Se c'è una categoria di film che detesto più dei titoli prepotentemente radical chic, sono quelli che si mascherano da lavori pane e salame e celano sotto la superficie un'aura di supponenza ancora più fastidiosa di quelle emanate da chi se la mena a priori: un pò come quando mi capita di incrociare il cammino di gente che si professa "comunista" e poi finisce per cascare nel vecchio gioco da Fattoria degli animali, in cui tutti sono uguali, ma alcuni più uguali di altri.
Con Gianfranco Rosi era già successo qualche anno fa, ai tempi di Sacro GRA, che trovai lento, pesante, talmente costruito da risultare fastidioso, ed è capitato una volta ancora con questo suo titolo incensato e premiato - questa volta è stato l'Orso d'oro a Berlino, senza contare la candidatura all'Oscar duemiladiciassette per il miglior documentario -, Fuocoammare.
Personalmente, sono sempre stato un grande fan dei documentari: così come i film di fiction, infatti, se ben gestiti essi possono raccontare con uguale coinvolgimento e potenza una storia con il vantaggio costituito dal fatto che si tratti di una cronaca, di qualcosa di vero.
Per vicissitudini lavorative, una decina di anni fa ebbi l'occasione, per tre edizioni, se non ricordo male, di fare parte della giuria di un concorso dedicato proprio ai documentari organizzato dall'ottimo Spazio Oberdan a Milano: in una di queste occasioni, visionai il lavoro di una regista svizzera che, accanto al marito, aveva iniziato a strutturare un lavoro incentrato sulla vita nel cortile del palazzo in cui vivevano, collocato in una delle zone più multietniche di quella che poteva essere Ginevra, anche se non ricordo di preciso la città.
Un lavoro pianificato giorno per giorno, che più o meno a metà della sua lavorazione incontrò un ostacolo imprevisto: il marito della donna, infatti, improvvisamente morì.
Era inverno, quando successe, e lei si limitò a riprendere il loro salotto al buio con la finestra che mostrava una tempesta di neve all'esterno: raramente ho visto un'immagine, neanche quando si parlava di produzioni ben più grandi, così poetica e sentita.
Purtroppo quel documentario arrivò secondo dopo una battaglia tra noi giurati durata almeno un paio d'ore, decisa dalla spinta degli organizzatori - il suo avversario era firmato da un regista italiano ben visto dagli stessi - e dal "tradimento" del Presidente di giuria, che cambiò il suo voto per rompere un equilibrio che pareva potesse durare in eterno.
Ho immaginato Fuocoammare e Gianfranco Rosi ammanicati proprio come il film che vinse quel piccolo festival.
Perchè trovo davvero difficile pensare che in una grande manifestazione come la Berlinale - per quanto possa effettivamente essere possibile che una giuria si prenda una cantonata - un lavoro freddo e calcolato tanto quanto posticcio come questo possa essere accolto come una sorta di miracolo, quando la mia impressione è stata principalmente quella dello sfruttamento di un fenomeno divenuto un tristissimo oggetto di cronaca - i drammi dei migranti che giungono dall'Africa a Lampedusa - per atteggiarsi a narratore "alto" di un regista cui non frega nulla delle storie che racconta.
Se Rosi avesse deciso di partire dal cuore dell'Africa insieme ai migranti ed affrontare il viaggio per giungere in Sicilia accanto a loro, o avesse dato uno spessore ad immagini buone per me giusto per Studio Aperto, sarebbe stato un discorso differente: scegliere, invece, di alternare drammi amplificati dall'occhio dietro la macchina da presa - non che voglia sottovalutare quello che vivono questi disperati, sia chiaro - alla vita di una famiglia locale legata al mare, a quello che da e che toglie, mi è parso comodo ed ipocrita, lontano dal concetto che ho sempre ammirato del documentario, legato all'entrare così tanto in quello che si vuole portare sullo schermo da sporcarsi le mani e non solo.
Una bocciatura, dunque, completa e sonora, che mi invoglia, al contrario, a recuperare prodotti di tutt'altro spessore come Workingman's death o L'incubo di Darwin, e riproporli qui al Saloon come vero contraltare di roba come questa.
MrFord
Niente... a te Rosi va proprio di traverso, un po' come me con Gibson! :)
RispondiEliminaIo posso dirti che, personalmente, il film invece mi ha toccato molto. Ma a me quelli di Rosi sono piaciuti tutti, forse non faccio testo!!
A me invece non ha toccato per nulla, come fu per Sacro GRA.
EliminaProbabilmente io e Rosi non ci azzecchiamo. ;)
Chissà perché ma me l'aspettavo, non che ti piacesse ma che faceva penare...i documentari accattoni proprio non mi piacciono ;)
RispondiEliminaIo l'ho visto così, ma è un punto di vista, per l'appunto.
EliminaPuoi comunque tentare.
Conosco Rosi solo di fama, ma i documentari non mi piacciono. Soprattutto questi così arraffoni.
RispondiEliminaMi fa piacere per la candidatura, molto, ma passo volentieri.
A me non fa piacere neppure quella. ;)
EliminaComunque, ci sono molti documentari strepitosi che ti consiglierei volentieri. :)
La penso come K. Kelvin, anche se per Sacro Gra qualche bottigliata ci poteva stare. Questo invece l'ho apprezzato: non ho percepito un regista cui non frega nulla delle storie che racconta, anzi...
RispondiEliminaProbabilmente gli frega in termini di premi e risonanza. ;)
EliminaAd ogni modo, avevo bastonato abbastanza anche Sacro GRA. ;)
Pure a me, che ai documentari voglio bene, ha convinto pochissimo. Freddo, pesante, lento, troppo autoriale per raccontare in modo così artificioso un dramma come quello dei migranti. Arriva pochissimo, e il montaggio a volte sembra ancor più confuso.
RispondiEliminaMolto -ma molto- meglio Io sto con la sposa, documentario pieno di cuore, che i migranti li accompagna oltre confine, e riesce a raccontare e mostrare davvero la loro storia.
Io sto con la sposa mi manca, ma su Fuocoammare siamo perfettamente d'accordo.
EliminaUn film radical magari, chic però proprio per niente.
RispondiEliminaQuesta volta bottigliate meritate.
Persino la visione di Sanremo si sta rivelando più entusiasmante di 'sto documentarino. :)
Non ti sembra che si stia andando un pò troppo d'accordo ultimamente, noi due!? ;)
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