Pagine

lunedì 18 dicembre 2017

Detroit (Kathryn Bigelow, USA, 2017, 143')




Che Kathryn Bigelow avesse attributi che pochi uomini si sognano, in termini professionali, era cosa già nota dagli esordi della sua carriera: personalmente, almeno nella Storia recente della settima arte, ricordo soltanto un'altra regista in grado di lavorare con la stessa intensità e consegnare al pubblico pellicole destinate ad essere ricordate anche dalle future generazioni, Jane Campion.
Ma se l'autrice di Lezioni di piano ha da sempre tenuto un approccio romantico e quasi magico rispetto al Cinema, la Bigelow con i suoi lavori ha messo ben volentieri le mani nel fango, esaltando come pochi altri registi uomini il pubblico, per l'appunto, di sesso maschile: quest'ultimo Detroit, scritto in collaborazione con l'ormai braccio destro Mark Boal, è l'ennesimo step di un percorso che definisce la donna cui dovrò per sempre gratitudine quantomeno per Point Break all'interno di territori muscolosi ed oscuri, adrenalinici e controversi.
E senza dubbio, parlando quantomeno di esecuzione, la Bigelow si conferma un vero e proprio cecchino: il suo lavoro è preciso, minuzioso, tagliente, dirompente. Tiene botta dall'inizio alla fine, neanche i centoquarantatre minuti di durata fossero quarantatre, come un episodio qualsiasi da serie televisiva. Una cosa davvero non comune.
Il comparto tecnico è eccellente, la ricostruzione perfetta, la decisione di riportare alla luce un fatto increscioso e ad oggi ancora poco chiaro legato alle rivolte razziali di Detroit datate millenovecentosessantasette molto interessante - anche perchè, a ben guardare, un certo tipo di tensioni ha solo assunto una forma differente, senza per questo scomparire -, il crescendo, in termini di rabbia e documentazione, giostrato in modo da non risultare retorico o eccessivo - personalmente non condivido alcune opinioni lette in giro rispetto ad una sorta di compiacimento della violenza: pellicole come Diaz o Garage Olimpo sono senza dubbio distanti anni luce, in termini di disturbo causato nello spettatore -: eppure Detroit, pubblicizzato e presentato come uno dei film più importanti di quest'inverno e destinato ad un ruolo da protagonista nella corsa ai grandi premi di inizio anno, ha finito per risultare, ai miei occhi, affetto dallo stesso problema che afflisse, anni fa, il pur convincente The Hurt Locker.
Quello che lo spettatore si trova di fronte, a conti fatti, risulta un ibrido che non tocca abbastanza il cuore perchè troppo soffocato dalla tecnica ed il cervello perchè indiscutibilmente patinato rispetto a quello che si aspetterebbe un pubblico in cerca della chicca autoriale pronta a rompere gli schemi: non parliamo, dunque, di un brutto film, o di qualcosa che non faccia incazzare in diversi passaggi legati alle terribili vicende avvenute all'Algiers in quel luglio del sessantasette, quanto di un prodotto privo di una vera anima, della necessità dei suoi autori di raccontarne la storia.
Da spettatore ed appassionato, mi basta tornare ai già citati - e per una volta, produzioni nostrane prese ad esempio - Diaz e Garage Olimpo per avere la pelle d'oca rispetto all'orrore provocato dalla violenza che si scatena, a partire da scintille che accendono gli animi più oscuri, nell'Uomo, e considerare Detroit decisamente più didascalico di quanto vorrebbe apparire, nonostante il risultato sia oggettivamente eccellente e sia eticamente assurdo pensare di criticare una produzione di questo tipo, che mostra senza schierarsi apertamente, e anzi sottolinea quanto in situazioni estreme anche la più piccola delle stronzate possa innescare eventi drammatici e terrificanti.
In fin dei conti, forse è anche colpa mia, che da questo Detroit mi aspettavo la classica sorpresa di fine anno in grado di sconvolgere le classifiche per poi trovarmi di fronte ad un buon film che comunque non avrà alcuna possibilità di avvicinarsi alla top ten: o forse, semplicemente, a volte la denuncia e la perizia non bastano.
Per raccontare una storia, soprattutto triste come questa, ci vuole partecipazione.
Del resto, come cantava Gaber, "Libertà non è uno spazio libero, Libertà è partecipazione".
Detroit è una storia raccontata da cronisti.
Ben descritta. Ma non raccontata.



MrFord



9 commenti:

  1. Ho avuto i tuoi stessi dubbi: film tecnicamente perfetto ma eticamente discutibile... la Bigelow "cerca" la violenza come un toro alla vista del sangue: ci sguazza e ne abusa, ma alla fine più che sconvolgere ci si assuefa. La preferivo in film meno "politici" e più liberi come "Strange Days" e "Point Break". Decisamente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Secondo me non ne abusa così tanto, cose come Diaz sono molto più violente, ma altrettanto sentite.
      Peccato, comunque.
      Anch'io preferisco la libertà di Point break, senza dubbio.

      Elimina
  2. me lo devo vedere in quanto estimatrice della Bigelow non posso proprio perdermelo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Tecnicamente non fa una piega, e lei si sente. Peccato non arrivi altro.

      Elimina
  3. Tecnicamente perfetto e attuale, ma non gli perdono qualche buonismo di troppo, qualche frase strappalacrime e il voler percorrere più strade, arrivando fino in tribunale in cui -va da sé- la tensione e la rabbia, calano. Peccato, pure io mi aspettavo una sorpresa più positiva.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Anch'io. Invece mi è parso una versione "urbana" di Hurt Locker, che soffriva degli stessi problemi.

      Elimina
  4. Purtroppo sono d'accordo anche in questo caso.
    La Bigelow ha descritto una storia, ma non l'ha raccontata. Sarà che non l'ha sentita davvero sulla sua pelle. Non per dire, ma per una vicenda del genere ci sarebbe voluto un giovane regista incazzato nero. O meglio ancora: un nero incazzato. :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E a me tocca essere d'accordo con il tuo commento, pensa che sfiga. ;)

      Elimina
  5. Cinque alto, eccome.
    Film tecnicamente ineccepibile ma con pochissima anima. Peccato.

    RispondiElimina