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mercoledì 30 aprile 2014

Dom Hemingway

Regia: Richard Shepard
Origine: UK
Anno: 2013
Durata:
93'





La trama (con parole mie): Dom Hemingway è uno scassinatore, ma sarebbe riduttivo etichettarlo solo in questo modo. E' un vecchio figlio di puttana che per dodici anni è rimasto dentro tenendo la bocca cucita e giocandosi, in questo modo, la possibilità di assistere la moglie malata di cancro e alla crescita della figlia. Giunto il grande giorno della Libertà, Dom si trova a dover ricostruire la sua vita proprio a partire dal credito da riscuotere presso il beneficiario del suo silenzio, il letale Fontaine, boss e killer russo riconvertitosi alla campagna francese: ma i suoi guai da cittadino che ha pagato il debito alla società sono appena iniziati, così come il percorso che potrebbe portarlo a ricucire il rapporto con Evelyn, che lo vide uscire dalla sua vita ancora prima di essere un'adolescente e tornare proprio nel momento in cui la sua famiglia pare aver preso una forma ed una direzione ben precise.
L'esatto opposto rispetto al destino del sanguigno Hemingway.








"A volte si incontra un uomo...", recita lo Straniero nell'incipit del supercult Il grande Lebowski, "a volte si incontra un uomo che è l'uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto".
E in questo caso, con buona pace dell'eroe dei Fratelli Coen, è Dom Hemingway, accento più che british e piglio decisamente oltre il pane e salame.
Perchè il lavoro di Richard Shepard - giovane newyorkese cresciuto nel mondo delle serie tv -, nonostante alcune ingenuità di direzione, delinea un charachter assolutamente memorabile, interpretato alla grandissima da un Jude Law in stato di grazia e finisce per essere illuminato da dialoghi serratissimi ed al fulmicotone, assolutamente impensabili da seguire se non in originale per poter essere apprezzati al meglio.
Onestamente, non sapevo cosa aspettarmi, da una visione come questa: in fondo, quello che cercavo era un intrattenimento old school nello stile di Stand up guys, a metà tra la malinconia ed il divertimento - promessa assolutamente mantenuta, tra le altre cose - che non sfociasse in una delusione, ed al contrario si è materializzato dalle parti del Saloon come un cocktail in grado di dare il colpo del KO un prodotto travolgente e sentito, che rende l'allucinata lezione del recente Il lercio qualcosa di più simile all'emozionante Hesher, ed il suo protagonista un antieroe da ricordare, non fosse altro per il turpiloquio al servizio di un cuore non così nero come finisce per dipingerlo lui stesso.
Andando, dunque, oltre alla cornice pulp di matrice tarantiniana - nonostante l'atmosfera ricordi più il Guy Ritchie dei tempi d'oro -, le presenze illustri di comprimari pescati dall'universo dei serial come Nathan Stewart-Jarrett ed Emilia Clarke, Dom Hemingway rappresenta quello che, fossimo dall'altra parte dell'Atlantico, di tanto in tanto, il Sundance e le pellicole indie finiscono per regalare al pubblico inizialmente scettico sequenza dopo sequenza convinto quasi alla commozione grazie ad una partecipazione sempre maggiore rispetto alle vicende narrate.
Ma, in tutta onestà, non voglio scrivere di questo film come se fosse mera materia tecnica, o analisi critica: perchè non si tratta di una pellicola perfetta, il voto che le ho assegnato potrebbe perfino risultare esagerato, la dimensione finisce per essere decisamente quella della proposta di nicchia, l'approccio e l'estetica appaiono senza dubbio derivativi, eppure Dom Hemingway c'è.
Nonostante le avversità, il Destino, il passato.
Il coriaceo Dom è presente. E lo sarà sempre. Perchè non è il tipo da tirarsi indietro di fronte ad una scommessa o ad una sfida. Perchè è un tipo da rimorsi, più che da rimpianti.
Se volete qualcosa che vi diverta, sollevando i pesi della vita ed allargando le spalle in modo da portarli in vostra vece, avete trovato pane per i vostri denti.
Nonostante non sia affatto certo che possiate uscirne con i suddetti completamente al loro posto. E soprattutto intatti.
Ma ancora una volta ci sto girando troppo attorno: questo è un film che va vissuto, indipendentemente da quanto se ne possa leggere in giro. Probabilmente, se fosse il vecchio Don a parlarne - si veda lo splendido monologo di apertura - non ci sarebbero mezze misure, da un "fottiti" in caso di disapprovazione - con tanto di cazzotto già pronto in canna - ad un sincero e molto alcolico abbraccio dal sapore di patto di sangue.
Dom c'è, con tutto se stesso.
E ci sarà sempre.
Perchè il mondo è il suo boccale, o la sua vagina.
E lui non potrà mai e poi mai rinunciare all'uno e all'altra.
Tranne quando si tratterà di alzarsi presto un lunedì mattina.
Vedere per credere.
Io mi fido di lui.




MrFord




"Got me a movie
I want you to know
slicing up eyeballs 
I want you to know
girlie so groovy
I want you to know
don't know about you."
Pixies - "Debaser" - 





martedì 29 aprile 2014

Il lercio

Regia: Jon S. Baird
Origine: UK
Anno:
2013
Durata: 97'





La trama (con parole mie): Bruce Robertson è un detective della polizia di Edinburgo in lizza per un'importante promozione alle prese con l'indagine legata all'omicidio di un giovane turista giapponese avvenuto per mano di un gruppo di balordi locali. Robertson, ossessionato dalle figure della moglie e della figlia, è preda, giorno dopo giorno, di una discesa nella spirale della dipendenza da alcool e droghe e di un allucinato viaggio interiore che lo porta a confrontarsi con i fantasmi del suo passato, le bassezze commesse verso i colleghi, gli amici e più in generale il resto degli esseri umani ed un crescendo che non gli permette più di distinguere la realtà dal delirio.
Riuscirà l'arcigno poliziotto a vincere se stesso e sopravvivere alle sue debolezze? Il caso verrà risolto? A chi andrà la promozione?








Irvine Welsh è da sempre un autore piuttosto ostico, per il sottoscritto. Che si parli di romanzi o di pellicole tratte dagli stessi, finisco sempre per impiegare un pò ad apprezzare il lavoro del ruvido scrittore scozzese: come se dovesse farsi il culo, perchè possa volergli davvero bene.
Il lercio è stato un'ottima interpretazione di questa curiosa consuetudine: in una serata di stanca di quelle in cui vorresti semplicemente abbandonarti sul divano e dormire fino alla fine dei tempi, il lavoro allucinato di Jon S. Baird - che, più che di noir e crime, pare cibarsi della stessa materia di Paura e delirio a Las Vegas e John dies at the end - ha faticato a carburare, lottando con le unghie e con i denti per passare dallo sconnesso tentativo di stupire di un nuovo regista affacciatosi sulle scene ad un ritratto notevole di un dramma di dipendenza e (dis)umanità assoluta.
James McAvoy, che di norma siamo abituati a vedere recitare la parte del "buono", fornisce una delle prove più convincenti della sua carriera accollandosi il peso di un charachter che, di buono, ha davvero poco o nulla, un protagonista sgradevole ed ingombrante di quelli che si finisce per osservare come se fossero scarafaggi rivoltati, più per curiosità sociologica che non per empatia.
Il suo Bruce Robertson, con fantasmi del passato annessi, è il cardine di una struttura sconnessa quanto lui, che rimbalza come una scheggia impazzita sullo schermo tra una sbronza, una striscia di coca, una scopata improvvisata ed una orchestrata alle spalle e ai danni di qualcuno, e se dev'essere qualcuno meglio che sia un collega, o un punto di riferimento da sfruttare non appena dovesse capitare l'occasione.
Un ruolo non facile davvero, che il buon McAvoy porta in scena con un piglio assolutamente convincente, supportato da un cast di spalle di prim'ordine - dal veterano Jim Broadbent a Eddie Marsan, uno dei migliori caratteristi anglosassoni, senza dimenticare attrici come Pollyanna McIntosh, sottovalutata ed ancora poco sfruttata interprete dello splendido The Woman di Lucky McKee: l'insieme delle interpretazioni, accanto ad una costruzione forse lenta - considerando la durata effettiva della pellicola - ma efficace, contribuiscono a condurre lo spettatore - disorientato o sconvolto che sia - dalle parti di un finale da urlo, impreziosito - anche se si tratta soltanto di una chicca da cinefili - da titoli di coda a cartoon a dir poco perfetti, che mi hanno riportato alla mente l'effetto che, pensando alla cultura UK, hanno sempre avuto sul sottoscritto le opere di Orwell, uno dei più grandi geni della Letteratura di tutti i tempi.
Per essere un crime movie da superamento del dolore decisamente scorretto ed assolutamente lercio - per l'appunto -, il lavoro di Baird funziona alla grande, riuscendo ad andare oltre i pregiudizi, lo spaesamento iniziale - almeno del sottoscritto -, una fluidità non proprio da manuale ed una materia decisamente poco in grado di rendere l'operazione "simpatica" a chi la osserva dall'altra parte dello schermo: un plauso, dunque, a Welsh e allo spirito con il quale è stato tradotto in immagini e trasformato in un Ulisse psichedelico di rimembranze dal sapore di whisky e James Joyce, che sarà pure stato irlandese, ma doveva avere più di un'affinità con i cugini - seppur più freddi, esperienza personale - compatrioti di William Wallace.
Per un detective strafatto, senza controllo e completamente in mano ai suoi demoni, direi che non è cosa da poco.




MrFord



 
"Your beauty makes me feel alone
I look inside but no one's home
screw that
forget about that
I don't want to think about anything like that."
Therapy? - "Screamager" - 




lunedì 28 aprile 2014

Noah

Regia: Darren Aronofsky
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 138'





La trama (con parole mie): ai tempi dei tempi, il Creatore, dopo aver forgiato l'Universo in sette giorni e plasmato l'Uomo, non soddisfatto dell'operato di quest'ultimo, decise di porre rimedio alla piaga per il pianeta che aveva sguinzagliato attraverso un flagello di acque purificatrici noto come il Diluvio Universale. Noè, devoto e legato ad un'antica tradizione che riferiva ad autorevoli rappresentanti come Matusalemme, accompagnato dalla famiglia, è incaricato dunque dall'Altissimo di costruire un'Arca che possa trarre in salvo gli animali di tutto il globo a coppie, in modo da poter garantire una nuova vita una volta spazzata via la minaccia umana.
La stirpe di Caino, però, guidata dal tenace Tubal Cain, non intende arrendersi al volere dei cieli, e si dichiara pronta a combattere Noè per guadagnarsi la salvezza: ma per il prediletto del Signore la minaccia più grande per il compimento dell'impresa sarà costituita dal progressivo allontanarsi dalle sue radicali posizioni della moglie e dei figli, decisi a preservare i propri eredi e fiduciosi in un nuovo futuro.








Dovevo saperlo, caro Aronofsky, che il mio primo istinto era quello giusto.
Mi sono fatto abbagliare da quel Capolavoro di The wrestler, ed illudere dall'ottimo Il cigno nero.
Ma nonostante tutto, sotto sotto, buon Darren, resti sempre un pippone cosmico con manie di grandezza.
Da molto tempo prima di quell'abominevole schifezza che fu The fountain - L'albero della vita.
E Noah, enorme produzione biblico-new age che già dal trailer prometteva davvero male, finisce per starci giusta giusta a braccetto.
Come se non bastasse questa infausta diagnosi, entra nell'equazione l'errore più grave in un film incentrato sulla figura del nocchiero dell'Arca: non hai spiegato - e non ci hai neppure provato, a dirla tutta - dove diavolo possono essere finiti, in tutto quel trambusto mistico da deliranza religiosa, i fantomatici e leggendari leocorni, inseguiti dai bambini di almeno una generazione.
Non si fa, caro Darren.
Non si fa proprio.
E ringrazia che non menzioni il fatto che dopo dieci minuti di film la misura sia già colma, con il faccia a faccia al limite del ridicolo tra i buoni e cari discendenti di Matusalemme, vegan e politically correct, e gli infami figli di Caino, carnivori e violenti, schiavi del consumismo e delle armi.
Vogliamo prenderci davvero così per il culo?
Dove sono finiti i cari, splendidi kolossal biblici di un tempo come I dieci comandamenti o Ben Hur?
Scomparsi in un delirio di onnipotenza costruito con mezzi da fantascienza che mescola i wannabe di 2001 come il The tree of life di Malick alle dottrine da Nuovo Millennio sensibilizzato rispetto alla salute del pianeta, il Russell Crowe de Il gladiatore a quello di Master and commander - del resto, non ce l'avrebbe fatta a condurre l'Arca in salvo, se non fosse stato un navigatore esperto -, il blockbuster di grana grossa alle ambizioni di un Autore che, purtroppo, a questo punto occorre quasi doverosamente ammettere che Autore sia e resti soltanto nei suoi sogni più reconditi.
E non avrei neanche un compito troppo arduo nello stroncare uno dei più terribili mattonazzi dell'anno - e non solo -, perchè basterebbe citare le terribili imitazioni ibride di Mordiroccia ed Enth, le ridicole dinamiche da disfunzionale focolare domestico di casa Noè, il gigioneggiamento fastidioso di Anthony Hopkins, la colomba con il ramo d'ulivo al termine della lotta, il finale consolatorio per affossare completamente una delle operazioni più bieche e spietatamente commerciali della stagione, che fortunatamente - almeno per ora - pare non aver conseguito i risultati che, probabilmente, la produzione si auspicava - specie considerata l'uscita strategica, almeno in Italia, precedente alle vacanze pasquali -.
Dalle parti di casa Ford la religione non va certo per la maggiore, e le storie legate alla Bibbia restano un affascinante esperimento letterario, culturale ed artistico - come per l'epica, del resto, da sempre una delle passioni del sottoscritto -, ma i pregiudizi che al Saloon continueranno per sempre ad esistere in quest'ambito non contribuiscono più di tanto al risultato pessimo di questo terribile ed indigesto polpettone, privo di carattere così come della voglia di raccontare davvero una storia, buono appena per tenere buoni i timorati di Colui che non può essere nominato - e non sto parlando di Voldemort, cara Hermione - e gli spettatori molto, molto occasionali.
Ma non basta questo, per me, caro Darren.
Il tuo diluvio è uno sputo.
Ed il mio, almeno su questo virtuale foglio bianco, un fiume in piena pronto a berselo.



MrFord



"Ci son due coccodrilli
ed un orango tango,
due piccoli serpenti
e un'aquila reale,
il gatto, il topo, l'elefante:
non manca più nessuno;
solo non si vedono i due leocorni."
"L'arca di Noè" - Filastrocca - 



 

domenica 27 aprile 2014

Modern family - Stagione 4

Produzione: ABC
Origine: USA
Anno: 2013
Episodi: 24





La trama (con parole mie): dalla gravidanza di Gloria alla nascita del piccolo Joseph, passando attraverso la ristrutturazione di una casa per mano di Claire e Cam e le peripezie domestiche dei Dunphy, senza dimenticare la crescita di Lily, figlia adottiva dello stesso Cam e di Mitchell, assistiamo ad un altro anno di (dis)avventure delle tre famiglie più divertenti del piccolo schermo.
La crescita delle nuove generazioni - da Haley al college fino all'arrivo del piccolo Joe - si contrappongono alla routine collaudata - ma non priva di scossoni - delle coppie ormai consolidate e dirette ad un periodo della vita in bilico tra la maturità e quel momento in cui guardarsi indietro è più facile che progettare la strada davanti.








Nel corso degli anni, consolidando la tradizione di casa Ford delle serie tv sfruttate per accompagnare i pasti - oltre a quelle seguite "fuori orario" -, mi è capitato di scoprire vere e proprie perle, Capolavori assoluti - Breaking bad su tutti -, patire delusioni grandi e piccole e venire colto alla sprovvista da sorprese decisamente piacevoli: Modern family, giunta qualche anno fa da queste parti spinta dalla valanga di premi raccolti, fa senz'altro parte di quest'ultima categoria.
Per quanto, infatti, questo vecchio cowboy non ami il format della sit-com, la creatura di Christopher Lloyd è riuscita fin dalle prime puntate a guadagnarsi stima e rispetto, a divertire e commuovere ad un tempo e ad invecchiare bene con il passare delle stagioni anche grazie ad un lavoro sempre attento svolto sia in fase di scrittura che di interpretazioni sui personaggi, memorabili dal primo all'ultimo ed azzeccati sotto quasi ogni punto di vista - con una menzione d'onore ai miei favoriti Jay e Phil, quest'ultimo sempre più mitico -.
Questa quarta stagione, ancora una volta sul livello - decisamente più che discreto - delle precedenti e sempre spassosa da seguire, ha segnato, di fatto, l'inizio di un ipotetico passaggio di testimone alle nuove generazioni dei Pritchett e dei Dunphy: senza contare l'appena nato erede di Jay e Gloria, infatti, il lavoro più interessante è stato svolto dagli autori sui figli di Claire e Phil - dall'esperienza al college di Haley alle prime uscite da adolescente non secchiona di Alex, senza contare lo scombinato Luke, alle prese con i primi momenti di emancipazione dall'influenza paterna -, su Manny - senza dubbio il più adulto tra i protagonisti della serie - e soprattutto Lily, che finalmente cresciuta è riuscita a definire sotto tutti i punti di vista il suo ruolo sia rispetto ai padri adottivi che al titolo in generale, diventando il vero asso nella manica di questa season four e, chissà, del futuro.
Il resto è stato, almeno per questa stagione, il consueto puntuale lavoro degli autori, abili nel mantenere alto il divertimento strizzando comunque l'occhio a tematiche importanti e profonde come quelle della famiglia e degli affetti, della crescita e dell'amore, riuscendo a tratti ad arrivare perfino a smuovere la lacrimuccia negli spettatori più sensibili: strepitosi alcuni momenti come quelli dedicati al rocambolesco ritorno a casa di Mitchell e Cam con i due pupazzi legati alla macchina o l'episodio legato all'amatissimo ex proprio di Mitchell, e perfettamente a loro agio, ognuno con il suo carattere ed il suo ruolo all'interno della famiglia, tutti i protagonisti.
Nonostante non si potrà mai definire un titolo rivoluzionario o una vera e propria pietra miliare del piccolo schermo, Modern family è riuscita a mantenere la sua qualità senza cedimenti come pochissime serie riescono a fare, confermandosi come uno dei guilty pleasures più importanti del Saloon, che sarà pure un luogo per Expendables e bevitori incalliti, ma in cui piccoli gioiellini come questo troveranno sempre un posto speciale al banco, pronti ad essere serviti come fossero parte della Famiglia.
Se il Fordino fosse già un pò più grande, non mi dispiacerebbe condividere con lui - come faccio ora con Julez - una proposta come questa: in un certo senso, con le risate ed i momenti di smarrimento, rende bene l'idea del calderone che, di norma, finisce per essere il focolare domestico.
E c'è sempre da sperare che, con tutti gli alti ed i bassi che la vita può riservare, questo possa in ogni momento essere un posto in cui è un piacere fare ritorno: un pò come lo è bussare alla porta, stagione dopo stagione, di Modern family.




MrFord




"When you feel your heart is breaking
when all your friends are faking
when its giving and no taking
I will be by your side."
The Black Crowes - "By your side" -




sabato 26 aprile 2014

American Horror Story - Coven

Produzione: FX
Origine: USA
Anno: 2013/2014
Episodi: 13




La trama (con parole mie): Zoe, un'adolescente che scopre di avere poteri magici, viene condotta ad una speciale accademia di New Orleans che da secoli protegge e prepara le streghe al mondo e ad affrontare i loro poteri. Accanto ad una manciata di altre ragazze come lei, Zoe si troverà a dover affrontare cacciatori votati alla loro eliminazione, la minaccia della regina del voodoo locale, il ritorno alla vita di una spietata nobildonna di origini francesi che nel corso dell'ottocento commise nella sua casa atroci delitti e gli intrighi della Suprema - la strega che, di fatto, ha il comando della categoria ed i poteri più sviluppati in assoluto - Fiona, che non vorrebbe fosse giunto il momento della sua successione e della conseguente morte, e trama per eliminare tutte le possibili candidate al suo ruolo. Lei compresa.








Evidentemente American horror story funziona a stagioni alterne, qui al Saloon.
Dopo una prima annata, infatti, fin troppo incensata e decisamente sopravvalutata - che da queste parti venne bottigliata, e non poco - ed una seconda assolutamente di alto livello, al terzo giro di giostra la creatura di Falchuck e Murphy subisce la sua più clamorosa caduta in termini di qualità ed interesse suscitato, finendo addirittura per scalzare sul gradino più alto del podio al rovescio del sottoscritto, tra episodi inutili ed un cattivo gusto da fare invidia alle ultime stagioni di True blood, perfino la tanto detestata season d'esordio.
L'idea di ambientare i tredici episodi a New Orleans - una delle città più misteriose ed oscure degli States - e di incentrarli sulle streghe ed il conflitto non solo razziale, ma anche di genere da sempre in gioco tra uomini e donne risultava, sulla carta, assolutamente interessante ed azzeccata, degna di un riscatto delle congreghe dopo i fallimenti clamorosi del passato recente, dalle fin troppo numerose incarnazioni di Hansel e Gretel all'obbrobrio di Rob Zombie: purtroppo, però, il risultato è stato decisamente inferiore alle aspettative - così come alle pretese -, finendo per portare sullo schermo una sorta di dark comedy - involontaria - teen fuori tempo massimo che è riuscita a riportare alla mente del sottoscritto più l'insipido Dark shadows che non una nuova proposta horror degna di questo nome.
Senza dubbio parte delle responsabilità ricade sul cast, più adatto ad una soap per liceali che non ad un pubblico adulto, ed in grado di affossare perfino la sempre bravissima Jessica Lange - che pare cominciare a gigioneggiare un pò troppo -, Denis O'Hare - ridicolo il suo personaggio -, Angela Bassett - partita come una sorta di iradiddio e finita in men che non si dica - e Kathy Bates - clamorosamente sprecata, rispetto alle potenzialità che avrebbe potuto esprimere -, e sugli script, che seppur supportati da una regia sempre elegante non risultano decisamente all'altezza di un titolo con velleità di sconvolgimento del mondo del piccolo schermo.
Senza contare, dunque, l'assenza pressochè totale di inquietudine o di un senso di thrilling legato al genere, ed i charachters partiti in quarta e dunque clamorosamente appiattiti - Axeman, gli schiavi torturati, i vicini della congrega -, i limiti peggiori di questa stagione vengono evidenziati da episodi che definire riempitivi sarebbe quasi un complimento ed una direzione mai certa data dagli autori, che fin dall'opening sono apparsi incerti sulla piega da far prendere all'annata: un'indecisione pagata molto cara, considerata l'attenzione calata vertiginosamente in casa Ford con il susseguirsi degli episodi, nella speranza che tutto potesse concludersi in fretta ed il meno dolorosamente possibile.
Resta a confortarmi la speranza che, come fu al termine della prima stagione, l'idea di abbandonare definitivamente AHS possa portare bene per l'anno successivo, andando a rinverdire, di fatto, i fasti di Asylum cancellando quella che è parsa come una versione allucinata di un episodio troppo lungo di Desperate Housewives, lontano anni luce da quello che, almeno sulla carta, la creatura di Falchuck e Murphy vorrebbe tanto rappresentare.




MrFord




"If witchcraft all the fools condemn,
it turns around and crushes them.
When good has been twisted,
when good has been killed,
then love is resisted and blood will be spilled."
Black Sabbath - "Coven" - 




venerdì 25 aprile 2014

La maledizione di Chucky

Regia: Don Mancini
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 97'




La trama (con parole mie): la giovane paraplegica Nica vive con la madre Sarah in una grande casa isolata, fin troppo protetta dalla genitrice. Quando viene loro consegnato un pacco contenente la bambola "Tipo bello" che per anni è stata l'involucro dell'anima del serial killer Charles Lee Ray, ribattezzatosi Chucky, comincia per la ragazza un vero e proprio incubo. La madre, infatti, muore in un tragico ed apparentemente casuale incidente, e quando la sorella con al seguito tata, marito e figlia arriva per convincerla a mettere in vendita la casa e trasferirsi in un ricovero, per l'intera famiglia comincerà il gioco al massacro orchestrato proprio da Chucky, più spietato e cattivo che mai, nonchè legato a ricordi dei suoi tempi da umano proprio agli occupanti di quella casa.








E così, anche per Chucky e la sua saga è giunto il momento del capitolo che - almeno per ora - pone la parola fine alla retrospettiva regalata al pupazzo più malvagio del Cinema horror - e non solo - qui al Saloon: in tutta onestà, benchè a livello visivo si possano notare grandi miglioramenti rispetto alla qualità da b-movies dei precedenti, ho trovato l'ultima fatica di Don Mancini troppo seriosa ed orrorifica nel vero senso "di genere" del termine per potermi davvero sentire conquistato dalla stessa.
Per la prima volta dai tempi del suo esordio, infatti, il bambolotto psicopatico non è riuscito, nel corso della visione, a strappare al sottoscritto neppure una sonora, cattivissima risata grazie al suo rinomato turpiloquio o ai rapporti quantomeno burrascosi con le sue vittime umane: a contribuire a questo risultato un'ambientazione in pieno stile slasher fin troppo cupa, all'interno della quale regala le soddisfazioni migliori soltanto il trucco che cela dietro le fattezze di un "Tipo bello" completamente restaurato il vero ed ormai profondamente deturpato volto del nostro killer di plastica preferito.
Non che il risultato sia poco apprezzabile, o che il personaggio abbia perso il suo carisma, ma l'impressione che ho avuto nel corso della visione è stata quella di vedere le potenzialità del piccoletto sfruttate con il freno a mano tirato neanche ci fosse stato chissà quale salto a livello di produzione e distribuzione: edulcorare un personaggio di questo calibro, fosse anche solo verbalmente, significa in qualche modo tagliare le gambe alla sua dirompenza, senza contare che il resto delle sue caratteristiche distintive - su tutte la fantasiosa varietà nell'arte dell'uccisione - non sono state affatto limitate dal ritorno all'horror più canonico di questo sesto capitolo.
Interessanti l'utilizzo nel ruolo di Nica della figlia di Brad Dourif, voce ed anima di Chucky, così come l'apparizione conclusiva di Jennifer Tilly, che nel quarto e quinto film prestò voce e corpo alla compagna del protagonista Tiffany, che, occorre ammetterlo, fa sentire la sua mancanza - soprattutto quando si tratta dei battibecchi con Chucky, che pare soffrire molto il ritorno alla "solitudine", e di creatività nelle uccisioni -: in questo senso il finale risulta la parte più interessante di questo La maledizione di Chucky, di fatto uno dei capitoli meno trash della saga ma, allo stesso tempo, forse quello di maggior transizione.
Un peccato per i fan hardcore del brand, ormai abituati al grottesco più comico che spaventoso in grado di rendere mitici personaggio e serie, che dovranno attendere l'eventuale settimo capitolo e, chissà, anche un ritorno del fu Andy, prima nemesi ufficiale dell'adorata bambola assassina: nel frattempo, passare il tempo con massacri come quello della ragazza alla pari o la rivelazione della "maschera" di Chucky potrebbe essere un buon diversivo.
Ma niente di più.



MrFord



"When there’s no more room in hell
then the dead will walk the Earth
and the living won’t have a prayer
cause it’s the dawn of the dead."
Murderdolls - "Dawn of the dead" -



giovedì 24 aprile 2014

Thursday's child


La trama (con parole mie): continuano le settimane tutto sommato anonime di uscite in sala, parallele al mutamento che, a brevissimo, dovrebbe ulteriormente cambiare look alla rubrica tenuta dal sottoscritto e dal suo antagonista numero uno Cannibal Kid a proposito dei nuovi titoli proposti in tutto il Bel Paese - o quasi -. Nel corso del weekend imminente la parte dei leoni toccherà al nuovo blockbuster made in Marvel e alla seconda parte dell'affresco tutt'altro che stimolante firmato da Lars Von Trier. A voi la scelta. Un pò come tra WhiteRussian e Pensier Cannibali.

"Cannibal, mi dispiace: Ford ti ha prenotato una visita della prostata."

The Amazing Spider-Man 2 – Il potere di Electro


Ford dice: tra i tanti eroi Marvel, Spider Man è sempre stato il mio preferito, almeno ai tempi della mia giovinezza. Dopo un convincente primo capitolo, ora Marc Webb è chiamato a non annoiare e proporre un film ritmato e divertente, in linea con il personaggio. Ci riuscirà? Io spero di sì, non fosse altro per disturbare Peppa Kid, da sempre schierato contro i film di supereroi.
Cannibal dice: Spider-Man, ammazza il poco amazing Ford, please! E, già che ci sei, diventa protagonista di una nuova pellicola al livello dei primi due episodi della saga diretta da Sam Raimi. Il primo capitolo del tuo reboot firmato Marc Webb era stato carino, meglio ad esempio di quelle schifezze di pellicole Marvel tanto celebrate da Ford, però so che puoi fare di meglio. Far spogliare Emma Stone, per esempio.

Cannibal Kid in un qualsiasi sabato sera.

Nymphomaniac – Volume 2


Ford dice: in realtà mi sono già espresso, in proposito. La seconda parte dell'ultima opera di Von Trier, mio nemico giurato inspiegabilmente poco incisivo e dunque poco bottigliato in questo caso, è senza dubbio meno riuscita, più noiosa e meno provocatoria della prima, ma per chi ha resistito con il Volume 1, o per gli scellerati che l'hanno addirittura amato, sarebbe assurdo rinunciare a questo secondo capitolo. Ovviamente, a vostro rischio.
Cannibal Kid dice: Dopo la prima stupenda, ironica, divertente parte, il Dio del cinema Lars von Trier ci regala il secondo volume dell’avventura di Joe la ninfomane. Si astengano i puritani bacchettoni moralisti come MrFord.

"Ecco fatto. Così Ford non potrà più guidare."

In nomine Satan


Ford dice: solo in Italia si riesce a proporre certa roba. Fossimo negli States, probabilmente, un titolo come questo - ispirato alle vicende delle Bestie di Satana - porterebbe la firma di un Fincher, quantomeno. Qui, invece, preferiamo puntare sulle produzioni artigianali. Molto artigianali, anzi. Fa già paura senza pensare al soggetto.
Cannibal dice: Per chi come il mio blogger rivale non riesce a comprendere la grandezza del cinema d’Autore di Lars von Trier, ecco qualcosa più alla sua portata. Un filmetto italiano finto trasgressivo perfetto per le bestie. Di Satana? No, per le bestie come Ford uahahah!

"Ma dove ci crediamo di essere!? A Twin Peaks!?"

Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve


Ford dice: proposta potenzialmente radical chic che mi salto - almeno per il momento - volentieri. Se il Cucciolo dovesse bocciarlo, allora potrebbe miracolosamente riapparire sugli schermi del Saloon.
Cannibal dice: Ma questo che è? L’atteso film biografico sul centenario MrFord? Mi sa proprio di sì.
Oltre che di vecchio, questa pellicola tratta da un best-seller che in Svezia ha avuto un successo clamoroso, mi puzza un po’ di robetta buonista. Però non escludo che potrebbe rivelarsi una piacevole sorpresa, visto che negli ultimi tempi il cinema del Nord Europa mi sta regalando della belle soddisfazioni.

"Eppure Ford mi aveva garantito che in questo modo usciva una grigliata di Cucciolo Eroico perfetta!"

La sedia della felicità


Ford dice: Mazzacurati non è certo il peggio che il Cinema italiano possa propinarci, ma di sicuro, in una settimana a dir poco smorta, non spinge il sottoscritto a correre in sala in modo da essere il primo a recensire la sua nuova fatica. Rimando. E al massimo mi diletto a togliere la sedia da sotto il culetto moscio del mio rivale.
Cannibal dice: Si preannuncia come la solita commedia italiana finta-indie. Nel variegato cast, oltre agli habitué di questo genere Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese e Giuseppe Battiston, troviamo pure Katia Ricciarelli e Raul Cremona, giusto per provare a riabilitare dei personaggi trash. Non so, tra un po’ vogliamo riabilitare persino MrFord?
Mi spiace per il povero Carlo Mazzacurati, regista recentemente scomparso, ma non andrò in sala a sedermi su questa sedia della felicità.

"Piuttosto che leggere le recensioni di Ford e Cannibal mi griglio la mano da sola!"

mercoledì 23 aprile 2014

Saving Mr. Banks

Regia: John Lee Hancock
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 125'




La trama (con parole mie): P. L. Travers, zitella acida di mezza età ed autrice del best seller per ragazzi Mary Poppins, incontra più per necessità che per desiderio Walt Disney, che dopo vent'anni di corteggiamento pare finalmente essere ad un passo dalla realizzazione di un film dedicato proprio all'eroina creata dalla donna.
Il passato della stessa, legato al primo novecento in Australia e alla figura del padre, si mescola al presente ed alla realizzazione di alcune delle sequenze che, nel millenovecentosessantaquattro, resero celebre la versione cinematografica di Mary Poppins, frutto di una vera e propria battaglia tra il padre di Topolino e soci ed una scrittrice alla ricerca di se stessa.










Di recente - forse a causa dell'amore per la settima arte, che continua a portarmi, se possibile ogni giorno, davanti ad un nuovo film - mi capita spesso di apprezzare operazioni che rievochino, in qualche modo, il passato di questo mezzo meraviglioso e della sua magia: non troppi mesi or sono era capitato con Hitchcock, dedicato alla genesi di uno dei grandi Capolavori del Maestro inglese, ed una volta ancora avviene grazie a John Lee Hancock, che mi sorprese - in positivo - qualche anno fa con The blind side e che torna a portare a casa la pagnotta con un lavoro onesto e più che discreto dedicato a Mary Poppins ed alla sua costruzione, legata a doppio filo ad una vera e propria contrattazione sentimentale ed intellettuale tra Walt Disney e P. L. Travers, autrice del romanzo che per un ventennio circa negò i diritti cinematografici della sua più fortunata creatura onde evitare una snaturazione della stessa.
Dunque, dopo essere stato sorpreso dalla prima visione dedicata alla pellicola di Robert Stevenson che rappresentò uno dei più grandi successi di Walt Disney, nonostante la presenza di Tom Hanks e di un'atmosfera assolutamente patinata ho finito per ritrovarmi piacevolmente coinvolto anche da quest'opera di amarcord pronta a narrare, prima ancora del confronto tra il signor D. e la Travers il passato di quest'ultima e quanto lo stesso abbia significato rispetto alla creazione dei personaggi che sono stati il cuore e l'anima di Mary Poppins, a partire dalla bambinaia stessa.
Alternando passato e presente di narrazione, Hancock trascina il pubblico con il fare sapiente di chi è in grado di gestire l'emotività del blockbuster ed il mestiere del vero e proprio professionista, ricostruendo grazie a pochissimi accorgimenti la magia di un'epoca - i favolosi anni sessanta prima che giungessero il Vietnam e le prime ombre del dubbio a sfatare i miti - che ancora oggi riesce a regalare in chi la ritrova in un film il brivido dell'occasione pronta prima o poi ad arrivare, dei grandi sogni e del qualcosa che si avvererà, se si è disposti a credere nello stesso.
Coinvolgente e ben scritto, Saving Mr. Banks permette di assaporare, però, non soltanto un periodo unico della Storia della settima arte, ma anche l'entusiasmo, la fatica ed i dubbi che nascono e si sviluppano dietro il lavoro che noi, da pubblico, osserviamo meravigliati in un paio d'ore seduti comodamente su una poltrona in sala, ma che, di fatto, hanno significato mesi - e a volte anni - di confronti, sacrifici, risate e lacrime di talmente tante persone da non riuscire quasi a contarle, titoli di coda oppure no.
Qualcosina finisce per perdersi nel racconto dedicato al passato della Travers - che pare una versione in minore di Neverland -, ma il risultato finale convince e raccoglie bene il testimone dello stesso Mary Poppins, sfruttando i sentimenti e la propensione al lieto fine come stimoli per rendere il cocktail servito non zuccheroso o retorico, quanto, paradossalmente, molto reale nel suo essere debitore alle speranze e ai sogni.
Con tutti i loro difetti - veri o presunti che siano - il marchio e la filosofia Disney hanno contribuito a rendere il Cinema quello che è oggi e che noi tutti che ne scriviamo ed usufruiamo finiamo per amare, e perdendosi in questa visione come in una visita ad un parco giochi in grado di farci tornare bambini l'impressione che si riceve è quella che Hancock abbia reso onore al suo mestiere alla grande, e seppur non portando sullo schermo un titolo memorabile o destinato a restare nella Storia come quello che l'ha ispirato abbia saputo interpretare la stessa magia che ha reso possibile la creazione di molte delle pellicole ora considerate cult, o qualcosa in più.
Per quanto mi riguarda, questo significa amare davvero il Cinema.
E da Saving Mr. Banks traspare principalmente questo.




MrFord



"E' supercalifragilistichespiralidoso 
anche se ti sembra che abbia un suono spaventoso 
se lo dici forte avrai un successo strepitoso 
supercalifragilistichespiralidoso."
Robert Sherman - "Supercalifragilistichespiralidoso" -
 
 
 
 
  

martedì 22 aprile 2014

Mary Poppins

Regia: Robert Stevenson
Origine: USA
Anno: 1964
Durata: 139'





La trama (con parole mie): la famiglia Banks, all'ennesimo abbandono da parte di una tata, si affida - per Destino o volontà dei due figli, Michael e Jane - a Mary Poppins, insolita educatrice giunta letteralmente dal cielo e pronta a far riscoprire all'intero focolare domestico la capacità di sognare quanto la praticità delle questioni organizzative di tutti i giorni.
L'impatto che Mary ed il suo amico Bert avranno sulle esistenze di tutti i membri della famiglia - e non solo - sarà indescrivibile, e porterà una novità, una rinnovata voglia di vivere ed un cambiamento nel vento che allo stesso tempo avrà il potere di rendere più uniti tutti gli "assistiti" di Mary Poppins e di condurre la stessa ovunque ci sia di nuovo bisogno di lei.








Pare quasi incredibile, eppure all'alba della primavera duemilaquattordici non avevo ancora mai visto Mary Poppins.
Nonostante la sua fama, infatti, quello che è considerato come uno dei vertici dell'opera di Walt Disney in persona, un successo commerciale tra i più grandi della Storia del Cinema nonchè uno dei cult movies per eccellenza di intere generazioni di bambini non è mai entrato nell'allora casa Ford, complici il fatto che preferissi di gran lunga i film d'animazione e che il passaggio dagli stessi ai vari Bud Spencer, Stallone, Van Damme e John Wayne fu veloce quanto naturale.
Anzi, in tutta onestà, ai tempi, ricordo di aver più di una volta pensato che questo film costituisse, di fatto, roba per ragazzine, l'equivalente delle principesse Disney di oggi, un titolo buono giusto per prendere per il culo il Peppa Kid di turno.
In realtà, Mary Poppins fu - ed è - sotto molti aspetti un film rivoluzionario per l'approccio e le intenzioni: il vecchio Walt - che non doveva essere proprio l'ultimo degli stronzi, in termini di furbizia - riuscì, portando avanti l'orologio biologico dei tempi, a fondere il gusto di musical come West side story, l'atmosfera europea, la zuccherosità ed il vizio del sogno ad occhi aperti americano e la fascinazione visiva che, di fatto, anticipò i tempi di prodotti come Chi ha incastrato Roger Rabbit? e Hook - Capitan Uncino, consegnando all'audience una pellicola destinata a fare la Storia non solo del genere, in barba alla maggior parte dei suoi detrattori o dei numerosi critici all'approccio tipicamente disneyano legato al lieto fine, alla consolazione e al distacco dalla realtà.
Non posso negare, certo, che Mary Poppins ora risulti almeno in parte datato - anche se sequenze come quella dedicata agli spazzacamini, a livello visivo, appaiono clamorosamente visionarie anche ai giorni nostri, nel pieno del Nuovo Millennio - e che difficilmente i piccoletti figli della nostra epoca potrebbero affrontare le oltre due ore di un film così lontano dal gusto estetico e narrativo cui sono abituati, eppure c'è qualcosa, in questo lavoro, una scintilla che non solo è in grado di renderlo speciale, ma che potrebbe essere considerata come una sorta di manifesto dell'intero operato Disney, da Walt in avanti.
Per quale motivo, infatti, ci si diletta a sognare, quando il mondo che abbiamo attorno pare indicarci direzioni spesso e volentieri diametralmente opposte - esemplare, in questo senso, la sequenza che vede i due piccoli Banks fronteggiare il direttore della banca -?
Perchè perdere tempo con i sentimenti ed i lieti fini, quando ognuno di noi ben sa dove davvero tira il vento? 
Io stesso, in molteplici occasioni, mi sono trovato a bottigliare selvaggiamente prodotti colpevoli, principalmente, di aver prestato il fianco ad una retorica apparentemente buonista e zuccherosa, eppure allo stesso tempo, e guardando cose come Mary Poppins, mi pare di tornare ai tempi in cui, con grande partecipazione, gridavo il "Bangarang" che permetteva al fu Peter Pan di ricordare da dove era venuto e quel "Capitano mio capitano" che risvegliò le coscienze dei ragazzi de L'attimo fuggente: la sensibilità e la retorica, in fondo, fanno parte delle vite perfino dei più duri di noi, e spesso finiscono per essere addirittura più importanti per chi si prodiga con tanto fervore a nasconderle, e prodotti come questo - oltre ad essere decisamente più educativi di Peppa Pig ed altre stronzate da decerebrati che si propinano ai giorni nostri ai bambini - hanno il grande merito di porre basi che permetteranno, chissà, ai Michael e alle Jane di oggi di appassionarsi al Cinema, ed un domani, chissà, perfino di criticare e giudicare troppo mielosi film simili a questo.
E ci sono tante altre cose, di cui si potrebbe parlare, dalle canzoni - riuscitissime - ad un ritmo serrato che non appesantisce per nulla la durata - almeno per uno spettatore adulto -, dai cinque Oscar che la pellicola portò a casa alle interpretazioni memorabili di Julie Andrews e Dick Van Dyke, ma non credo che abbia tutta questa importanza: Mary Poppins, pur con colpevole ritardo, è arrivata a portare aria nuova anche in casa Ford, e tra qualche anno, piuttosto che contare su Teletubbies, Gormiti o schifezze del genere, sfrutterò appieno tutti i presunti difetti targati Disney di film come questo per trasmettere al Fordino tutto l'amore che continuo a provare per il Cinema.




MrFord




"Sono sui tetti, io vivo quassu
vicino alla stella che brilla di più
la notte colora i miei sogni di blu
e se mi vuoi bene li vedi anche tu".
Gigliola Cinquetti - "Cam camini" -





lunedì 21 aprile 2014

Le letture con cui sono cresciuto


La trama (con parole mie): a concludere questa trilogia di liste gentilmente offerta nell'ispirazione dal mio miglior nemico, Cannibal Kid, dopo film e dischi, giungono le letture, parte fondamentale della formazione del sottoscritto soprattutto negli anni dell'adolescenza. Tutto quello che mi ha segnato, mi segna o non mi tocca neppure più di striscio l'ho vissuto tra quelle pagine pronte a liberare sogni, fantasia e sentimenti.



CENT'ANNI DI SOLITUDINE di GABRIEL GARCIA MARQUEZ


Letto in prima liceo, e da allora rimasto come uno dei miei cult letterari assoluti, il Capolavoro di Marquez tracciò una linea definitiva tra il Ford bambino e quello adolescente, lasciando che la mente vagasse sognando di diventare come il figlio dei Buendìa partito magro e tornato grande, grosso e tatuato.
Sarà per quello che gli anni mi hanno trasformato in un modo molto simile.

L'UOMO RAGNO di STAN LEE e STEVE DITKO


I fumetti sono stati una parte importantissima della mia vita di lettore, e per anni hanno alimentato non soltanto i sogni di un bambino, ma anche e soprattutto la speranza di arrivare, un giorno, a scriverli per lavoro. Per il momento, questo è accaduto solo in parte, e senza alcun ritorno economico, ma l'amore per i personaggi Marvel è rimasto, così come quello per il mio favorito assoluto: il buon, vecchio Spidey.


LA FIGLIA DEL CAPITANO di ALEXANDR PUSKIN


La Letteratura russa è stata uno dei must assoluti della mia formazione, e malgrado di norma riservasse drammi terribili e devastanti, con La figlia del capitano è riuscita a rendere un Capolavoro anche uno dei romanzi più leggeri giunti da Est: l'ho talmente adorato da leggerlo tre volte, una cosa che non era mai capitata prima, e non sarebbe capitata poi.

NARCISO E BOCCADORO di HERMAN HESSE


Se esiste uno scrittore in grado di rappresentare la mia adolescenza, è senza dubbio Herman Hesse: in un'ipotetica lista dei titoli più importanti dei miei anni di formazione, almeno la metà portano la sua firma, da Demian a Siddhartha, da Il lupo della steppa a, per l'appunto, Narciso e Boccadoro. La storia di quest'amicizia e di due caratteri così diversi mi colpì talmente tanto che ancora oggi, rievocando le ultime parole del libro, finisco per avere i brividi.

I ROMANTICI INGLESI E I MALEDETTI FRANCESI


Nel pieno delle turbe adolescenziali e dei tumulti ad esse legati, il mondo dell'allora molto Kid Ford fu travolto dalla lezione dei romantici, dalla Ballata del vecchio marinaio ai magnifici tre - Byron, Keats e Shelley -, senza contare quei sudicioni di Baudelaire, Rimbaud e soci. Erano i tempi in cui sognavo di morire alla grande prima dei trent'anni. Cazzo, che coglione ero.

I LAVORATORI DEL MARE di VICTOR HUGO


Uno dei miei romanzi preferiti di tutti i tempi, un Capolavoro di epica, Natura e crescendo sentimentale che fece da accompagnatore nel mio viaggio in solitaria a Parigi alla fine del liceo: ricordo ancora le lacrime che versai sul finale, e la magia del paesaggio delle isole della Manica, che ancora oggi sogno di visitare soltanto per ricordare quanto impazzii per la vicenda di Gilliat.

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER di GOETHE


Da buon "poeta estinto", uno dei romanzi di formazione che più mi toccarono fu I dolori del giovane Werther, probabilmente il titolo che ispirò Hesse nel corso della sua intera produzione: lo finii di leggere nei giorni appena successivi alla morte di mio nonno, portandomi il peso di tutta l'adolescenza sulle spalle. Lacrime amare anche qui.

SLAM DUNK di TAKEHIKO INOUE


I manga, pochi anni dopo i fumetti a stelle e strisce, divennero una delle mie realtà favorite di lettore: tra le decine di titoli divorati a cavallo degli anni del liceo, ho scelto Slam Dunk, il fumetto ad argomento sportivo migliore di sempre, capace di farmi provare in misura talmente alta l'adrenalina del basket da farmi ricredere a proposito di uno sport che non mi entusiasmava per nulla e che, grazie a Sakuragi e soci - su tutti il mio favorito Mitsui -, ho finito per praticare per un paio d'anni buoni.

SANGUE E ARENA di BLASCO IBANEZ


La vita del Cordobes, uno dei matador più famosi della Storia, rivisitata grazie alla figura mitica di Juan Gallardo, ribollente e calda come il sole andaluso. Una delle letture più importanti del passaggio tra adolescenza ed età adulta, in grado di ispirare film e canzoni, ed alimentare il sogno del sottoscritto di visitare l'Andalusia, che percorsi in lungo e in largo qualche anno dopo.

JACK FRUSCIANTE E' USCITO DAL GRUPPO di ENRICO BRIZZI


Ad oggi, probabilmente, lo considererei un libretto, ma ai tempi dell'uscita rappresentò il simbolo dei primi innamoramenti, delle feste e delle uscite al sabato sera: in un certo senso, quelle pagine sono state le prime forbici che hanno iniziato a recidere il cordone ombelicale del sottoscritto con l'infanzia.
Pensare che sono passati quasi vent'anni, a volte, mi fa rimanere a bocca aperta: se chiudo gli occhi, mi pare infatti di provare ancora sulla pelle quell'emozione.