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lunedì 31 ottobre 2016

El club (Pablo Larraìn, Cile, 2015, 98')




Ogni volta che mi capita di riflettere a proposito di peccati e peccatori, ripenso al volo a Gli spietati, o a Johnny Cash, o a Edward Bunker: ogni azione commessa al di fuori della Legge, del resto, ha ispirazioni, moventi e spiegazioni molto diversi tra loro, e reazioni istintive a parte, l'ideale prima di giudicare o essere giudicati sarebbe sempre mettersi nei panni di chi sta di fronte, o dall'altra parte della nostra barricata.
Allo stesso modo, da ateo miscredente, ammetto di fare sempre una gran fatica ad affrontare il discorso non solo della Fede, ma anche e soprattutto a concepire l'esistenza delle grandi organizzazioni religiose.
Considerate queste premesse, ed il fatto che il mio rapporto con Pablo Larraìn non iniziò, anni fa, nel migliore dei modi - detestai con tutte le forze il sopravvalutato Tony Manero -, la visione di El club si presentava come una delle più toste dell'anno.
Quattro ex preti scomunicati ed isolati in una sorta di casa protetta nel Cile dell'oceano e della provincia profonda, ognuno per motivi diversi, controllati e guidati da un'ex suora caduta in disgrazia pronta a fare agli stessi da perpetua, madre, confidente, carceriera e guida, un suicidio indotto da vecchi peccati, un giovane esponente della "nuova" Chiesa pronto ad indagare ed eventualmente chiudere la struttura neanche fosse la filiale poco produttiva di un'azienda: ingredienti tosti, che ancora una volta - questo occorre riconoscerlo - pongono Larraìn tra i registi più "scomodi" del panorama internazionale.
Ingredienti che avrebbero potuto scatenare una delle peggior tempeste di bottigliate dell'anno, se trattati con spocchia o superficialità d'autore.
Al contrario, invece, Larraìn non solo porta sullo schermo una pellicola dalla quale è praticamente impossibile uscire indenni, ma anche uno dei film più strazianti, potenti e clamorosamente belli di una stagione che ha bisogno come l'aria di opere di alto livello, considerata la penuria vista fino ad ora: El club è una ferita aperta, un viaggio allucinante non tanto nelle menti di quattro uomini colpevoli, o di chi, per controllarli o metterli di fronte ad una scelta che potrebbe almeno in parte redimerli, si rivela predatorio e spietato forse anche più di loro, quanto nell'abisso che l'Uomo continua a mostrare e portare nel mondo, e che probabilmente non finirà mai di stupire per quanta assurda crudeltà noi animali "sociali" ed "evoluti" riusciamo a continuare a mostrare, ed al contempo con quanta forza e volontà lottiamo affinchè dolore e colpa possano essere lasciati alle spalle per ricominciare, anche quando probabilmente non esiste neppure una remota possibilità perchè questo sia possibile.
De Andrè, in uno dei brani più struggenti di uno dei dischi più importanti della Storia della Musica italiana, cantava "nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l'amore": una lezione fondamentale, che passa attraverso figure fondamentali della cultura globale, da Gesù a Gandhi, e che rappresenta un baluardo per la nostra umanità.
E poi ripenso a questo film, a Sandokan, vittima e carnefice, alla sorella ed al prelato che dovrebbero indirizzare e controllare i quattro "condannati", agli stessi ex religiosi, macchiati da peccati più o meno gravi, alla società attorno, che li isola ed imprigiona in una libertà forse più scomoda di qualsiasi carcere, al sistema carcerario norvegese mostrato da Michael Moore in Where to invade next, e penso a quanto sarebbe difficile vivere e rapportarsi in modo civile con qualcuno che, abusando del proprio ruolo - specialmente se si tratta di un ruolo spirituale come quello del prete -, ha commesso uno o più crimini.
A quanto sarebbe più facile comportarsi da Uomini, e lasciare che la Legge della nostra giungla - ben più feroce di quella animale - faccia il suo corso.
A quanto è facile metterli di fronte ad una scelta e poi dimenticarsi di loro, finendo per segnarsi allo stesso modo.
A quanto è facile strumentalizzarli, e gestirli come fossero bambini.
Io sono un ateo miscredente, ma penso che se il già citato Gesù avesse incontrato persone come queste, si sarebbe fatto un mazzo tanto anche e soprattutto per loro.
Peccato che la Chiesa l'abbia perso di vista, e sempre per citare De Andrè, abbia preso questa Legge divina e l'abbia "tre volte inchiodata nel legno".
Io sono un ateo miscredente, ma penso che, se esistesse qualcuno con tanta forza da poterlo fare, mi verrebbe quasi da credere in lui.
Invece sono un Uomo, e quando arrivo alla fine di opere come questa, mi ritrovo con il fiato corto e la voglia di lasciare libero l'istinto.
Ma se lo facessi, sarei esattamente come loro.




MrFord



 

domenica 30 ottobre 2016

El clan (Pablo Trapero, Argentina/Spagna, 2015, 108')




Purtroppo per il genere umano tutto, la Storia insegna quanto e quanto a fondo l'Uomo possa scavare dentro l'abisso e portarne fuori il peggio possibile: dall'antichità fino ad oggi, sono stati innumerevoli gli episodi in cui tutto quanto possa esistere di sano e giusto pare essere stato dimenticato o rimosso dalle menti di intere nazioni, dalla Germania nazista alla dittatura in Argentina che, tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta, rappresentò uno dei momenti peggiori che il ventesimo secolo possa ricordare.
Nel corso degli ultimi decenni sono stati in molti a ricordare quanto sia accaduto in quel periodo sul grande schermo, da Polanski con il suo La morte e la fanciulla - anche se, in quel caso, si trattò di una riflessione più generale sull'America latina - a Missing, da Garage Olimpo a questo El clan, incentrato sulle reali vicende della famiglia Puccio, responsabile - in misure diverse - di sequestri ed omicidi durante tutto il periodo della dittatura e non solo: guidati dal patriarca Archimedes, uomo della strada prestato ai Servizi segreti, i Puccio erano specializzati in rapimenti destinati a finire nel sangue, considerato che, una volta pagato il riscatto, le famiglie delle vittime si vedevano recapitare il cadavere del proprio caro, invece che riaverlo ancora vivo.
Agghiacciante esempio di concorso di colpa e complicità - oltre che di silenzio assenso: clamoroso il fatto che la moglie di Archimedes e le due figlie sopportassero quanto accadeva nella loro casa pensando che il tutto fosse "per il bene della famiglia" -, il film di Pablo Trapero è espressione di come si possa trasformare una materia da documentario o film d'autore in una produzione che riesca a parlare anche al grande pubblico, forse un pò troppo morbida considerata la materia trattata e patinata - ho compreso davvero ben poco l'utilizzo di una colonna sonora rock ed energica in pieno stile Blow in parallelo ad immagini e sequenze che più che altro inquietano - ma comunque in grado di fornire un'ulteriore testimonianza di quella che è una macchia indelebile nella Storia dell'Uomo e dei diritti umani, nonchè della terribile verità celata dietro molte delle "sparizioni" di quel periodo.
Purtroppo, infatti, spesso e volentieri i bersagli degli emissari del "governo" sono stati figli o genitori o parenti di chi si poteva permettere qualcosa, o aveva la fortuna di possedere una casa o un'attività, per quanto piccola che fosse, prontamente destinate a finire nelle mani di chi si è arricchito sporcandosi le mani con il sangue altrui - e rabbrividisco al pensiero che oggi possa esistere ancora qualche famiglia, in Argentina, che campa sul possesso di appartamenti o capitali accumulati da qualche aguzzino riuscito a sfuggire alla Giustizia -: in questo senso, El clan è interessante anche e soprattutto per l'analisi delle diverse figure all'interno della famiglia Puccio, partendo dal glaciale Archimedes - interpretato benissimo da Guillermo Francella - fino ai figli Alex - combattuto eppure complice del padre, e forse la figura più triste della vicenda, protagonista di un piano sequenza sull'epilogo davvero da brividi - e Maguila, passando attraverso le figure femminili - lasciate ai margini ma non per questo meno importanti, ed a quella di Guillermo, unico tra gli eredi di Archimedes a fuggire dalla realtà domestica sfruttando il rugby, disciplina molto amata in Argentina - il suo confronto con il fratello maggiore Alex prima della partenza è uno dei passaggi più intensi della pellicola -.
Una produzione non perfetta e non potente quanto avrei voluto, ma perfetta a modo suo per rivolgersi a quella fetta di pubblico e di appassionati che ancora non conosce quanto profondo ed oscuro sia stato il buco nero che inghiottì l'Argentina in quegli anni, e che rappresenta - e deve rappresentare - una ferita incancellabile per l'Uomo.




MrFord




 

sabato 29 ottobre 2016

Jessica Jones - Stagione 1 (Netflix, 2015)



A volte il destino di alcuni titoli è curioso: dai tempi della fine delle scuole elementari fino alla soglia dei trent'anni sono stato un lettore accanito di fumetti, soprattutto targati Marvel, ed un appassionato di supereroi al limite del maniacale - potrei essere uno dei pochi non nerd in Italia a possedere l'intera collezione del Marvel Universe, vera e propria enciclopedia fatta uscire dalla Casa delle Idee negli anni novanta in forma di schede che presentavano storia, apparizioni, caratteristiche, poteri ed aspetto di ogni supereroe e supercattivo della grande M -.
Nel momento in cui Netflix - realtà ormai di riferimento per il piccolo schermo - decise di fare uscire Jessica Jones, serie dedicata alla supereroina che non vuole fare la supereroina, e preferisce le atmosfere sordide della New York più malfamata nelle vesti di detective privato, rimasi abbastanza indifferente alla cosa - nonostante, ai tempi, avessi letto parte degli albi dedicati alla Alias Investigations - e lasciai che il titolo entrasse a far parte della scuderia di Julez, che accompagna le sessioni al ferro da stiro con produzioni che al sottoscritto non interessano - Once upon a time, Gotham, Vampire diaries e via discorrendo - mentre al contrario io approfitto dei momenti di stacco per dedicarmi ai vari The Wire o Ballers.
Considerato, però, il successo delle due stagioni di Daredevil, l'appena uscito Luke Cage e l'imminente Iron Fist, così come l'idea di Netflix di costruire una sorta di progetto nello stile del Cinematic Universe sul grande schermo, ho pensato che non mi avrebbe fatto male recuperare anche le imprese della spigolosa Jessica.
Il risultato, però, devo ammetterlo, è stato inferiore alle aspettative, specie considerato che in giro avevo letto davvero un gran bene di una serie che, al momento, mi è parsa piuttosto incompleta, nonostante non malvagia, troppo lenta in alcune parti e troppo veloce in altre, e soprattutto ad anni luce di distanza da un progetto come quello sviluppato sul Diavolo Rosso: peccato, perchè la Jones è un personaggio interessante, la presenza di Cage regala spessore ed un villain come Kilgrave - interpretato da un sempre bravo David Tennant - è una manna dal cielo per qualsiasi "buono".
Eppure nel complesso ho avuto più la sensazione di trovarmi di fronte ad una serie di supereroi in stile "troppo televisivo" - come capita per la già citata Gotham, o Arrow, figlie della concorrenza DC Comics che, comunque, anche sul piccolo schermo perde nettamente il confronto con mamma Marvel - che non ad un tentativo autoriale di presentare il genere sotto una luce diversa, specie se inserito in un contesto sporco e urbano come quello di Jessica Jones.
Senza dubbio gli autori dovranno concentrarsi maggiormente sull'identità da dare alla proposta nel corso della seconda stagione, e avranno - almeno per quanto mi riguarda - l'arduo compito di compensare con la scrittura una scelta di casting che non ho per nulla condiviso come quella di Krysten Ritter, che a mio parere non riesce nell'impresa di spaccare lo schermo con il carisma che un personaggio "antipatico" come quello della detective richiederebbe - pensare che il bisteccone Cage di Mike Colter, messo dov'è per la presenza fisica imponente, possa fare meglio, è quasi da fantascienza -: ad ogni modo non voglio trattare troppo male la scombinata Jessica, un pò per solidarietà tra bevitori, un pò perchè sono più che convinto che le potenzialità del personaggio siano assolutamente presenti.
Devo solo sperare che, con il secondo giro di giostra previsto per il prossimo anno, gli autori riescano a tirarle fuori.




MrFord




 

venerdì 28 ottobre 2016

Mother's Day (Garry Marshall, USA, 2016, 118')





E' curioso, iniziare a scrivere un post su un film come Mother's Day, piacevole - a sorpresa, almeno per il sottoscritto -, patinatissima e mainstream commedia dei buoni sentimenti made in USA con un cast di prim'ordine snobbata ai tempi dell'uscita in sala e recuperata solo ora nel corso di una giornata tipica del weekend fordiano attuale, tra piscina per i bimbi, spesa e sessioni di gioco intensive a causa dei primi sentori di brutto tempo autunnale: prendono infatti corpo di colpo due entità simili all'angelo ed al diavolo tipici dei cartoni animati pronti a consigliare il charachter di turno, il primo a dirmi quanto alla fine meno peggio di quello che mi aspettassi si è rivelato questo prodotto, o mi sia piaciuta la vicenda del padre vedovo interpretato da Jason Sudeikis alle prese con le sue due figlie ed il ricordo della moglie, o la visione si sia rivelata leggera abbastanza da permettermi un allenamento pomeridiano insperato mentre il Fordino assemblava uno dei suoi zoo eccezionalmente senza l'aiuto del sottoscritto e le due donne di casa si dividevano il divano, il secondo a ricordare quanto in questi casi mi manca la rubrica estiva del Bullettin, quando un titolo come questo, pur passato senza troppi patemi su questi schermi, sarebbe stato liquidato in una decina di righe al massimo invece che "costringermi" alla stesura di un post intero.
Probabilmente, la verità sta nel mezzo, e questa sorta di film corale di grana grossa è finito per risultare gradevole per le scelte di casting ed il fatto di averlo visto in un classico sabato "da famiglia" di quelli che paiono talmente normali da risultare assolutamente eccezionali da vivere tanto quanto ora finisce per apparire un'impresa titanica scrivere qualcosa che non suoni troppo forzato o tirato per le lunghe: dunque farò accenno alla discreta varietà di registri delle varie storie raccontate - dal comico/grottesco delle due sorelle alle prese con l'improvvisata dei genitori, texani purosangue, all'oscuro del fatto che una delle due sia lesbica e che l'altra sia sposata con un medico di origini indiane, ed entrambe madri al più classico degli intrecci da romcom, passando per la tipica storia dei due giovani innamorati che prima di coronare il loro sogno si troveranno a dover affrontare difficoltà emotive e "materne" -, allo stupore di vedere inserito in un contesto di questo genere un fordiano come Timothy Olyphant, star del cult Justified, che probabilmente sta ad un prodotto di questo tipo quanto il sottoscritto, se non fosse che, come già sottolineato, ha finito per passare la durata della pellicola con i pesi tra le mani.
Senza dubbio se una quindicina d'anni fa mi avessero detto che avrei trascorso un sabato pomeriggio in salotto in pieno contesto di famiglia allenandomi - ai tempi, nonostante sia sempre stato sportivo, il fitness non era proprio in cima alla mia lista - guardando una cosa come questo Mother's Day avrei riso di gran gusto, bersagliando a priori questo film e, in caso mi fosse capitato tra le mani o davanti agli occhi, bersagliandolo ancora di più.
Ma i tempi cambiano, e così noi, senza contare che non penso che Tarkovskij o Welles si adattino ad una visione da palestra con bambini in sottofondo, oltre al fatto che, in quel caso, perdere qualche fotogramma "a causa" di una serie di flessioni alimenterebbe enormi sensi di colpa verso il Cinema: dunque, per questa volta, mi sono goduto anche il lavoro di Garry Marshall, consapevole che faccia parte dei compromessi a loro modo piacevoli che rendono la vita in famiglia - ed i rapporti con chi ci ama, madri comprese - l'avventura che, di fatto, è.




MrFord






giovedì 27 ottobre 2016

Thursday's child



La settimana che ci attende per le proposte in sala risulta insolitamente, almeno sulla carta, fordiana, dunque potenzialmente in grado di irritare profondamente il co-conduttore di questa rubrica nonchè mio acerrimo nemico, Cannibal Kid.
Inutile dire che questo non potrebbe essere altro che un sogno, per il sottoscritto, considerato che si tratta anche della settimana del mio compleanno: un bel regalo, ed un bell'affronto per il mio blogger antagonista nonchè cinefilo più radical della blogosfera.



"Tieni, Peppa Kid: un bel vado di White Russian alla cicuta da parte di Ford."


Doctor Strange

"Che ci posso fare? Ho detto a Ford che leggo Pensieri Cannibali, e mi ha gonfiato."

Cannibal dice: Una delle più grandi incognite dell'anno. Il pessimo gusto del Doctor Ford?
No, quella è una certezza ogni anno. Mi riferisco a Doctor Strange, pellicola con Benedict Cumberbatch nei panni di un supereroe Marvel che però dal trailer sembra più vicina a Inception rispetto ai soliti cinecomics. Potrebbe quindi rivelarsi una piacevole sorpresa, così come un gigantesco epic fail fordiano.
Ford dice: tassello dopo tassello il Cinematic Universe della Marvel si arricchisce ed allarga sempre di più, questa volta con uno dei personaggi più curiosi e meno noti al grande pubblico della Casa delle Idee, il Doctor Strange.
Non sono mai stato un grande fan del mago, ma se lo dovessero sviluppare bene potrebbe anche venire fuori qualcosa di interessante, e magari una magia in grado di permettere perfino a Cannibal di apprezzare per una volta il Cinema non radical.



In guerra per amore

"Non sarai per caso una spia dei cannibalini, vero!?"

Cannibal dice: Con il suo esageratamente acclamato film d'esordio, La mafia uccide solo d'estate, Pif aveva realizzato un film carino caruccio, ma alla fine anche piuttosto innocuo e buonista. Con questa opera seconda alza ulteriormente il tiro, passando dalla mafia alla Seconda Guerra Mondiale, trattando un tema pesante in maniera sempre leggera. L'odore di una versione meno bella de La vita è bella, tanto per rimanere in tema di film sopravvalutati, è nell'aria.
O forse è solo il rancido odore di Ford in avvicinamento?
Ford dice: Pif mi è sempre stato simpatico, il suo La mafia uccide solo d'estate era stato una visione carina, spero dunque che al secondo film possa fare un passo in avanti e non due indietro, come accade a Cannibal ad ogni nuova recensione.
Di sicuro, una visione ci scappa.



The Accountant

"Se devo incontrare Cannibal di persona, devo impasticcarmi per bene con un pò di allucinogeni."

Cannibal dice: Ben Affleck nei panni di un matematico autistico in quello che potrebbe essere un action-thriller piuttosto avvincente. Sperando non si riveli un actionaccio tamarro per fordiani, quanto un teso e raffinato thriller per cannibali.
Ford dice: Ben Affleck matematico autistico suona stonato tanto quanto Cannibal su un ring di wrestling con The Rock, ma il film potrebbe perfino rivelarsi una visione piacevole. Sempre che non sia una cannibalata: in quel caso fuggirò a gambe levate come se tornassi a funzioni e trigonometria sui banchi di scuola.



Trolls

"Buongiorno a tutti, sono la nuova versione animata di Katniss Kid."

Cannibal dice: I trolls oggigiorno sono quelle creature che commentano in maniera anonima i blog, lanciando insulti da codardi. Quando lo fanno su White Russian la cosa fa anche ridere, quando capita su Pensieri Cannibali meno.
I trolls ai tempi di Ford e degli antichi scandinavi sono invece dei pupazzetti scemi che in questo film appaiono come degli alter-ego dei Minions. Sarà allora la solita bambinata fordiana? Temo proprio di sì.
Ford dice: film che è già stato prenotato dal Fordino, incuriosito - anche se non ai livelli di qualsiasi pellicola "animalesca" - dal trailer ai tempi della visione di Alla ricerca di Dory in sala. Personalmente non credo si rivelerà chissà cosa, quanto più probabilmente uno di quei film d'animazione pronto ad esaurirsi già con il trailer, ma resto disponibile a rimanere stupito.
Cannibal, invece, si meriterebbe il ritorno del suo troll preferito, il fan di Messi.



Ouija – L'origine del male

"Oh mio dio! Ma quello è Ford!"

Cannibal dice: Il primo Ouija si è rivelato uno degli horror più insulsi, vuoti e inutili visti di recente. E lo dico da amante degli horrorini teen. Questo prequel parte però favorito dal fatto che peggio del primo non può fare e che è diretto dallo specialista Mike Flanagan, regista del troppo esaltato Oculus ma anche dei recenti discreti Somnia e Hush – Il terrore del silenzio. Oltre che dalla sempre affascinante ambientazione anni '60, che farà sentire James Ford di nuovo un giovanotto. Che l'origine del male sia proprio la sua storia?
Ford dice: il primo Ouija è stato una delle visioni più terrificanti - e non in senso horror - dello scorso anno, un horrorino buono giusto per far cagare sotto i pusillanimi come Cannibal.
Questo secondo promette meglio, ma tutto dipenderà da cosa avrà combinato Flanagan, autore del sopravvalutato Oculus, del più che discreto Hush e della via di mezzo poco consistente Somnia: riuscirà il buon Mike, ormai considerato uno specialista, a portare in sala un horror degno di questo nome?
Speriamo bene, almeno si festeggerà Halloween come si deve!



La ragazza senza nome

 
"Pronto, Marco? Mi dispiace, ma non posso venire a cena con te: preferisco andare a bere con Ford."
Cannibal dice: Non sono un fan dei fratelli Dardenne, troppo neorealisti e fordiani per i miei gusti, però il loro ultimo Due giorni, una notte con Marion Cotillard mi era piaciuto davvero parecchio. Ho l'impressione che il miracolo potrebbe ripetersi anche con questo La ragazza senza nome, che vede come protagonista la promettente Adèle Haenel già vista nel sorprendente The Fighters – Addestramento di vita.
Ford dice: i Dardenne, simboli del neorealismo moderno ed amati da una buona fetta di pubblico radical - e mi stupisco del fatto che non siano tra i favoriti di Cannibal -, sono una vera e propria certezza, anche se non sempre ho amato il loro Cinema "della strada". Ad ogni modo, una visione ci sta tutta, sperando che si tratti di uno dei loro lavori più "umani".



Saint Amour

"Vieni, ti porto a bere con un ragazzo della nostra età: James Ford."

Cannibal dice: Commedia alcolico-campagnola franco-belga con protagonista il sempre odioso Gérard Depardieu. Più che una chicca radical-chic come di solito arrivano da Oltralpe, sembra una robaccia pane & salame perfetta per Ford, da cui nessun Santo ci potrà salvare.
Ford dice: alcool, campagna e pane e salame sono da sempre la mia materia. Un po' meno Depardieu, che non sono ancora riuscito a capire se detesto o riesco a digerire.
Nel dubbio, una visione - magari con sottofondo alcoolico - ci potrebbe stare. Alla facciazza di quel cittadino snob di Radical Kid.



Racconto calabrese

"Ho deciso di puntare tutto quello che avevo su Cannibal Kid, ed ecco il risultato."

Cannibal dice: Film on the road su un padre che cerca di ricongiungersi con la figlia, sembra una vicenda perfetta per il daddy Ford, che però lo ignorerà solo perché non arriva dall'America ma dall'Italia. Io invece lo ignorerò solo perché mi sembra una fordianata bella e buona, anzi brutta e cattiva.
Ford dice: rapporto tra padri e figli e film on the road potrebbero giocare a favore di questo film, che di contro ha lo svantaggio di essere una produzione italiana, e dunque entra nel grande gruppo di incognite della settimana.
Non fosse altro che per sbugiardare Cannibal, dovessi riuscire a recuperarlo lo vedrò in barba al fatto che il Cucciolo Eroico continui a credere nella mia crociata anti Terra dei cachi.



Parola di Dio

"Vieni pure, Cannibal: ho giusto finito di preparare la sedia speciale che ti ha ordinato Ford."

Cannibal dice: Lavoro russo a tematica religiosa che già solo dal titolo sa di una pesantezza divina. White Russian potrebbe quindi eleggerlo a capolavoro dell'annata.
Ford dice: drammone a sfondo religioso russo che qualche anno fa avrebbe fatto la felicità del sottoscritto, e che ora, Fordini ed impegni da casalingo sempre presenti, temo parecchio per il potere da pennica.
Proverò comunque ad inserirlo nella lista dei film d'autore da recuperare.



Enclave

"E così quello è Cannibal Kid: non vedo l'ora di bulleggiarlo."

Cannibal dice: Pellicola sulla guerra nel Kosovo con protagonista un bambino che vuole dare una sepoltura al suo nonno deceduto... Ma questa settimana quanti film sceneggiati da Ford escono?
Ford dice: altro film potenzialmente molto fordiano ed in grado di indisporre o stroncare Cannibal. Potrei vederlo anche solo per questo.


mercoledì 26 ottobre 2016

Somnia (Mike Flanagan, USA, 2016, 97')




Non troppo tempo fa, quando quasi contemporaneamente uscirono Hush e questo Somnia, entrambi firmati dal Mike Flanagan di Oculus - che, nonostante le molte recensioni positive, ai tempi non trattai propriamente con i guanti -, finii per aspettarmi due tempeste di bottigliate delle grandi occasioni, di quelle che di norma sono destinate agli horrorini di questi ultimi anni, capaci di qualche scossa soltanto grazie ai jump scare e ad inquietare giusto per un paio di secondi su un'ora e mezza di durata media.
Come raramente accade - soprattutto per quanto riguarda il genere, e soprattutto considerato il regista - non solo entrambe le pellicole hanno scampato le suddette tempeste, ma Hush ha guadagnato perfino una certa approvazione, mentre questo Somnia, per quanto non clamoroso ed assolutamente dimenticabile, ha finito per regalare qualche emozione con un finale insolito ed interessante, che riporta in auge il tema del rapporto tra genitori e figli e da una scossa quantomeno emotiva ad una pellicola che, altrimenti, non avrebbe detto molto più di tante altre - anche se, nel complesso, non l'avrebbe fatto peggio -.
Oltre all'analisi della figura della madre e del concetto di superamento del dolore, la pellicola è interessante anche per la presenza del piccolo Jacob Tremblay, star di Room, che seppur non all'altezza dell'interpretazione nel titolo appena citato cattura l'attenzione dello spettatore con uno sguardo che, se continua ad usare in questo modo, in futuro gli procurerà una lunga e prospera carriera: al contrario, tutto il comparto degli effetti speciali si rivela a mio parere come uno degli anelli più deboli accanto alla sceneggiatura, che nonostante il finale interessante in termini di riflessione dell'audience percorre l'ora e mezza di pellicola regalando alcuni passaggi talmente implausibili e tagliati con l'accetta dal richiamare immediatamente le produzioni buone per il tritacarne fordiano tipiche dei filmetti di paura vestiti a festa e cuciti addosso al mio antagonista Cannibal Kid e tutti i pusillanimi radical che non hanno idea di dove stiano gli horror degni di questo nome di casa.
Flanagan, ad ogni modo, si rivela piuttosto furbo, e considerata la sorpresa "in positivo" che è stata in un certo senso anche Somnia finisce per incuriosirmi a proposito dei suoi prossimi lavori, magari affiancato per l'occasione da qualche pezzo grosso della macchina da scrivere, in modo da potersi concentrare sull'aspetto prevalentemente cinematografico dei suoi lavori e, chissà, finire per conquistarsi un posto di rispetto qui al Saloon che fino a pochi mesi fa trovavo impossibile anche solo accostare al suo nome.
Non penso esistano, praticamente per contratto, horror "per famiglie", ma per quanto suoni strambo il concetto direi che Somnia potrebbe esserne un perfetto rappresentante: ideale per mostrare diversi risvolti - più o meno inquietanti - del rapporto tra genitori e figli, finisce, considerando l'evoluzione e l'utilizzo del mostro - davvero tra i più scarsi come resa visiva degli ultimi anni - e del suo rapporto con il piccolo protagonista, per stimolare le domande dei "più piccoli" e le riflessioni degli adulti a proposito del ruolo che hanno nella formazione dei propri figli, e come ogni singola decisione presa "per il loro bene" possa influire a livello intimo e non solo subconscio di chi cresce in una certa misura guidato ed amato da loro.
Considerato che si tratta in buona sostanza di un filmetto, direi che già questo può essere considerato praticamente un successo.





MrFord




 

martedì 25 ottobre 2016

Cafè Society (Woody Allen, USA, 2016, 96')





Ho sempre considerato Woody Allen un grande del Cinema USA, anche se, in qualche modo, il suo talento come sceneggiatore - soprattutto per quanto riguarda i dialoghi - per quanto mi riguarda ha sempre superato quello come regista, e ho amato alla follia molti dei suoi lavori, dai classici Io e Annie e Manhattan ai più recenti Accordi e disaccordi, Match point e Midnight in Paris.
Quello che non ho mai compreso, almeno a partire dalla metà degli anni novanta ad oggi, è la sua necessità di sfornare, quasi fosse un rito scaramantico, una pellicola a stagione, in barba alla volontà di molti cineasti di completare un'opera solo quando se ne sente intimamente il bisogno: sono molte, infatti, le delusioni cocenti che il regista newyorkese mi ha rifilato in questo senso, dal terribile e sopravvalutato Vicky Christina Barcelona all'orrido Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, e a quanto pare - non ho ancora avuto il coraggio di recuperarlo - il penultimo Irrational man.
Dunque, come sempre negli ultimi anni, Cafè Society rappresentava una scommessa, l'ennesima ripetizione dell'ormai classica domanda "sarà l'Allen dell'anno buono?": il risultato, seppur non memorabile, quantomeno mi fa affermare che sì, si tratta dell'Allen dell'anno buono, forse confortato da un setting che ormai gli calza a pennello - quello della prima metà del Novecento - e dalla sua abilità di rendere quasi digeribili attori che non sopporto - Jesse Eisenberg - e quasi bravi altri che ritengo cani maledetti - Kristen Stewart -.
Cafè Society, dunque, si inserisce tranquillamente nel filone "carino" della sua produzione accanto a titoli come Magic in the moonlight o Scoop, racconta una storia a metà tra ironia e malinconia, e riesce a strappare risate così come sospiri legati alle opportunità non colte, o, più semplicemente, alle cose che il Destino non ha voluto andassero come avrebbero voluto i loro protagonisti, cui non resta che rifugiarsi nei sogni per accarezzare l'idea di come sarebbero state.
Probabilmente il vecchio Woody sa di giocare in casa, dalla consueta ma rispettosa ironia ebraica alla preferenza per la Grande Mela rispetto a Los Angeles - capisco meno quella per la già citata Kristen Stewart rispetto a Blake Lively, ma questa è un'altra storia -, dai riferimenti al mondo del Cinema dei tempi alle storie d'amore mai risolte, da un protagonista al limite dell'antipatico che si segue con partecipazione minore rispetto al fratello gangster portato sullo schermo come una macchietta grottesca alla capacità di raccontare l'amore - che finisca bene o male, poco importa - e tutte le sue sfumature assurde e quasi ridicole.
Tutto è scritto, diretto e confezionato senza sbavature, come un ingranaggio ben oliato, e forse è proprio per questo che, alla fine, il bello finisce quasi per risultare essere il finale che non vorremmo, in cui tutti - quantomeno i protagonisti - nascondono qualcosa e celano ombre, e finiscono per rifugiarsi nei sogni non tanto per evadere da una realtà che comunque soddisfa e rende felici quanto per pensare ad un'altra possibilità, un'altra vita, un'altra storia.
Un pò come quando, grazie al Cinema, per un'ora e mezza diventiamo qualcuno, visitiamo un'altra epoca, immaginiamo come sarebbero andate le cose se ci fossimo trovati in un altro posto, in un altro momento: del resto, "la materia di cui sono fatti i sogni" è alla base del cocktail che gustiamo grazie alla settima arte, che si tratti di un locale di lusso figlio della Cafè Society o dei loschi traffici dei gangsters dei bassifondi.




MrFord



 

lunedì 24 ottobre 2016

Bad moms - Mamme molto cattive (Jon Lucas/Scott Moore, USA, 2016, 100')










Avete presente quello strano fenomeno secondo il quale le casalinghe disperate e represse per trecentosessantaquattro giorni all'anno decidono di organizzarsi con le amiche per uscire e darsi "alla pazza gioia" la sera dell'otto marzo, quasi come se la festa della donna fosse una ricorrenza per celebrare quello che dovrebbe essere ovvio ogni giorno, ovvero che non dovrebbero esistere sessi forti o deboli, ma semplicemente persone che si confrontano, con i loro pregi ed i loro difetti, e le differenze che rendono così divertente - almeno certe volte - il rapporto che passa tra le due metà del cielo?
Bad moms è l'espressione inequivocabile ed assoluta di quel fenomeno.
La cosa triste, tra l'altro, e pronta a farmi sentire in colpa in quanto non donna, è che a dirigere e scrivere quello che è senza dubbio uno dei film più inutili, brutti e volgari dell'anno siano due uomini, quasi a dimostrazione del fatto che gli stessi ritengano il "gentil sesso" come un gruppo di povere perdenti sciroccate con il disperato bisogno di rivincite, finte trasgressioni e principi azzurri - badate bene, signore mie, non ne esistono - mascherando il tutto come una sorta di inno alla rivolta - come se ne avessero bisogno, considerato che sono loro a governare il mondo, anche quando non sembra così -.
Nel corso della visione, fortemente voluta da una Julez pentitasi credo al decimo minuto, mi sono tornate in mente più volte le critiche mosse di recente in occasione del mio post ad una robaccia di grana grossa - ma comunque estremamente divertente - come Nonno scatenato, o quelle di un paio d'anni fa a Cattivi vicini rispetto alla presunta volgarità delle stesse, quando in questo Bad moms assistiamo ad una carrellata di battute di lega bassissima pronunciate a nastro dalle protagoniste neanche fossimo nel peggiore dei Cinepanettoni - e badate bene, in casa Ford di parolacce ed espressioni colorite se ne usano a milioni, e lo sforzo di contenersi ora che ci sono i bambini è titanico - come se il film qui presente fosse lo sfigato di turno che, incontrati i tipi fighi in un locale, crede che buttando un cazzo qui ed una figa là possa apparire tosto quanto gli altri.
Ma non è così che funziona il mondo, bello mio.
Nel corso della mia vita di spettatore mi sono goduto e stragoduto film in cui il linguaggio era, per usare un termine dei nostri tempi, piuttosto colorito, da Quei bravi ragazzi a Il grande Lebowski, passando per i vari Strafumati o SuXbad, fino al già citato Nonno scatenato, e non ho mai avuto l'impressione di una forzatura, di qualcosa che scadeva passando dal divertente al volgare, quantomeno nell'accezione più profonda del termine: non in questo caso.
Bad moms è pura spazzatura commerciale pronta ad inghiottirsi anche una tipa giusta come Mila Kunis, completamente fuori parte ed assolutamente insulsa come tutto il resto del cast, e ad inebetire gli spettatori occasionali o quelli accorsi in sala solo ed esclusivamente per la sua protagonista.
Ovviamente il successo al botteghino è stato stratosferico, e perfino qualche radical avrà finto di abbassarsi al livello del grande pubblico per quella che è una sagra del luogo comune, o quello che si vorrebbe fosse un luogo comune, e questa, purtroppo, è una vergogna per la settima arte tutta.
Peccato, perchè pur non aspettandomi granchè, quantomeno speravo in un paio di risate da neuroni spenti, e invece ho finito quasi per indispettirmi neanche fosse un otto marzo qualsiasi di una decina d'anni fa e non potessi uscire per infilarmi nel primo locale zeppo di casalinghe disperate di tutte le età con la voglia di bere fino allo sfinimento e scoparsi il primo che fa loro due complimenti neanche fosse l'ultima occasione della loro vita.
E adesso che ci penso, se davvero ritengono che sia così, un pò se lo meritano, un film vomitevole come questo.




MrFord




domenica 23 ottobre 2016

Lila dice (Ziad Doueiri, Francia/UK, 2004, 89')



Quando, non troppo tempo fa, lessi parecchio bene di questo film dalle parti del mio antagonista Cannibal Kid, la spinta a recuperarlo fu legata più all'eventuale curiosità di alimentare la nostra rivalità con una bella stroncatura che non altro, complice il fatto che, nonostante ne ammiri le sfumature e molti titoli, il Cinema francese finirà sempre per ricordare al sottoscritto l'antipatia che provo per i cugini d'oltralpe.
E sulla carta, le caratteristiche c'erano tutte: una storia d'amore insolita tra due ragazzi poco più che adolescenti, un piglio da pseudo Nouvelle Vague Anni Zero, una protagonista femminile antipatica come poche.
Praticamente come chiedere un'acqua naturale senza neppure ghiaccio e fettina di limone qui al Saloon.
E invece, ecco la sorpresa.
Lila dice non solo mi è piaciuto, e molto, ma è anche ed indiscutibilmente un bellissimo film d'autore, di quelli destinati a diventare piccoli, grandi cult per chi ha la fortuna di incrociarne il cammino e farsi rapire senza troppi pensieri: partito come una sorta di ibrido tra le atmosfere anni novanta di cose come Prima dell'alba o degli esordi di Wong Kar Wai, pronto a scorrere leggero come una giornata di primavera per poi esplodere letteralmente in un finale drammatico e terribile senza comunque perdere la speranza, il lavoro di Ziad Doueiri è un colpo di fulmine vero e proprio, forse uno dei più sorprendenti e piacevoli che abbia provato nel corso di un duemilasedici cinematografico davvero poco memorabile.
Il rapporto tra Lila ed il suo giovane innamorato Chimo, che pare passare tra le strofe di Bocca di rosa di De Andrè e l'importanza e la profondità della riflessione sull'apparenza e su quello che vogliamo credere di chi abbiamo di fronte ha rappresentato, oltre ad una folgorazione, uno dei migliori esempi di scrittura degli ultimi mesi, mai troppo carico eppure tosto, sensuale eppure non volgare neppure a fronte delle palesi provocazioni della sua giovane diva: in un periodo, inoltre, in cui la posizione della donna e la sensibilizzazione rispetto ai fenomeni di violenza legati alla stessa sono legate a doppio filo alla cronaca ed all'evoluzione sociale, un prodotto ormai non più recentissimo come questo pare assumere un'importanza davvero notevole, oltre a mostrare dinamiche che, purtroppo, sono all'ordine del giorno a qualsiasi latitudine.
Tutto questo, però, senza che il film si renda ostico a causa di un certo piglio, per l'appunto, troppo "radical" o di tematiche scomode e senza dubbio serie affrontate anche quando non pare affatto che sia così, o possa esserlo: Lila dice è un inno alla leggerezza ed alla voglia di vivere, innamorarsi, lasciare alle spalle quello che non va nella nostra vita e gettarsi a capofitto nel futuro, nelle nuove occasioni, in tutto quello che scuote il cuore nel profondo.
Non sono più un adolescente da parecchio tempo, e continuo a pensare che quello sia indiscutibilmente uno dei periodi più assurdi e scombinati delle nostre vite, eppure quando guardo e "sento" film come questo come se fossero sottopelle, quei brividi e quella primavera tornano a bussare di prepotenza alla mia porta: e, per usare una citazione che probabilmente avrei usato molto, molto volentieri allora, "naufragar m'è dolce, in questo mare".





MrFord




 

sabato 22 ottobre 2016

Banshee - Stagione 4 (Cinemax, USA, 2016)




Fin dai suoi esordi sul piccolo schermo, Banshee ha rappresentato uno dei guilty pleasures indiscussi dell'annata fordiana: un prodotto tutto botte, alcool, sesso e ancora botte, straripante limiti ed assurdità eppure fresco, dritto e coinvolgente come una bella sbronza senza pensare troppo al domani.
Quando, mesi fa, venni a sapere che con la qui presente quarta stagione si sarebbe chiusa l'avventura dello "sceriffo" Hood e della sua cricca, ammetto di essere rimasto parecchio dispiaciuto, anche se, date le premesse a livello di script, sarebbe stato oggettivamente difficile portare avanti il tutto ancora per tre o quattro stagioni rischiando di mandare definitivamente il prodotto in vacca.
Come si è chiusa, dunque, quella che è stata una delle serie più fordiane del passato recente?
Direi discretamente bene, pur non essendo questa quarta la migliore stagione - che, a mio parere, resta indubbiamente la seconda - e tagliata con l'accetta anche a causa della tanta carne al fuoco buttata per soli otto episodi, dall'intrigo tra Proctor ed il Cartello - che avrebbe potuto impegnare un'intera annata - al conflitto con i neonazisti della Confraternita - stesso discorso, considerato un charachter potenzialmente bomba come Kurt Bunker - passando per la gestione davvero "in corsa" del serial killer satanista, che passa in un paio di episodi dall'essere una sorta di fantasma inafferrabile a persona più rintracciabile della Contea, rendendosi comunque protagonista di una delle sequenze "di morte" più grottescamente divertenti dell'intera serie.
L'epilogo, poi, senza dubbio positivo ma traboccante di malinconia da fine delle vacanze che caratterizza ogni separazione da produzioni che, in un modo o nell'altro, ci hanno toccato, permette di salutare nel modo migliore Hood - che, come Spartacus, chiude senza rivelare al pubblico il suo vero nome -, Job e soci, così come Banshee tutta, probabilmente la cittadina - seppur fittizia - con la maggior concentrazione di criminalità della Storia Americana: pur non facendo, dunque, gridare al miracolo - come le annate precedenti - e mettendo sul piatto più riflessione e meno sesso e botte - purtroppo -, questa season d'addio rende comunque giustizia al prodotto, che pur grezzo che sia ha rappresentato un certo genere nel migliore dei modi, regalando ai suoi fan eccessi e gran tamarraggine, oltre a smisurate dosi di "sangue e merda", come si sarebbe detto negli anni novanta.
Forse è stato tutto troppo facile, o troppo sguaiato, ma per gente come Hood e soci direi che va assolutamente bene così: del resto, non c'è stato un solo episodio di questo titolo che non abbia avuto voglia di affrontare o non mi abbia lasciato in qualche modo soddisfatto, per un motivo o per un altro.
Certo, non potrà mai essere Sons of anarchy o Breaking bad, ma è anche giusto che la materia bassa, di tanto in tanto, finisca a bere accanto a quella alta, dividendo il bancone di legno grezzo di un Saloon che funge da crocevia di destini: un pò come Hood che incrocia il vero Hood, e a seguito della morte di quest'ultimo, decide di prenderne l'identità.
L'inizio di tutto.
L'inizio di Banshee.
L'inizio di una gran bella cavalcata, alla quale penserò sempre con grassa goduria.
So long, Hood.
Vai e colpisci come solo tu sai fare.
E fallo sapendo che non sarai mai solo.




MrFord