamo parlare di Bergman - se solo penso all'interpretazione del teatro in Fanny e Alexander vado quasi in estasi mistica -, ma ugualmente Cassavetes trasporta lo spettatore senza che lui possa accorgersene, od opporsi, in un mondo sfaccettato ed insolito, capace di regalare l'emozione più grande come la più terribile delle solitudini.
E la scena che portano in scena - quanto mi piacciono queste cose! - lui e la straordinaria Rowlands, sua compagna di vita, nel pieno del crescendo conclusivo è qualcosa che si spinge oltre alla sperimentazione, al Cinema, al Teatro: è la passione di due persone che condividono letto, esistenza, professione, amore.
E' tutta la fatica dello stare insieme, il divertimento, il godimento, il vivere, e basta.
E tutto questo inserito in una cornice che tocca il tema dell'arte, dell'inganno - sia esso teatrale o cinematografico, con le stupende scene girate dietro le quinte, a spettacolo in corso -, della decadenza - fisica e sentimentale -, dell'età, della sconfitta e della vittoria consumate di fronte ad un pubblico che ama e aspetta profondamente di essere amato.
Il superamento di se stessi, la crescita, "l'altra donna" che è messa in scena nel corso del film ed è rappresentata da un'epoca ormai lontana e una ragazza morta tragicamente sono una cornice di una ricerca ancora più grande, che assume importanza, pur se da punti di vista diversi, da un lato e dall'altro del sipario.
Di sicuro, e pur senza dubbi precedenti per il suo talento, con La sera della prima John Cassavetes ha guadagnato di diritto la più travolgente delle standing ovations.
MrFord
"Ho camminato per strade sai
ho fatto cose che non dovrei
ho visto cose fantastiche
ho avuto donne bellissime
nessuna ha mai chiarito se
il mondo è vero senza di te... O no!?
Io credo di no."
Vasco Rossi - "Standing ovation"
Dopo Ombre - rivoluzionario per l'approccio ed il montaggio, una sorta di Scorsese in anticipo, parlando di amore per New York -, L'assassinio di un allibratore cinese - totalmente seventies, ipnotico ed esagerato - e Volti - che ho trovato anche meglio di quanto la critica non lo dipingesse - mi sono rivolto a quello che, a mio parere, è il miglior film del vecchio John, per intensità, approccio quasi metacinematografico, passione.
Sicuramente, come ogni altra sua opera, non è una cosa per tutti, o almeno non una di quelle pellicole da approcciare alla leggera pensando che due ore e venti non sono comunque così tante: Cassavetes, con quel suo fare da intellettuale, il montaggio nervoso, lo stile irregolare, può mettere alla prova anche i più pazienti fra i nuovi spettatori delle sue opere, ed irritare ad un tempo i "veterani" che pensano di poterlo affrontare come fosse l'ultimo arrivato.
Del resto, mettere in scena un film sul teatro - ma ancor di più sul ruolo dell'attore - con sua moglie protagonista e giocarsi sul piatto una sorta di discussione nel rapporto con se stessi - regista, ma anche attore, in questo caso - non è affatto cosa da poco: ci vuole coraggio, prima che intelligenza, e determinazione prima che talento.
Per questo, a mio parere, La sera della prima assume un'importanza fondamentale nella filmografia di Cassavetes: è quasi come se il regista, da sempre identificato nel ruolo dello spocchioso, straripante talento, si mosse messo in gioco per mostrare il suo lato più umano e il più umanamente possibile, dichiarando al contempo un amore per il teatro e la messa in scena assoluto e quasi magico, in grado di trasmettere la sensazione unica di questo legame anche rispetto a tutti i momenti in cui, tra attori, regista, commediografo e produttori, eccetto una maschera di finta cortesia non resta nulla che non sia terribilmente oscuro.
Non possiamo parlare di Bergman - se solo penso all'interpretazione del teatro in Fanny e Alexander vado quasi in estasi mistica -, ma ugualmente Cassavetes trasporta lo spettatore senza che lui possa accorgersene, od opporsi, in un mondo sfaccettato ed insolito, capace di regalare l'emozione più grande come la più terribile delle solitudini.
E la scena che portano in scena - quanto mi piacciono queste cose! - lui e la straordinaria Rowlands, sua compagna di vita, nel pieno del crescendo conclusivo è qualcosa che si spinge oltre alla sperimentazione, al Cinema, al Teatro: è la passione di due persone che condividono letto, esistenza, professione, amore.
E' tutta la fatica dello stare insieme, il divertimento, il godimento, il vivere, e basta.
E tutto questo inserito in una cornice che tocca il tema dell'arte, dell'inganno - sia esso teatrale o cinematografico, con le stupende scene girate dietro le quinte, a spettacolo in corso -, della decadenza - fisica e sentimentale -, dell'età, della sconfitta e della vittoria consumate di fronte ad un pubblico che ama e aspetta profondamente di essere amato.
Il superamento di se stessi, la crescita, "l'altra donna" che è messa in scena nel corso del film ed è rappresentata da un'epoca ormai lontana e una ragazza morta tragicamente sono una cornice di una ricerca ancora più grande, che assume importanza, pur se da punti di vista diversi, da un lato e dall'altro del sipario.
Di sicuro, e pur senza dubbi precedenti per il suo talento, con La sera della prima John Cassavetes ha guadagnato di diritto la più travolgente delle standing ovations.
MrFord
"Ho camminato per strade sai
ho fatto cose che non dovrei
ho visto cose fantastiche
ho avuto donne bellissime
nessuna ha mai chiarito se
il mondo è vero senza di te... O no!?
Io credo di no."
Vasco Rossi - "Standing ovation"
martedì 14 settembre 2010
True blood Stagione 3
La qualità che mediamente raggiungono, nell'epoca post-Lost, i prodotti pensati per il piccolo schermo ormai non ha più (quasi) nulla da invidiare al formato cinematografico, e questo è, ormai, un dato di fatto.
Lost a parte, serie come Mad men, Dexter, The shield, I Soprano, Six feet under, Oz hanno segnato nuovi standard a una prima vista impossibili da raggiungere, figurarsi superare.
Poi, quasi in sordina, ispirato - molto alla lontana, a dire il vero - dai libri di Charlene Harris e partorito dalla sempre viva e talentuosa mente di Alan Ball - che con il finale di Six feet under quasi quasi scalza l'epilogo della saga legata all'Oceanic 815 -, è giunto True blood.
Ricordo che avviai il primo episodio piuttosto scetticamente, spinto principalmente dalle passioni "vampiriche" di Julez, e di colpo, complice una sigla tra le più trascinanti mai ideate, mi ritrovai immerso in questa miscela esplosiva di sesso, sangue e southern capace di farmi sentire più a casa che sulla spiaggia dell'isola di Jack, Sawyer e soci.
Nel corso della prima stagione rimasi stupito dalla capacità di Ball e del suo staff di riuscire a fondere l'elemento - già inflazionatissimo - della mitologia dei succhiasangue al grottesco tipico di Six feet under e all'atmosfera in stile noir di Dexter.
Inutile dire che l'attesa per la seconda pareggiò agevolmente quella riservata solo alle serie "del cuore", e, anche grazie allo splendido personaggio di Godric e alle ingenue follie di Jason, riuscì non solo a non disattendere le aspettative, ma addirittura a superarle.
Con la terza stagione True blood si trovava a dover assolvere un compito importante: con Michael C. Hall malato e Lost in procinto di concludersi, Sookie e Bill avrebbero dovuto consolidarsi come protagonisti della mia serie numero uno, per evitare un clamoroso vuoto nelle visioni da piccolo schermo: ancora una volta, grazie al Sud e ai canini, il risultato è stato clamorosamente oltre le più rosee - o cremisi? - aspettative.
Approfondendo il personaggio di Eric - vera e propria colonna portante di questa stagione - ed introducento un cattivo dei migliori - il millenario Russell Edgington è stato in grado, con il suo infantile egoismo vecchio di epoche intere, di liberare il lato oscuro dell'intera serie - le atmosfere già roventi si sono surriscaldate ulteriormente, mettendo così tanta carne al fuoco da far desiderare ad ogni fan di essere già al prossimo giugno, quando sarà ai nastri di partenza la quarta stagione.
Russell stesso, con la sua presenza, ha funto da catalizzatore e motore per la "cattiveria" della serie e dei suoi protagonisti, progressivamente divorati dalle loro passioni e da se stessi in un crescendo che ha visto tornare a svilupparsi il lato umano di Eric - sarà interessante vedere come verrà gestita la questione delle sue "visioni" di Godric - quasi in contrapposizione a quello oscuro dei due "bravi ragazzi" per eccellenza della serie, Bill e Sam.
Gli intrighi del primo, pur se orditi a fin di bene, appaiono sempre più oscuri e poco consoni a tutto il sentimento e la fiducia da sempre riposta in lui da Sookie, così come discordanti rispetto all'amore eterno che il vampiro continua a giurare alla protagonista, mentre il secondo, istigato involontariamente dal fratello - altro personaggio azzeccatissimo, spero verrà approfondito ulteriormente -, torna a scoprire un lato di lui che giaceva nascosto, insieme a quella montagna di denaro che scotta, nella cassaforte del Merlotte's.
Tutto questo concedendo attenzione anche al sempre più irresistibile Jason nel ruolo di "paladino della giustizia", a Lafayette e al suo "strega/infermiere" Jesus, a Hoyt e Jessica e all'atmosfera sudata ed attraente di Bon Temps, emblema di un "southern spirit" come si può intendere al meglio. Forse. E in alcuni casi. Ad ogni modo, da maneggiare con cura.
Senza dimenticare uno dei finali di stagione più incredibili dell'annata televisiva - Russell in diretta tv -, clamorose scene di sesso, sangue a fiumi ed una capacità di affascinare il pubblico degna del più vecchio dei figli di Caino.
Non me ne vogliano i fan di Twilight, o i più intellettuali sostenitori dei Thirst e dei Lasciami entrare.
True blood ha portato il concetto del vampiro nel nuovo millennio, e ridefinito un'icona di ormai quasi trecento anni della cultura popolare come mai era stato fatto prima.
Soltanto a guardarlo, viene voglia di affondare le zanne e sbronzarsi di quel pulsante nettare che ci pulsa nelle vene.
MrFord
P.S. Una citazione d'obbligo, in onore di Julez, va all'unico, vero "bravo ragazzo" di questa terza stagione, Alcide il licantropo. Sono sicuro che avrà incontrato i favori di molte, molte simpatizzanti che, dai vampiri, avranno deciso, dopo averlo visto, di passare dalla parte dei "lupini".
"Dine on glass, wine on blood,
baby, love the hard way,
Baudelaire in Braille,
baby, love the harder way,
once you lose yourself into
I promise you love the hardest way."
H.I.M. - "Love, the hardest way"
Lost a parte, serie come Mad men, Dexter, The shield, I Soprano, Six feet under, Oz hanno segnato nuovi standard a una prima vista impossibili da raggiungere, figurarsi superare.
Poi, quasi in sordina, ispirato - molto alla lontana, a dire il vero - dai libri di Charlene Harris e partorito dalla sempre viva e talentuosa mente di Alan Ball - che con il finale di Six feet under quasi quasi scalza l'epilogo della saga legata all'Oceanic 815 -, è giunto True blood.
Ricordo che avviai il primo episodio piuttosto scetticamente, spinto principalmente dalle passioni "vampiriche" di Julez, e di colpo, complice una sigla tra le più trascinanti mai ideate, mi ritrovai immerso in questa miscela esplosiva di sesso, sangue e southern capace di farmi sentire più a casa che sulla spiaggia dell'isola di Jack, Sawyer e soci.
Nel corso della prima stagione rimasi stupito dalla capacità di Ball e del suo staff di riuscire a fondere l'elemento - già inflazionatissimo - della mitologia dei succhiasangue al grottesco tipico di Six feet under e all'atmosfera in stile noir di Dexter.
Inutile dire che l'attesa per la seconda pareggiò agevolmente quella riservata solo alle serie "del cuore", e, anche grazie allo splendido personaggio di Godric e alle ingenue follie di Jason, riuscì non solo a non disattendere le aspettative, ma addirittura a superarle.
Con la terza stagione True blood si trovava a dover assolvere un compito importante: con Michael C. Hall malato e Lost in procinto di concludersi, Sookie e Bill avrebbero dovuto consolidarsi come protagonisti della mia serie numero uno, per evitare un clamoroso vuoto nelle visioni da piccolo schermo: ancora una volta, grazie al Sud e ai canini, il risultato è stato clamorosamente oltre le più rosee - o cremisi? - aspettative.
Approfondendo il personaggio di Eric - vera e propria colonna portante di questa stagione - ed introducento un cattivo dei migliori - il millenario Russell Edgington è stato in grado, con il suo infantile egoismo vecchio di epoche intere, di liberare il lato oscuro dell'intera serie - le atmosfere già roventi si sono surriscaldate ulteriormente, mettendo così tanta carne al fuoco da far desiderare ad ogni fan di essere già al prossimo giugno, quando sarà ai nastri di partenza la quarta stagione.
Russell stesso, con la sua presenza, ha funto da catalizzatore e motore per la "cattiveria" della serie e dei suoi protagonisti, progressivamente divorati dalle loro passioni e da se stessi in un crescendo che ha visto tornare a svilupparsi il lato umano di Eric - sarà interessante vedere come verrà gestita la questione delle sue "visioni" di Godric - quasi in contrapposizione a quello oscuro dei due "bravi ragazzi" per eccellenza della serie, Bill e Sam.
Gli intrighi del primo, pur se orditi a fin di bene, appaiono sempre più oscuri e poco consoni a tutto il sentimento e la fiducia da sempre riposta in lui da Sookie, così come discordanti rispetto all'amore eterno che il vampiro continua a giurare alla protagonista, mentre il secondo, istigato involontariamente dal fratello - altro personaggio azzeccatissimo, spero verrà approfondito ulteriormente -, torna a scoprire un lato di lui che giaceva nascosto, insieme a quella montagna di denaro che scotta, nella cassaforte del Merlotte's.
Tutto questo concedendo attenzione anche al sempre più irresistibile Jason nel ruolo di "paladino della giustizia", a Lafayette e al suo "strega/infermiere" Jesus, a Hoyt e Jessica e all'atmosfera sudata ed attraente di Bon Temps, emblema di un "southern spirit" come si può intendere al meglio. Forse. E in alcuni casi. Ad ogni modo, da maneggiare con cura.
Senza dimenticare uno dei finali di stagione più incredibili dell'annata televisiva - Russell in diretta tv -, clamorose scene di sesso, sangue a fiumi ed una capacità di affascinare il pubblico degna del più vecchio dei figli di Caino.
Non me ne vogliano i fan di Twilight, o i più intellettuali sostenitori dei Thirst e dei Lasciami entrare.
True blood ha portato il concetto del vampiro nel nuovo millennio, e ridefinito un'icona di ormai quasi trecento anni della cultura popolare come mai era stato fatto prima.
Soltanto a guardarlo, viene voglia di affondare le zanne e sbronzarsi di quel pulsante nettare che ci pulsa nelle vene.
MrFord
P.S. Una citazione d'obbligo, in onore di Julez, va all'unico, vero "bravo ragazzo" di questa terza stagione, Alcide il licantropo. Sono sicuro che avrà incontrato i favori di molte, molte simpatizzanti che, dai vampiri, avranno deciso, dopo averlo visto, di passare dalla parte dei "lupini".
"Dine on glass, wine on blood,
baby, love the hard way,
Baudelaire in Braille,
baby, love the harder way,
once you lose yourself into
I promise you love the hardest way."
H.I.M. - "Love, the hardest way"
lunedì 13 settembre 2010
Giustizia privata
Ed eccoci qui.
Ad ammettere fin da subito che, questa volta, e per questa pellicola, chi si è occupato del trailer ha fatto davvero un ottimo lavoro, facendo in modo che ci cascassi e pensassi a Giustizia privata come ad un film d'intrattenimento becero becero per passarsi un paio d'ore esaltandosi con esplosioni e ammazzamenti vari - un pò alla Expendables, per intenderci -.
Invece, purtroppo per la mia domenica sera - ma solo in parte, dato che il film è una cornice e il bello della vita è tutto a dividere il divano di fronte alla tv con me -, Giustizia privata è veramente una gran bella cagata.
L'incipit e la prima parte, interessanti più che altro per l'effetto straniante creato dalla naturale predisposizione del pubblico a schierarsi dalla parte del padre colpito dalla tragedia interpretato da Gerard Butler, scorrono discretamente, e pur senza far gridare al miracolo - in fondo, di intrattenimento stiamo parlando - paiono quasi dignitosi, se si esclude la pessima scelta di far passare dieci anni dal processo agli assassini della moglie e la figlia del protagonista alla vera e propria "esplosione" del plot - risulta poco credibile vedere in scena attori per nulla cambiati: qualche passata di trucco non ci sarebbe stata così male! -.
Peccato che, come fu per The box, alla prima parte ne sia seguita una seconda capace di sfidare ogni legge della logica anche nell'ottica di un popcorn movie, e che si sia persa, al suo interno, ogni traccia di quell'(auto)ironia che è caratteristica fondamentale per ogni pellicola di questo genere.
Perchè, se la vendetta ed il suo compimento rispetto agli assassini davano la giusta carica emotiva e d'azione al film, scoprire che il disperato protagonista, reso inoffensivo come tutte le persone normali dall'assalto di quelli che non sono nient'altro che due volgarissimi ladri e maniaci di strada, altro non è che un ex collaboratore del governo, geniale stratega, possessore di milioni di dollari di risorse legati a brevetti segreti nonchè una sorta di glaciale macchina da guerra in grado di escogitare e mettere in pratica un piano che ha quasi della fantascienza risulta un poco indigesto anche a chi, come me, recentemente ha avuto modo di testare la sua soglia di schifo cinematografico con horror da primato del peggio mai passato su grande schermo.
E se è pur vero che cose come questa andrebbero viste con leggerezza e lasciate correre senza pensarci neppure troppo, è difficile sforzarsi a non pensare quando è la stessa pellicola ad impedirtelo, forzando la mano ed eccedendo in autoconvinzione.
Ho trovato in Giustizia privata tutto il palesemente brutto che, di tanto in tanto, mi fa rimpiangere l'epoca d'oro dei film d'intrattenimento, quegli anni '80 che, grazie ai mostri sacri - perchè questo sono - Sly e Schwarzy riusciva a produrre schifezze colossali - Commando o Cliffhanger, tanto per citarne uno a testa - e farle passare come il più grosso divertimento cui potevi anelare schiaffato davanti alla tv con tutto il bello della vita accanto.
Peccato, perchè ero davvero partito senza pregiudizi: vorrà dire che la prossima volta ci vorrà ben più di un trailer e di una simpatia a pelle per Butler se mi si vorrà ancora pronto ad affrontare una roba simile.
MrFord
"Lady Justice has been raped
truth assassined
rolls of red tape seal your lips
now you're done in."
Metallica - "And justice for all"
P.S. Ringrazio per l'ispirazione della citazione musicale il mio avversario di opinione Cannibale, che ora avrà un nuovo spunto per opporsi alle mie posizioni.
Ad ammettere fin da subito che, questa volta, e per questa pellicola, chi si è occupato del trailer ha fatto davvero un ottimo lavoro, facendo in modo che ci cascassi e pensassi a Giustizia privata come ad un film d'intrattenimento becero becero per passarsi un paio d'ore esaltandosi con esplosioni e ammazzamenti vari - un pò alla Expendables, per intenderci -.
Invece, purtroppo per la mia domenica sera - ma solo in parte, dato che il film è una cornice e il bello della vita è tutto a dividere il divano di fronte alla tv con me -, Giustizia privata è veramente una gran bella cagata.
L'incipit e la prima parte, interessanti più che altro per l'effetto straniante creato dalla naturale predisposizione del pubblico a schierarsi dalla parte del padre colpito dalla tragedia interpretato da Gerard Butler, scorrono discretamente, e pur senza far gridare al miracolo - in fondo, di intrattenimento stiamo parlando - paiono quasi dignitosi, se si esclude la pessima scelta di far passare dieci anni dal processo agli assassini della moglie e la figlia del protagonista alla vera e propria "esplosione" del plot - risulta poco credibile vedere in scena attori per nulla cambiati: qualche passata di trucco non ci sarebbe stata così male! -.
Peccato che, come fu per The box, alla prima parte ne sia seguita una seconda capace di sfidare ogni legge della logica anche nell'ottica di un popcorn movie, e che si sia persa, al suo interno, ogni traccia di quell'(auto)ironia che è caratteristica fondamentale per ogni pellicola di questo genere.
Perchè, se la vendetta ed il suo compimento rispetto agli assassini davano la giusta carica emotiva e d'azione al film, scoprire che il disperato protagonista, reso inoffensivo come tutte le persone normali dall'assalto di quelli che non sono nient'altro che due volgarissimi ladri e maniaci di strada, altro non è che un ex collaboratore del governo, geniale stratega, possessore di milioni di dollari di risorse legati a brevetti segreti nonchè una sorta di glaciale macchina da guerra in grado di escogitare e mettere in pratica un piano che ha quasi della fantascienza risulta un poco indigesto anche a chi, come me, recentemente ha avuto modo di testare la sua soglia di schifo cinematografico con horror da primato del peggio mai passato su grande schermo.
E se è pur vero che cose come questa andrebbero viste con leggerezza e lasciate correre senza pensarci neppure troppo, è difficile sforzarsi a non pensare quando è la stessa pellicola ad impedirtelo, forzando la mano ed eccedendo in autoconvinzione.
Ho trovato in Giustizia privata tutto il palesemente brutto che, di tanto in tanto, mi fa rimpiangere l'epoca d'oro dei film d'intrattenimento, quegli anni '80 che, grazie ai mostri sacri - perchè questo sono - Sly e Schwarzy riusciva a produrre schifezze colossali - Commando o Cliffhanger, tanto per citarne uno a testa - e farle passare come il più grosso divertimento cui potevi anelare schiaffato davanti alla tv con tutto il bello della vita accanto.
Peccato, perchè ero davvero partito senza pregiudizi: vorrà dire che la prossima volta ci vorrà ben più di un trailer e di una simpatia a pelle per Butler se mi si vorrà ancora pronto ad affrontare una roba simile.
MrFord
"Lady Justice has been raped
truth assassined
rolls of red tape seal your lips
now you're done in."
Metallica - "And justice for all"
P.S. Ringrazio per l'ispirazione della citazione musicale il mio avversario di opinione Cannibale, che ora avrà un nuovo spunto per opporsi alle mie posizioni.
domenica 12 settembre 2010
Thirst
E' sempre difficile, per un appassionato di Cinema, stroncare un film per il quale si nutrivano aspettative altissime: una cosa da "oltre il danno, la beffa", per dirla come il saggio.
Quando, poi, il regista di questo film per il quale si nutrivano aspettative altissime è il signor Park Chan Wook, autore di quella meraviglia che è la trilogia della vendetta - credo che Old boy, in particolare, sia una delle opere più originali, coraggiose, tostissime nonchè visivamente sontuose degli ultimi dieci anni di Cinema -, si ha proprio l'impressione di dover digerire una camionata di santissima merda.
Thirst, mai uscito nelle sale italiane - noi sì, che siamo attenti alla distribuzione! -, è giunto sul mio televisore preceduto da una sequela di recensioni entusiastiche lette in rete e tutta la stima di cui gode in casa Ford il terribile Park, stimolando succulenti e trucide visioni rispetto a quanto e come avrebbe potuto affrontare ed ampliare il tema del vampirismo il geniale regista coreano.
Il risultato della visione, purtroppo, è stato di due ore e quindici minuti di annichilito - e piuttosto noioso - silenzio emotivo soltanto in alla lontana rotto dalla consueta eleganza visiva del regista: una sceneggiatura poco efficace e a tratti priva di logica come i peggiori horror estivi, una narrazione persa nell'autocompiacimento e spunti interessanti che divengono abulici e noiosi, nonchè terribilmente privi di ogni qualsivoglia passione, a scapito di più di una perversione piuttosto insistita che invece di rendere terribilmente sensuale l'utilizzo dei succhiasangue - qualcuno ha detto True blood!? Quelle sì, che sono scene di sesso vampirico da brividi! - riesce soltanto nello scopo di far apparire i due protagonisti come due tipici repressi orientali che, di colpo, liberano i loro sogni erotici fino a quel momento proibiti.
Lo stesso tema religioso, e l'intelligentissima trovata di avere un prete come vampiro protagonista, non trova i riscontri che meriterebbe, e si limita ad un unica, meravigliosa battuta indirizzata da Sang Hyeon al suo vecchio mentore: "Io sono un vampiro, non faccio più parte di nessuna Chiesa!".
I plausi (quei pochi) sono tutti per gli elegantissimi effetti speciali e la confezione, come sempre impeccabile seppur inferiore, per qualità, a Lady Vendetta, pellicola splendida che, rivista ora, dopo Thirst e con la tipica coscienza "a posteriori", già lanciava un campanello d'allarme rispetto al crescente autoreferenzialismo di Park.
Per rendere meglio l'idea di quanta delusione mi abbia riservato Thirst occorre che faccia un passo indietro, e torni ad un altro film "vampirico" adorato dalla critica e giunto con grandi aspettative sui miei schermi che si rivelò una delusione incredibile: Lasciami entrare.
Tolte due scene magistrali - il bambino colpito dal protagonista in pieno stile Haneke e il massacro in piscina -, infatti, anche la pellicola di Tomas Alfredson mi era risultata fine a se stessa, piena di se stessa e ad alta concentrazione di rischio noia anche da parte degli spettatori meglio disposti, che, tendenzialmente, dopo due ore suonate, tanto meglio disposti finivano per non essere più.
Questo è, più o meno riassunto, quello che ho pensato all'epoca della visione di Lasciami entrare: Thirst, con tutta la mia stima per Park Chan Wook, mi è sembrato anche peggio.
Occorre quindi che rivolga un accorato appello al regista coreano, affinchè abbandoni l'eccesso di stile e torni a concentrarsi sulla storia e la narrazione - Mr. Vendetta, asciuttissimo, è stato un esempio perfetto delle potenzialità dell'autore in questo senso -, anche se questo dovesse significare una nuova incarnazione del tanto caro all'autore - ma sempre potenzialmente pericoloso, in termini d'inflazione - tema della vendetta.
Se così non sarà, temo che io, noi, il Cinema intero si possa rischiare seriamente di perdere uno degli esponenti più promettenti che la settima arte abbia regalato alla sua storia negli ultimi vent'anni.
MrFord
"So give them blood, gallons of the stuff
give them all they can drink and it will never be enough."
My chemical romance - "Blood"
Leone d'oro
Come ormai tutti voi saprete, Sofia Coppola con il suo Somewhere ha conquistato il Leone d'oro per il miglior film in questo Festival di Venezia 2010, raccogliendo il testimone di Lebanon, vincitore della passata edizione.
Le mie impressioni a caldo, gettate nel calderone casualmente, sono più o meno così riassumibili:
- Somewhere difficilmente potrà essere peggio di Lebanon, uno dei film più pretenziosi, compiaciuti, schiavi di una violenza sadica e anche un pò malata degli ultimi anni. Buon segno.
- Sofia Coppola e i suoi fan tendenzialmente radical chic non me ne vogliano, ma l'ho sempre trovata una regista sopravvalutata e difficilmente collocabile al posto in cui si trova senza il cognome che porta. Il giardino delle vergini suicide mi è sembrato insipiduccio ed è passato quasi senza che me ne accorgessi, ho detestato - ma proprio detestato - lo snob e vuotissimo Lost in translation e Marie Antoinette - che fino ad ora mi è parso il suo lavoro migliore - mi ha discretamente divertito, pur senza farmi strappare i capelli dal tripudio cinefilo.
- Non avendo ancora visto Somewhere, non voglio sbilanciarmi, ma il Leone mi incuriosisce un pochino di più ad approcciarlo. Ora resta soltanto da convincere Julez.
- Confido nel miracolo di The wrestler, che mi fece cambiare opinione su Aronofsky, e spero ardentemente che si possa ripetere.
- Quentin Tarantino era presidente della giuria. Nonchè ex fidanzato di Sofia Coppola. Ora, non voglio necessariamente fare il provocatore, ma essendo stato membro di una giuria di un festival cinematografico - piccolo e dedicato a documentari, ma pur sempre un festival - per quattro anni ho ben presenti le dinamiche che vengono sviluppate in seno ai giurati e agli organizzatori dell'evento.
- Quentin Tarantino, qualche anno fa, a Cannes, premiò Fahrenheit 9/11, il film peggiore di Michael Moore, a scapito di Mystic river. Ancora non l'ho digerita.
- Quentin Tarantino ha fatto il suo show alla premiazione, e anche in questo post è citato più della regista vincitrice del Leone d'oro - che, tra le altre cose, il ragazzaccio di Knoxville non ha ancora vinto, ma chissà che in futuro non possa accadere, magari con la sua ex fidanzata a presiedere la giuria -.
- Quentin Tarantino, forse, a Venezia ha già vinto. E di certo, a quest'ora, avrà anche festeggiato. Con Sofia Coppola?
MrFord
"Venezia che muore,
Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi
Venezia la vende ai turisti."
Francesco Guccini - "Venezia"
Le mie impressioni a caldo, gettate nel calderone casualmente, sono più o meno così riassumibili:
- Somewhere difficilmente potrà essere peggio di Lebanon, uno dei film più pretenziosi, compiaciuti, schiavi di una violenza sadica e anche un pò malata degli ultimi anni. Buon segno.
- Sofia Coppola e i suoi fan tendenzialmente radical chic non me ne vogliano, ma l'ho sempre trovata una regista sopravvalutata e difficilmente collocabile al posto in cui si trova senza il cognome che porta. Il giardino delle vergini suicide mi è sembrato insipiduccio ed è passato quasi senza che me ne accorgessi, ho detestato - ma proprio detestato - lo snob e vuotissimo Lost in translation e Marie Antoinette - che fino ad ora mi è parso il suo lavoro migliore - mi ha discretamente divertito, pur senza farmi strappare i capelli dal tripudio cinefilo.
- Non avendo ancora visto Somewhere, non voglio sbilanciarmi, ma il Leone mi incuriosisce un pochino di più ad approcciarlo. Ora resta soltanto da convincere Julez.
- Confido nel miracolo di The wrestler, che mi fece cambiare opinione su Aronofsky, e spero ardentemente che si possa ripetere.
- Quentin Tarantino era presidente della giuria. Nonchè ex fidanzato di Sofia Coppola. Ora, non voglio necessariamente fare il provocatore, ma essendo stato membro di una giuria di un festival cinematografico - piccolo e dedicato a documentari, ma pur sempre un festival - per quattro anni ho ben presenti le dinamiche che vengono sviluppate in seno ai giurati e agli organizzatori dell'evento.
- Quentin Tarantino, qualche anno fa, a Cannes, premiò Fahrenheit 9/11, il film peggiore di Michael Moore, a scapito di Mystic river. Ancora non l'ho digerita.
- Quentin Tarantino ha fatto il suo show alla premiazione, e anche in questo post è citato più della regista vincitrice del Leone d'oro - che, tra le altre cose, il ragazzaccio di Knoxville non ha ancora vinto, ma chissà che in futuro non possa accadere, magari con la sua ex fidanzata a presiedere la giuria -.
- Quentin Tarantino, forse, a Venezia ha già vinto. E di certo, a quest'ora, avrà anche festeggiato. Con Sofia Coppola?
MrFord
"Venezia che muore,
Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi
Venezia la vende ai turisti."
Francesco Guccini - "Venezia"
venerdì 10 settembre 2010
La guerra dei Roses
Il rapporto fra un uomo e una donna, anche nelle migliori relazioni, si sa, è frutto di un connubio quasi simbiotico di gioie e dolori che ha dato origine ad una vera e propria mitologia che tocca tutte le forme d'arte e narrazione possibili, e trova ispirazione nella realtà del vissuto di ogni artista che si sia cimentato nel genere.
Del resto, come è solito dire Joe Lansdale - "è sempre meglio parlare di ciò che si conosce bene" - ed io sono solito confermare, nessun uomo conosce un argomento meglio del "conflitto" - anche e spesso soprattutto piacevole - con la sua metà: le serate con gli amici, i pranzi al lavoro, le sbronze sono i momenti migliori in cui tutti i maschi, alfa o meno, rivelano senza pudore la loro condizione di eterni sconfitti nello scontro con il gentil sesso, specchio di una situazione che da secoli e secoli, ormai, vede imperversare - a ragione, del resto, considerate le maggiori doti di controllo, convincimento e prettamente intellettive del genere femminile - il rosa.
So che suonerà un pò sessista questo incipit, soprattutto considerato che la discriminazione e la violenza sulle donne ancora rappresentano un problema culturale enorme anche nei cosiddetti paesi evoluti e civili, ma il mio discorso è frutto di testimonianze legate alla vita nel suo normale svolgimento, in normali case e nei normali rapporti fra normali persone.
E in questo universo di normalità, non c'è verso, ma proprio per nulla, che un uomo riesca ad avere l'ultima parola rispetto alla sua compagna: a testimoniare questo fatto è il regista ed interprete Danny DeVito, avvocato divorzista ritratto nel pieno di un tentativo di recupero di un suo potenziale cliente, attraverso la macabra storia di Barbara e Oliver Rose.
Diciassette anni di matrimonio, una casa perfetta, una carriera avviata, due figli in procinto di entrare ad Harvard, solidità economica e posizione sociale: insomma, niente di meglio rispetto a quello che una qualsiasi famiglia potrebbe chiedere.
Eppure, dopo una vita passata fianco a fianco, Barbara e Oliver non sopportano più l'uno la presenza dell'altra, e complici egoismi e meschini giochi di ego, si ritrovano, sull'orlo del divorzio, a contendersi il nido che ha significato il loro stesso matrimonio.
Da questa scintilla scatta l'epica guerra che da titolo al film, favola nera che mescola Tim Burton a Sam Raimi e diviene uno spaccato crudele, divertente e cinico dell'evoluzione dei rapporti di coppia.
Le scene di culto non si contano, e l'escalation di violenza fisica, psicologica e verbale che si innesca fra i coniugi è irresistibilmente divertente quanto spaventosa, in un crescendo di colpi bassi - in tutti i sensi - che non risparmiano neppure gli animali domestici e la casa stessa, oggetto della disputa: ad ogni quasi impercettibile segno di riconciliazione dell'uno corrisponde un nuovo tiro mancino dell'altra - e viceversa -, quasi ci si trovasse all'interno della più classica delle tragedie greche o shakespeariane e che il Destino - o come lo si voglia chiamare - sarà comunque pronto, alla fine, a chiedere il suo pesante fio.
DeVito, sorta di Grillo parlante appassionato di piedi femminili, lotterà fino all'ultimo per spingere i due protagonisti a seppellire l'ascia di guerra, e ancora oltre, quando la storia dei Roses sarà solo il ricordo degli avvenimenti che scatenarono il suo ritorno al tabagismo, e il cliente di fronte a lui sarà solo un uomo normale in procinto di divorziare.
Il regista/attore incede sornione, e ricorda che una soluzione pacifica in favore della futura ex consorte o una riflessione sui motivi che hanno spinto la coppia all'unione e alla separazione con conseguente nuovo tentativo di avvicinamento sono le strade consigliate, in questi casi.
Perchè non si sa mai dove si può finire, quando inizia una guerra di cuore.
Quello che è certo, è che l'uomo può sperare solo, e miracolosamente, di pareggiare.
Fate i vostri conti, ragazzi.
MrFord
"Dress sexy at my funeral,
my good wife!
For the first time
in your life."
Smog - "Dress sexy at my funeral"-
Del resto, come è solito dire Joe Lansdale - "è sempre meglio parlare di ciò che si conosce bene" - ed io sono solito confermare, nessun uomo conosce un argomento meglio del "conflitto" - anche e spesso soprattutto piacevole - con la sua metà: le serate con gli amici, i pranzi al lavoro, le sbronze sono i momenti migliori in cui tutti i maschi, alfa o meno, rivelano senza pudore la loro condizione di eterni sconfitti nello scontro con il gentil sesso, specchio di una situazione che da secoli e secoli, ormai, vede imperversare - a ragione, del resto, considerate le maggiori doti di controllo, convincimento e prettamente intellettive del genere femminile - il rosa.
So che suonerà un pò sessista questo incipit, soprattutto considerato che la discriminazione e la violenza sulle donne ancora rappresentano un problema culturale enorme anche nei cosiddetti paesi evoluti e civili, ma il mio discorso è frutto di testimonianze legate alla vita nel suo normale svolgimento, in normali case e nei normali rapporti fra normali persone.
E in questo universo di normalità, non c'è verso, ma proprio per nulla, che un uomo riesca ad avere l'ultima parola rispetto alla sua compagna: a testimoniare questo fatto è il regista ed interprete Danny DeVito, avvocato divorzista ritratto nel pieno di un tentativo di recupero di un suo potenziale cliente, attraverso la macabra storia di Barbara e Oliver Rose.
Diciassette anni di matrimonio, una casa perfetta, una carriera avviata, due figli in procinto di entrare ad Harvard, solidità economica e posizione sociale: insomma, niente di meglio rispetto a quello che una qualsiasi famiglia potrebbe chiedere.
Eppure, dopo una vita passata fianco a fianco, Barbara e Oliver non sopportano più l'uno la presenza dell'altra, e complici egoismi e meschini giochi di ego, si ritrovano, sull'orlo del divorzio, a contendersi il nido che ha significato il loro stesso matrimonio.
Da questa scintilla scatta l'epica guerra che da titolo al film, favola nera che mescola Tim Burton a Sam Raimi e diviene uno spaccato crudele, divertente e cinico dell'evoluzione dei rapporti di coppia.
Le scene di culto non si contano, e l'escalation di violenza fisica, psicologica e verbale che si innesca fra i coniugi è irresistibilmente divertente quanto spaventosa, in un crescendo di colpi bassi - in tutti i sensi - che non risparmiano neppure gli animali domestici e la casa stessa, oggetto della disputa: ad ogni quasi impercettibile segno di riconciliazione dell'uno corrisponde un nuovo tiro mancino dell'altra - e viceversa -, quasi ci si trovasse all'interno della più classica delle tragedie greche o shakespeariane e che il Destino - o come lo si voglia chiamare - sarà comunque pronto, alla fine, a chiedere il suo pesante fio.
DeVito, sorta di Grillo parlante appassionato di piedi femminili, lotterà fino all'ultimo per spingere i due protagonisti a seppellire l'ascia di guerra, e ancora oltre, quando la storia dei Roses sarà solo il ricordo degli avvenimenti che scatenarono il suo ritorno al tabagismo, e il cliente di fronte a lui sarà solo un uomo normale in procinto di divorziare.
Il regista/attore incede sornione, e ricorda che una soluzione pacifica in favore della futura ex consorte o una riflessione sui motivi che hanno spinto la coppia all'unione e alla separazione con conseguente nuovo tentativo di avvicinamento sono le strade consigliate, in questi casi.
Perchè non si sa mai dove si può finire, quando inizia una guerra di cuore.
Quello che è certo, è che l'uomo può sperare solo, e miracolosamente, di pareggiare.
Fate i vostri conti, ragazzi.
MrFord
"Dress sexy at my funeral,
my good wife!
For the first time
in your life."
Smog - "Dress sexy at my funeral"-
Compagni di scuola
Nella serata "di recupero" di ieri - giunta dopo una settimana a ridosso delle novità - si è verificata una condizione particolare per casa Ford: le due pellicole passate sul nostro schermo erano una prima visione per il sottoscritto ed una "revisione" per Julez che, al contrario, è normalmente iniziata dal sempre pronto James a nuove esperienze cinematografiche che spesso terminano in sonore dormite davanti al televisore, specie quando cerco di propinarle titoli d'essai poco avvezzi al ritmo serrato.
Compagni di scuola, a detta di molti critici il miglior film di Verdone regista, lascia da parte la comicità macchiettistica tipica della maggior parte dei lavori del cineasta romano per celebrare, in qualche modo, la fine - solo apparentemente divertente, e spesso tristemente drammatica - degli anni ottanta e della sua generazione "d'oro".
Verdone recupera un modello che ha fatto la storia del cinema americano - Altman docet - e trasforma questa amara commedia in un film corale che incrocia i destini di un'intera classe di ex compagni che si ritrovano, invitati dalla ricca Federica, a fare il punto della loro vita quindici anni dopo la fine delle scuole superiori.
Come io stesso ben so - non manca poi molto al momento in cui anche io avrò lasciato quindici anni di distanza dal fatidico giugno millenovecentonovantotto - non sempre le reunion con vecchie conoscenze possono portare qualcosa di positivo, per se stessi o per gli altri, e a discapito delle apparenze, o delle finte curiosità, possono scoprire scheletri scomodi nell'armadio di chiunque abbia passato insieme un periodo così delicato della vita - dicesi adolescenza -.
Gli esempi del povero Fabris - bersagliato dai compagni a causa del suo tracollo fisico - e del senza vergogna Ciardulli - finta celebrità alla ricerca di soldi che troverà la sua personale vendetta nella rivalsa contro Santolamazza -, in questo senso, sono terribili nella loro involontaria comicità.
Ma il vero salto di qualità della pellicola, nonchè personaggio che ogni attore vorrebbe interpretare una volta letto un copione come questo, è dato da Valenzani, unico, vero "realizzato" dei compagni di scuola, uomo di potere in tutto e per tutto capace di mostrare il vero aspetto dello stesso, assumento i connotati di una neppure troppo velata critica agli uomini di governo - italiani e non -.
Il burinissimo Finocchiaro, cinico e parecchio stronzo, appare come uno scolaretto a confronto dell'onorevole Valenzani, in una perfetta sintesi fra classe dirigente e popolo.
Un'opera notevole per il Cinema italiano di allora, frastornato dalle prime ondate di quelli che diverranno, nel corso degli anni novanta, i cinepanettoni.
Certo, non stiamo parlando di America oggi o di Un matrimonio, e il modello americano è ben lontano, ma Compagni di scuola resta un'onestissimo buon lavoro che associo, come Regalo di Natale di Avati, ad un momento in cui, anche in Italia, l'idillio con l'ottimismo degli anni "da bere" stava giungendo al termine.
In questo senso, l'inesorabile declino del Patata, interpretato dallo stesso Verdone, è un esempio perfetto di quella che è stata un'epoca forse presa un pò troppo in velocità dai suoi protagonisti, come una curva giusto quel tantino troppo stretta: c'è chi è uscito, chi si è perso, chi è morto, chi è andato avanti e chi non si sa dove finirà.
Forse, per avere una risposta, occorrerebbe chiedere a Verdone e compagni.
MrFord
"Gli anni d'oro del grande Real,
gli anni di Happy days e di Ralph Malph,
gli anni delle immense compagnie,
gli anni del tranquillo siamo qui noi."
883 - "Gli anni"
Compagni di scuola, a detta di molti critici il miglior film di Verdone regista, lascia da parte la comicità macchiettistica tipica della maggior parte dei lavori del cineasta romano per celebrare, in qualche modo, la fine - solo apparentemente divertente, e spesso tristemente drammatica - degli anni ottanta e della sua generazione "d'oro".
Verdone recupera un modello che ha fatto la storia del cinema americano - Altman docet - e trasforma questa amara commedia in un film corale che incrocia i destini di un'intera classe di ex compagni che si ritrovano, invitati dalla ricca Federica, a fare il punto della loro vita quindici anni dopo la fine delle scuole superiori.
Come io stesso ben so - non manca poi molto al momento in cui anche io avrò lasciato quindici anni di distanza dal fatidico giugno millenovecentonovantotto - non sempre le reunion con vecchie conoscenze possono portare qualcosa di positivo, per se stessi o per gli altri, e a discapito delle apparenze, o delle finte curiosità, possono scoprire scheletri scomodi nell'armadio di chiunque abbia passato insieme un periodo così delicato della vita - dicesi adolescenza -.
Gli esempi del povero Fabris - bersagliato dai compagni a causa del suo tracollo fisico - e del senza vergogna Ciardulli - finta celebrità alla ricerca di soldi che troverà la sua personale vendetta nella rivalsa contro Santolamazza -, in questo senso, sono terribili nella loro involontaria comicità.
Ma il vero salto di qualità della pellicola, nonchè personaggio che ogni attore vorrebbe interpretare una volta letto un copione come questo, è dato da Valenzani, unico, vero "realizzato" dei compagni di scuola, uomo di potere in tutto e per tutto capace di mostrare il vero aspetto dello stesso, assumento i connotati di una neppure troppo velata critica agli uomini di governo - italiani e non -.
Il burinissimo Finocchiaro, cinico e parecchio stronzo, appare come uno scolaretto a confronto dell'onorevole Valenzani, in una perfetta sintesi fra classe dirigente e popolo.
Un'opera notevole per il Cinema italiano di allora, frastornato dalle prime ondate di quelli che diverranno, nel corso degli anni novanta, i cinepanettoni.
Certo, non stiamo parlando di America oggi o di Un matrimonio, e il modello americano è ben lontano, ma Compagni di scuola resta un'onestissimo buon lavoro che associo, come Regalo di Natale di Avati, ad un momento in cui, anche in Italia, l'idillio con l'ottimismo degli anni "da bere" stava giungendo al termine.
In questo senso, l'inesorabile declino del Patata, interpretato dallo stesso Verdone, è un esempio perfetto di quella che è stata un'epoca forse presa un pò troppo in velocità dai suoi protagonisti, come una curva giusto quel tantino troppo stretta: c'è chi è uscito, chi si è perso, chi è morto, chi è andato avanti e chi non si sa dove finirà.
Forse, per avere una risposta, occorrerebbe chiedere a Verdone e compagni.
MrFord
"Gli anni d'oro del grande Real,
gli anni di Happy days e di Ralph Malph,
gli anni delle immense compagnie,
gli anni del tranquillo siamo qui noi."
883 - "Gli anni"
giovedì 9 settembre 2010
Dragon trainer
Non ho neppure finito di denigrare le scelte della Dreamworks e l'abisso che la separa dalla Pixar che m'imbatto in quello che, a tutti gli effetti, è diventato il mio film preferito della casa madre di Shrek e soci.
Consigliatissimo ai tempi della sua uscita dal mio compare di fumetto Tommy, è rimasto nel limbo fino a ieri sera, quando la ricerca di qualcosa di non eccessivamente impegnativo ha portato alla terra lontana "in cui nove mesi l'anno nevica, e gli altri tre grandina" di Hiccup e compagni.
Vichingo di nascita, ma certo non per vocazione, il giovane protagonista assiste alle prodigiose gesta guerresche di Stoick, suo padre, e di Astrid, innamorata che non ha speranze lo corrisponda, contro i draghi di varie specie che quasi quotidianamente assaltano e razziano il villaggio in cui ha trovato dimora la popolazione di Hiccup da quasi trecento anni.
Imbranato e poco affine al combattimento, il nostro si ritrova quasi per caso ad essere il primo vichingo a catturare ed avvicinare - grazie alla sua perizia tecnica, al caso e all'intelligenza - una delle furie nere, tipologia leggendaria di drago, solo per scoprire che, attraverso un percorso di avvicinamento che mescola Il piccolo principe alle disavventure che chiunque abbia avuto un animale domestico ben conosce, la realtà è molto meno violenta di quanto non appaia dalle continue battaglie, e che gli stessi draghi sono costretti ad attaccare il villaggio da una forza decisamente superiore alla loro.
Mantenendo il gusto per la meraviglia di Avatar e delle cavalcate dei Kraan - so già che il Cannibale storcerà il naso -, ed unendolo allo spirito di un "eroe" che ricorda incredibilmente Marty McFly, la Dreamworks confeziona una pellicola che di certo non inventa nulla in materia di script - il conflitto con il padre, l'outsider che progressivamente diventa eroe della comunità grazie alla sua abilità "alternativa", il ricambio generazionale ed il suo valore -, ma che si rivela ironica, emozionante, sentimentale ma non troppo, coraggiosa - la scelta di riportare Hiccum "quasi intero" dall'ultima battaglia è ammirevole, non banale ne tantomeno retorica - e divertente per grandi e piccini.
Certo, restiamo ancora ben lontani dalle creature di Lasseter e soci, ma per la prima volta ho avuto l'impressione che, in casa Dreamworks, si sia voluto realizzare un film, e non la consueta sequenza di scenette divertenti giocate sulla simpatia - principalmente visiva - dei personaggi. Il rapporto fra Hiccum e Sdentato - così verrà chiamato il drago ritrovato dal protagonista -, con ironia e dolcezza, rivive tutti i passi che si compiono - o si compieranno - nel rapporto con un animale, fatto di avvicinamenti progressivi, di sguardi sfuggenti, di cortesie ricambiate, fino ad arrivare alla piena fiducia e lealtà.
Un pò come accade anche fra gli uomini, che non per nulla sono gli animali più ingombranti del pianeta.
E visto che, fino ad ora, mi sembra di essere stato troppo buono per i miei standard e non vorrei deteriorare troppo la mia immagine di "antieroe delle recensioni", butto il sasso sorridendo alla curiosa situazione che vede i due registi della migliore opera Dreamworks venire dalla Disney - DeBlois&Sanders, infatti, diressero Lilo&Stitch, che personalmente adoro - : forse anche questa è una dimostrazione dello strapotere Pixar?
MrFord
"Take the time to think about it
walk the line, you know you just can't fight it,
take a look around, you'll see what you can find,
like the fire that's burning up inside me."
Def Leppard - "Two steps behind"