Regia: Jafar Panahi
Origine: Iran
Anno: 2015
Durata: 82'
La trama (con parole mie): Jafar Panahi, colonna del Cinema iraniano, regista pluripremiato in tutto il mondo, condannato dal regime ed impossibilitato ad esercitare la sua professione, gira il suo terzo lavoro di contrabbando mettendosi in gioco in prima persona, sfruttando un mezzo così ricco di storie come il taxi per raccontare, criticare, affrontare con ironia, rabbia e quasi complicità la società iraniana e tutte le sue contraddizioni.
Specchiandosi nei passeggeri occasionali e non di una giornata di lavoro, tra incidenti stradali, dibattiti sull'utilizzo della pena di morte, ricordi, situazioni al limite del surreale, Panahi cerca di dare voce alla gente della strada che potrebbe non avere mai la possibilità di comunicare al mondo a causa della difficoltà, in Iran, di realizzare un film effettivamente "distribuibile".
Una delle cose per le quali ringrazio maggiormente il mio periodo da radical chic cinefilo è stata la scoperta del Cinema iraniano, tra i più interessanti, profondi e vitali del panorama mondiale: ricordo ancora benissimo la prima volta che mi capitò di affrontare la visione de Il sapore della ciliegia, Capolavoro totale di Abbas Kiarostami, così come quando, proprio a partire dal Maestro, giunsi a scoprire quello che era stato, in più di un senso, un suo allievo, Jafar Panahi.
Gli ottimi Il cerchio e Lo specchio mi colpirono con una forza notevole, e con Oro rosso ebbi l'impressione che dall'Iran avremmo avuto solo doni importanti, come pubblico, rispetto al Cinema: peccato che, a seguito delle sue posizioni opposte a quelle del regime, Panahi stesso abbia passato la maggior parte degli ultimi dodici anni a combattere per la libertà di espressione, artistica e culturale del suo Paese, finendo in carcere e divenendo uno dei bersagli simbolo dell'ordine costituito, finendo per compromettere - nonostante i premi che continua a raccogliere - la sua carriera come regista.
In questo senso, Taxi Teheran è un'opera fondamentale, giustamente riconosciuta come il testamento ironico ma non per questo privo di mordente di un uomo che è stato privato della sua Libertà in un Paese che, nonostante tutto, continua ad amare profondamente, simbolo della determinazione di un Autore che è stato ed è assolutamente importante per il Cinema tutto, e che andrebbe giustamente preso come esempio non soltanto per la sua lotta contro il regime ed il potere, ma anche e soprattutto per la determinazione con la quale insegue la sua vocazione.
Eppure, da amante del lavoro del buon, vecchio, pacioso Jafar, qualcosa in questo suo decisamente incensato lavoro non mi ha convinto fino alla fine: così come accadde, infatti, per Kim Ki Duk nel suo Arirang, mi è parso di notare, in alcuni passaggi di quest'ultimo lavoro di Panahi premiato a Berlino con l'Orso d'oro per il miglior film, un certo compiacimento ed un manierismo mascherato da artigianato low budget totale che ha finito, a tratti, per rendere la visione quasi antipatica, come se lo stesso Panahi avesse fatto il passo più lungo della gamba e tentasse di convincermi rispetto a qualcosa rispetto alla quale, di fatto, sono già assolutamente ed abbondantemente dalla sua parte.
Il tutto senza contare che, rispetto ai già citati film di fiction che fecero la sua fortuna - almeno qui al Saloon - ed al molto interessante Offside, l'utilizzo di una tecnica come quella della ripresa "di fortuna" finisce in più di un'occasione per stuzzicare il dubbio rispetto al fatto che tutto possa essere frutto di un'incredibile e più che convincente operazione di finto realismo a tutti i costi animato, di fondo, dalla finzione cinematografica stessa: non a caso le parti più interessanti appaiono quelle che in qualche modo si prendono gioco della "forma", dal rapporto con il venditore di dvd illegali ed i consigli cinematografici al giovane aspirante regista che chiede un'opinione rispetto a quali titoli acquistare o il rapporto con le due anziane signore preda della loro superstizione e del pellegrinaggio ittico che ne consegue.
Meno riuscita - dal mio punto di vista, si intende - la parte dedicata alla nipote, decisamente troppo costruita per fare davvero breccia nel cuore dello spettatore, e quella dell'incidente, di fatto una sorta di versione hollywoodiana d'impatto trapiantata a Teheran con mezzi di fortuna: con questo non voglio criticare troppo una pellicola che, nella condizione di Panahi, finisce per essere più che fondamentale, quanto più che altro ricordare che le capacità di questo straordinario Autore, a prescindere dalle limitazioni, sono molto, molto maggiori rispetto a quelle che la voglia di convogliare la rabbia potrebbe suggerire.
In un certo senso Panahi, per tornare ad essere il Panahi migliore e mostrare al regime non quello che il regime si aspetta da lui, ma la sua forza, dovrebbe forse smettere almeno per un pò di essere Panahi, ed essere solo un regista che vuole raccontare una storia.
Che, sono sicuro, non faticherebbe a diventare la sua storia.
MrFord
"The days are better, the nights are still so lonely
sometimes I think I'm the only cab on the road
sometimes I think I'm the only cab on the road
watching my breath rise in the sun
pulling myself in two made one
helplessly feel for my phone and drive away."
sometimes I think I'm the only cab on the road
sometimes I think I'm the only cab on the road
watching my breath rise in the sun
pulling myself in two made one
helplessly feel for my phone and drive away."
Train - "Cab" -