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mercoledì 30 novembre 2016

Love (Gaspar Noè, Francia/Belgio, 2015, 135')




Il fatto che Gaspar Noè sia uno degli autori più interessanti del panorama "alto" europeo - malgrado sia nativo di Buenos Aires va considerato francese d'adozione da tempo immemore -, ed uno dei pochissimi, pur essendo clamorosamente elitario, a non avermi mai fatto pensare neppure per scherzo al radicalchicchismo, è indubbio da tempi non sospetti, prima ancora che sfornasse quello che, ad oggi, è senza dubbio il suo film di riferimento, quell'Enter the void che qualche anno fa percorse la blogosfera come una tempesta segnando probabilmente le vite da spettatori di molti di noi.
Eppure, non so neppure esattamente per quale motivo, ho avuto paura per mesi di approcciare questo Love: aspettative alte, commenti lusinghieri letti da più parti, il pensiero che il sesso potesse appiattire il lavoro del regista hanno fatto in modo che restasse "congelato" al Saloon per diversi mesi, prima che questo mio periodo lontano dal lavoro e dunque di freschezza mentale maggiore lo riportasse a galla come un reperto.
E cos'è accaduto, quando il diabolico Gaspar ed il vecchio cowboy hanno incrociato di nuovo i loro cammini? Love si è rivelato il primo scivolone del regista o l'ennesima conferma?
Senza dubbio parliamo di un prodotto - come gli altri firmati dal buon Noè, del resto - non per tutti - un limite che, purtroppo, non permetterà mai a questo autore strepitoso di raggiungere il grande pubblico ed il grande successo - certo non per i contenuti o per le immagini quanto per l'approccio, ma ad un tempo siamo di fronte ad un esperimento unico nel suo genere, il racconto di una storia d'amore - malata oppure no che sia - strutturato a partire da quella che è l'ossatura di ogni storia d'amore che si rispetti: il sesso.
Personalmente, infatti, con la crescita e l'esperienza - in fondo l'idealizzazione dei sentimenti ha la sua giusta casa nel periodo dell'adolescenza - sono giunto alla conclusione - e penso non soltanto io - che se una storia funziona - e parlo di anni, e di legami forti - lo fa perchè cementata alla base e tenuta in piedi anche e soprattutto dal sesso, a prescindere dall'amore che si possa provare per chi ci sta accanto: in fondo, passereste uno, dieci, cinquant'anni accanto a qualcuno con il quale - o la quale - non provate alcun piacere - o un piacere molto moderato - a scopare?
Non credo proprio.
In questo senso la vicenda di Murphy ed il suo rapporto perduto con Electra sono perfetti per raccontare gli squilibri, le ascese e le cadute legate a doppio filo proprio al sesso, che se non è il motore dell'amore ne è senz'altro la benzina: Noè, con il suo solito piglio a metà tra il geniale ed il volutamente provocatorio, conduce l'audience attraverso un viaggio nel Tempo - altro concetto centrale del lavoro del regista - e racconta una sua versione di 500 giorni insieme con un sacco di scopate in più, senza risparmiare nulla - o quasi - all'immaginazione, portando sullo schermo anche sequenze davvero credibili e potenti - anche se, per quanto mi riguarda, il sesso esplicito al Cinema trova le sue due massime espressioni in Shortbus e L'impero dei sensi - e stimolando non solo eccitazioni varie ma anche e soprattutto una riflessione rispetto a quanto istintivi, cattivi, stupidi ed inesorabilmente innamorati possiamo riuscire ad essere nel corso della nostra vita.
Riuscire in un'impresa del genere grazie ad un film certo non tambureggiante in termini di ritmo ed attraverso un protagonista che personalmente ho trovato detestabile è l'ennesima conferma del talento visivo e di rottura di Noè, che scivola soltanto in un paio di momenti fin troppo provocatori - non sconvolgenti, sia chiaro, quanto forse più di cattivo gusto - ma confeziona l'ennesimo lavoro che chi avrà la voglia di affrontare non potrà più dimenticare.
In fondo, quello del torbido Gaspar è un Cinema d'esperienza.
E da amante della vita, non posso non amarlo.




MrFord




 

martedì 29 novembre 2016

Kubo e la spada magica (Travis Knight, USA, 2016, 101')




E' curioso come e quanto, a volte, il Cinema d'animazione di qualità - fatta eccezione per realtà ormai consolidate come Pixar o Ghibli - viaggi in direzione diametralmente opposta a quella della distribuzione: di recente, ho felicemente massacrato quell'obbrobrio ipercommerciale di Trolls, merdina gommosa targata Dreamworks che ha letteralmente invaso la Penisola, mentre più o meno negli stessi giorni passava praticamente sotto silenzio Kubo e la spada magica, produzione ben più valida e profonda ma con un appeal commerciale decisamente più scarso - almeno agli occhi di chi decide questo tipo di cose -.
Il lavoro di Travis Knight, infatti, pescando a piene mani dalle fiabe orientali - ma non solo, si noti l'ispirazione al magnifico La fortezza nascosta di Kurosawa - e dall'approccio visivo della stop motion, riesce a presentarsi come un mix perfetto di classicità vecchio stampo ed ironia moderna, tenuto vivo da personaggi che funzionano dal primo all'ultimo, un importante sottotesto legato al valore dei ricordi e della vita vissuta con chi amiamo e ci ama - leggasi principalmente Famiglia - ed un ritmo piacevole che permette al prodotto di risultare non banale ad una prima occhiata prettamente estetica: personalmente, malgrado il Fordino non ne sia stato particolarmente conquistato se non nelle fasi in cui entravano in gioco gli animali antropomorfizzati della storia di Kubo, ho trovato il tutto emozionante e ben costruito, in grado di ricordare in qualche modo il primo Kung Fu Panda e tutta la filosofia dell'outsider guidato dall'amore che ha fatto la fortuna dei film d'avventura figli degli anni ottanta da Karate Kid ai Goonies, senza per questo, per l'appunto, risultare un'operazione di mero amarcord o troppo "vecchia" - gli scambi tra Scimmia e Scarabeo sono uno spasso, ed in particolare la primate vince a mani basse nella categoria "personaggio dell'anno" per quanto riguarda i cari, vecchi "cartoni animati" -.
L'utilizzo, inoltre, di due strumenti narrativi come il viaggio ed il sogno rendono il film solido quanto piacevole da vedere a prescindere dalla vostra età anagrafica, segno che il bersaglio è stato centrato e che, in fase di sviluppo, non si è pensato solo ed esclusivamente a merchandise e doppi giochi da multisala nel weekend per famiglie senza la minima idea di come intrattenere i propri figli: e dall'utilizzo delle zie di Kubo come nemiche giurate di sua madre - una cosa quasi shakespeariana anche come rappresentazione delle due "streghe" una volta tre, e di nuovo un rimando ad un altro gioiello di Kurosawa, Il trono di sangue - a quello del nonno pronto a fagocitare il nipote e tutta la sua eredità fino ad un finale che richiama, ed è un altro richiamo alla saga di Po, quello splendido di Kung Fu Panda 3, viene da chiedersi come sia possibile che un prodotto di questo tipo resti una chicca da appassionati quasi tutti entusiasti e non un prodotto sul quale investire guardando per una volta alla qualità e non alla quantità.
Purtroppo per noi tutti, ho l'impressione che quest'ultimo quesito resterà un mistero anche per chi riesce a vedere oltre come Kubo, che porta comunque fiero lo stendardo degli outsiders regalando anche ai bimbi di questa generazione un personaggio in cui identificarsi imparando che farsi il culo aiuta sempre, e avere qualcuno che ci copre le spalle mentre ce lo facciamo aiuta ancora di più.




MrFord




 

lunedì 28 novembre 2016

The night of (HBO, USA, 2016)




Sono sempre stato dell'idea che, nel corso di una vita, le persone conosciute e le situazioni affrontate abbiano un ruolo anche più importante di noi stessi nella formazione del carattere, del modo di porsi, del punto d'osservazione che abbiamo rispetto al mondo.
Quanto potrebbe cambiarci, per esempio, incontrare qualcuno pronto a tirarci fuori dal guscio, essere travolti da un'esperienza che in quel momento ci pare unica e sconvolgente, all'interno della quale siamo protagonisti indiscussi?
Molti di noi - specialmente i maschietti - vivono una situazione del genere prima, dopo e durante la prima volta con il sesso, quando si compie un salto che finisce per far sentire quasi invincibili, almeno per un pò, come quando, in una serata da sbronza, si attraversa quella mezzora in cui ci pare di avere il pieno controllo della situazione anche quando lo si ha già perso da un pezzo: e cosa accadrebbe, se da una situazione simile ci ritrovassimo accusati di un crimine non compiuto e che potrebbe ribaltare tutti i nostri sogni, e la vita vissuta con loro?
The night of, miniserie targata HBO giunta sugli schermi del Saloon grazie ai numerosi commenti positivi raccolti dentro e fuori la blogosfera, parte da un concetto molto vicino a questo, quando Nasir Khan, nato negli States da genitori pakistani, studioso, bravo ragazzo con qualche scheletro nell'armadio, incontra Andrea, disinibita, legata alla droga, ricca, senza dubbio più spigliata e "di mondo" di quanto non sia mai stato lui: un incontro che per Naz potrebbe significare quella "rivincita", quella sensazione di semi-onnipotenza da dopo orgasmo o da piena sbronza, il riscatto a fronte di una quotidianità da quasi sfigato.
E invece succede qualcosa che cambierà per sempre la sua vita.
Non avrei creduto, specialmente rispetto ai prodotti da piccolo schermo, di incontrare a così poco tempo dall'inizio dei primi lavori sulle classifiche di fine anno, un titolo in grado di scompaginare graduatorie che parevano già scritte, e per questo non posso che ringraziare ancora una volta la già citata HBO, che in otto puntate - anche se, occorre segnalarlo, la prima e l'ultima hanno un minutaggio da film - confeziona un noir da cardiopalma, scritto alla grande ed interpretato alla perfezione da tutto il cast, che non solo riesce a far invidia ai prodotti di Nic Pizzolatto, ma regala uno spaccato umano potentissimo, in cui tutti sbagliano, cadono e cercano di rialzarsi, in cui non esiste una parte giusta o una sbagliata, e come per un altro importante titolo di questo periodo - American crime story - viene mostrato quanto, nel sistema giudiziario americano, sia più importante apparire in sede di giudizio non tanto forti della verità quanto convincenti nel raccontare la storia che si desidera raccontare.
The night of è il racconto della discesa agli inferi non solo di Naz, che inizia da bravo ragazzo e finisce da ragazzo (cattivo) perduto - o con grandi possibilità di perdersi -, ma anche di John Stone, cui presta volto, ironia e malinconia un grande John Turturro, avvocato da pochi spiccioli ma dall'istinto quasi animale, uno dei charachters più tristi che ricordi degli ultimi anni quantomeno sul piccolo schermo, pronto a legare le sue speranze non solo al giovane assistito ma anche e soprattutto ad un gatto cui è allergico, e che potrebbe rappresentare l'ultima ancora che allontani la solitudine; del detective Box, alla ricerca dell'agognata pensione e forse, nel subconscio, di un'uscita di scena in grande stile, della procuratrice distrettuale e della giovane avvocatessa di belle speranze, di due genitori che dopo aver lottato contro l'emarginazione razziale per una vita si trovano a fronteggiare il dramma e le ripercussioni della vicenda del figlio; di chi è colpevole e di chi potrebbe esserlo, di chi è abituato a muoversi nella giungla dei carceri di massima sicurezza, e vede in Naz un "unicorno", qualcosa che, tra quelle mura, non esiste e forse non esisterà mai.
In The night of tutti perdono, anche quando vincono.
Perchè c'è sempre qualcosa che lasciamo, ed anche nel trionfo portiamo al giorno successivo una cicatrice lasciata dalla vita.
E passato quel momento, quella sbronza, quell'istante in cui tutto pare cambiare, o cambiato, finiamo per ritrovarci da soli a sfogarci contro un sacco da pugilato, o ricordando quanto la mente abbia potere sul corpo, accettando la sconfitta o andando alla ricerca di una vittoria, di una nuova possibilità, ricordando chi ci ha portato fino a dove siamo arrivati e non c'è più.
The night of esprime con grande umanità quella sensazione.
Una cicatrice che tira, una perdita che non potremo colmare.
Ma anche il richiamo della foresta.
Quello della nostra Natura.
Che potrà essere fallibile e forse anche cattiva, ma è senza dubbio il motore che può far ripartire.
Ripartire e sperare. Sempre e comunque.
Quel motore che, quando pensiamo non ci sia altra soluzione se non lasciarsi andare, spegnere, parcheggiare in qualche luogo perduto "tra il nulla e l'addio", ha uno scatto che non ci saremmo aspettati.
Come un gatto che sfreccia attraverso un salotto ed allontana lo spettro di un silenzio troppo pesante anche per il più forte degli uomini.




MrFord




 

domenica 27 novembre 2016

I compari (Robert Altman, USA, 1971, 120')





Quando, grazie all'iniziativa della sempre mitica Alessandra, non solo si è riesumato lo zoccolo duro di F.I.C.A., ma si è deciso di celebrare il decennale della dipartita di quello che è stato senza dubbio uno dei Maestri del Cinema USA, ho avuto una doppia occasione per festeggiare: recuperare o rivedere, infatti, uno dei lavori del mitico Robert Altman, finisce per essere sempre un modo per godere del fatto di amare la settima arte, e potendo scegliere tra diversi titoli ho optato - in mancanza de I Protagonisti, che non ho recuperato per tempo - per I compari, perfetto per la stagione, Western di frontiera come piacciono al sottoscritto, inserito alla grande in quello che è stato il filone della prima rivoluzione operata rispetto ai classiconi del "cowboy contro indiani".
Come sarebbe stato successivamente per Eastwood, Peckinpah e via discorrendo, ed in epoca più moderna per Jarmusch o i Coen, infatti, Altman porta in scena un racconto che ha poco dell'epica degli Howard Hawks o dei John Ford, e che, al contrario, narra una quotidianità guadagnata con il sudore della fronte, le lacrime ed il sangue, in barba ai grandi duelli ed alle grandi speranze.
La vicenda di McCabe, giocatore d'azzardo con una fama da pistolero ben superiore alle sue reali capacità, e della sua socia in affari, la prostituta Constance Miller, pronti a sfruttare una località remota per far conoscere i piaceri della carne e dell'intrattenimento a minatori e cacciatori prima di finire nel mirino delle grandi compagnie minerarie per nulla disposte a farsi mettere all'angolo da imprenditori locali con un piglio troppo guascone come loro - o, più precisamente, come McCabe - è tutto tranne che epica o grandiosa: da un certo punto di vista, pare quasi di assistere ad un film di Ken Loach portato nel vecchio West, tra Legge della giungla, outsiders, avvocati che promettono una campagna "mediatica" che possa tutelare i piccoli affaristi rispetto alle grandi compagnie ed un approccio che, come sempre quando si parla di umanità, finisce, quando tutto è compromesso, per essere risolto con la violenza ed il sangue.
Dunque, ad uno svolgimento tranquillo e quasi svogliato incentrato sulla quotidianità dell'attività e delle questioni legate alla sua gestione da parte di McCabe e Miller, si contrappone una parte finale tesissima, triste e violenta, che riporta lo spettatore a quello che doveva essere il Far West: un luogo selvaggio in cui, se si giocava con il fuoco, si finiva inesorabilmente bruciati.
Altman in questo caso lavora più sull'atmosfera e sul fascino che non sulla coralità - per questo ci saranno Nashville e America oggi, forse i suoi due lavori più importanti -, affidandosi ad una fotografia perfetta e ad un crescendo che senza dubbio è diventato un modello per tutti i registi di western moderni venuti dopo di lui e dopo questo lavoro: per un vecchio appassionato di genere come me, avere l'occasione di godermi due ore di immersione tra neve, sparatorie, sogni di gloria e tavoli da gioco è stata come una manna dal cielo, oltre che una scusa per rivedere a distanza di oltre dieci anni - se non ricordo male - un titolo poco conosciuto e clamorosamente valido del Maestro.
Non sarà forse roba per tutti, in bilico tra Frontiera ed un tempo che, ormai, è purtroppo inesorabilmente andato - in termini cinematografici -, ma chiunque ami davvero il Cinema non può che rimanere affascinato dalla magia che alcuni autori e titoli riescono sempre a propagare.
Come Robert Altman.
E come I compari.




MrFord

 






Questo post partecipa alle celebrazioni in memoria di Robert Altman.




sabato 26 novembre 2016

Monkey Kingdom (Mark Linfield&Alistair Fothergill, USA, 2015, 81')




Fin dai primi tempi in cui il Fordino ha cominciato a manifestare apprezzamento per la visione di film - che fossero d'animazione o legati ai suoi tanto amati animali - ammetto di aver iniziato a coltivare la speranza che, in un futuro neppure troppo lontano, come fu per me ai tempi possa sviluppare una curiosità tale per la settima arte da permettermi di fargli da guida almeno per un tratto di strada, mettendo a sua disposizione non solo la mia intera videoteca, ma anche tutto quello che ho imparato dalle migliaia di visioni che hanno accompagnato la mia esistenza.
Dunque, quando ora vado in caccia di nuovi titoli, cerco sempre di buttare l'occhio anche a quello che potrebbe interessargli o fare da sfondo ad uno dei nostri pomeriggi di gioco intensivo - Fordina permettendo, che ormai comincia a manifestare i primi segni di desiderio di interazione inserendosi dunque nell'equazione -: qualche mese fa, in quest'ottica, recuperai Monkey Kingdom, produzione Disney Nature simile ad African Cats, già molto amato da AleLeo.
E devo ammettere che, nonostante la voce off pronta a trasformare le vicende orchestrate da Madre Natura in una sorta di favola possa finire per annoiare il pubblico adulto, il risultato - specialmente se liberato in hd - resta mozzafiato dal punto di vista tecnico, e se si ha almeno in parte un certo amore per la Natura stessa ed i viaggi, è impossibile non rimanere ipnotizzati dalle immagini di luoghi esotici e lontani, così come non sentire la propria curiosità stuzzicata almeno in parte - personalmente, conoscendo i rapporti non proprio idilliaci delle scimmie con l'acqua, non pensavo assolutamente che i macachi fossero buoni nuotatori - quantomeno dal punto di vista scientifico.
In particolare, da questa visione sono uscito - ovviamente meno entusiasta del Fordino - ad occhi spalancati per la bellezza delle foreste dello Sri Lanka e per lo stupore rispetto a quanto simile, in realtà, la società animale sia alla nostra, con le sue regole, le sue caste, le sue vittorie e sconfitte: osservare quelli che sono i mammiferi che più ricordano l'Uomo muoversi, cercare cibo ed affrontare le differenze "di classe" all'interno di un branco, crescere i piccoli o difendere il proprio territorio dai predatori così come da simili disposti a lottare per prendere possesso di un riparo o una zona particolarmente ricca di risorse della foresta è, per quanto risaputo, sempre ad effetto, a prescindere dal fatto che sia narrato e strutturato in pieno stile Disney, dunque edulcorato anche nei suoi momenti più crudeli.
A prescindere, dunque, da questa connotazione "di produzione", non ho fatto altro che godermi le reazioni del Fordino alla comparsa di qualche nuova specie mostrata e ripresa, la bellezza dei luoghi - che tanto mi hanno ricordato quelli de Il libro della giungla - e gli animali in movimento nel loro habitat naturale, dai macachi protagonisti della storia ai bradipi, dalle termiti agli scorpioni, dai leopardi agli uomini.
Non si tratta certo di una chicca in stile National Geographic, ma resta comunque un'ottima alternativa per mostrare ai più piccoli - e, di riflesso, anche a noi - lati del mondo ancora sconosciuti, e chissà, alimentare qualche sogno che potrebbe portarli, un giorno, ad essere gli esploratori delle nuove generazioni.




MrFord




 

venerdì 25 novembre 2016

Aftershock (Xiaogang Feng, Cina, 2010, 135')





Dal recente terremoto che ha colpito l'Italia allo Tsunami che sconvolse il Sud-Est Asiatico qualche anno fa, le grandi tragedie naturali hanno da sempre significato, oltre al dramma, anche un momento in cui singoli o intere famiglie hanno finito per lottare con una forza miracolosa per vivere, ricominciare o rialzarsi.
Il ventotto luglio millenovecentosettantasei, a Tangshan, nel cuore della Cina che affrontava gli ultimi anni di Mao, ebbe luogo quello che è considerato uno dei terremoti più devastanti della Storia, non tanto per potenza quanto per numero di vittime - si parla di quasi seicentomila morti -: Xiaogang Feng, con un piglio classico che dall'altra parte del mondo si potrebbe considerare tipico dei drammoni da Oscar, racconta l'epopea di una famiglia spezzata dalla catastrofe e dalla stessa pronta a ripartire e vivere per i trent'anni successivi, in attesa della possibilità, un giorno, di potersi finalmente riunire.
Per quanto mi riguarda, Aftershock ha assunto una valenza importante già dalle prime sequenze, che a prescindere dagli effetti forse non all'altezza del Cinema americano cui tutti noi occidentali siamo abituati, riesce più che bene a trasmettere l'orrore che dev'essere trovarsi vicini all'epicentro di un sisma di questa portata, e vedere i propri cari lottare per la vita contro la Natura: come se non bastasse, la scelta forzata della madre dei piccoli Fang Deng e Fang Da impostale dai primi soccorritori rappresenta probabilmente l'incubo di qualsiasi genitore, quello di essere l'ago della bilancia della morte o della salvezza di uno soltanto dei suoi figli.
Proprio il personaggio della madre, segnato non solo dalla tragedia ma anche dalla responsabilità di una scelta da incubo come quella, rappresenta il metronomo di una pellicola intensa e drammatica, molto classica e rispettosa - probabilmente in Cina un lavoro di questo tipo finisce per essere molto ben accolto e poco scomodo - ma altrettanto genuina e coinvolgente, capace di raccontare la lotta della gente comune a fronte di eventi talmente grandi e devastanti da seppellire o in grado di far trovare la forza necessaria a compiere imprese straordinarie per quanto mascherate da assoluto ordinario - dalla scelta di non voler abbandonare il luogo del dramma e la prima casa abitata dopo il sisma a quella corriera fermata in tempo affinchè ad una donna non fosse tolto anche l'ultimo legame con la vita -.
Personalmente, in una situazione come quella mostrata dal regista, credo preferirei morire piuttosto che trovarmi a decidere quale dei miei figli salvare a scapito della vita dell'altro, magari proprio permettendo loro di sopravvivere: ma la Natura ha i suoi cicli e le sue regole, e noi che ne facciamo parte, possiamo solo lottare con tutte le nostre forze affinchè le persone che amiamo sentano la nostra presenza e possano sapere che, distanti o alla porta accanto, saremo sempre con loro.
Perchè quel tipo di legame, fatto di lacrime e sangue, ma anche di qualcosa che solo chi l'ha provato almeno una volta nella vita conosce, ha e da la possibilità di resistere a qualsiasi catastrofe, e che nessuna catastrofe è in grado di spezzare.
E biologico o no, dai parenti più prossimi agli amici più cari, personalmente adoro chiamare quel legame Famiglia.




MrFord




 

giovedì 24 novembre 2016

Thursday's child


Nuova settimana di uscite in sala e nuovo confronto tra il qui presente vecchio cowboy ed il suo antagonista per eccellenza Cannibal Kid, che più passano gli anni e più riesce a mantenersi, prima che finto giovane, poco competente in materia cinematografica.
Fortunatamente, nonostante la sua presenza ed il sempre eccessivo numero di titoli distribuiti, qualcosa di interessante potrebbe arrivare nella speranza di trovare un posticino nelle ormai sempre più imminenti classifiche di fine anno.


"Vorrei brindare al fatto che Ford e Cannibal, con ogni probabilità, non verranno a vedere il nostro film."


Snowden

"Joseph, non so che fare: c'è quel pusillanime di Peppa Kid che continua a tempestarmi di messaggi porno. Dici che devo avvisare l'FBI?"

Cannibal dice: Oliver Stone ha realizzato film grandissimi, altri meno, ma non ho mai terminato una visione di un suo lavoro deluso. Persino le sue pellicole più criticate a me non sono dispiaciute affatto. Questo nuovo Snowden come al suo solito ha molto diviso e ricevuto anche alcune stroncature, però a me fanno lo stesso effetto delle bottigliate di White Russian: le ignoro o, anzi, sono persino un incentivo alla visione.
Ford dice: Stone, per quanto incostante ed in grado di passare da film molto riusciti ad altri al limite del vomito - o all'altezza di Pensieri Cannibali, fate voi -, riesce sempre ad incuriosirmi. Dunque una bella visione di questo Snowden penso sia doverosa.



La cena di Natale

"Non hai comprato il necessario per il White Russian!? Ma sei pazza!? Ford adesso ti spacca la casa!"

Cannibal dice: Ecco il sequel di Io che amo solo te, che a sua volta era un remake di Io che odio solo te con protagonisti Cannibal Kid e James Ford. Considerando che non ho visto quello, che le pellicole natalizie mi danno l'orticaria quasi quanto il mio blogger nemico e che cominciare a tirarle fuori già un mese prima del 25 dicembre mi sembra una mossa davvero da brutte persone, diciamo che le possibilità che lo veda al momento sono molto prossime allo zero.
Ford dice: sequel? Film di natale? Spazzatura da grande distribuzione? Lo eviterò neanche fosse un Knight of cups qualsiasi.



Mechanic: Resurrection

"Da qui Cannibal è un bersaglio facile. Lo sistemo con un colpo da american sniper!"

Cannibal dice: Già mi sono perso il primo Professione assassino, figuriamoci se mi guardo questo sequel. Certo però che la presenza di Jessica Alba e il fatto che White Russian l'abbia stroncato potrebbero farmi cambiare idea...
Ford dice: filmaccio action purtroppo non troppo action come piace a me già visto e recensito qui:  http://whiterussiancinema.blogspot.it/2016/11/the-mechanic-resurrection-dennis-gansel.html
Io voglio bene al Giasone, ma questo non è certo tra i suoi film più memorabili. Dovesse comunque avanzarvi una serata rutti e patatine, potete fare un tentativo.




Come diventare grandi nonostante i genitori

"Ed ecco la nostra nuova hit per la più grande fan della band: Katniss Kid!"

Cannibal dice: Commedia pre-adolescenziale prodotta da Walt Disney Italia che potrebbe essere una specie di versione nostrana di High School Musical. Quindi una potenziale cannibalata pazzesca!
Io comunque, visto il titolo, consiglierei una visione soprattutto ai figli di Ford.
Ford dice: robetta adolescenziale buona giusto per il finto giovane che co-conduce con me questa rubrica. Io me lo risparmio almeno fino a quando in questo turbine non cadranno i Fordini.



Il cittadino illustre

"Invece della solita testa di cavallo ho preparato queste, per Cannibal. Ford sarà contento."

Cannibal dice: Pellicola scelta dall'Argentina come suo rappresentante nazionale ai prossimi Oscar e molto apprezzata all'ultimo Festival di Venezia, dove il protagonista ha conquistato la Coppa Volpi di miglior attore. Nonostante questo, mi sa di noioso e pretenzioso film (finto) impegnato fordiano. Però da buon radical-chic potrei dargli un'occhiata, ché potrebbe anche non essere niente male.
Ford dice: il Cinema argentino ha da sempre qualcosa da raccontare, e da sempre subisco il fascino delle proposte autoriali provenienti dall'America Latina. Potrebbe poi essere un buon modo per iniziare il percorso che condurrà ai prossimi Oscar. Speriamo solo non si riveli una radicalchiccata cannibalata.



3 Generations - Una famiglia quasi perfetta

"Hey nipote, questo pezzo è una bomba: senza dubbio non te l'ha consigliato Cannibal!"

Cannibal dice: Una famiglia quasi perfetta? Un po' come la famiglia Ford, che sarebbe perfetta se solo non ci fosse il suo capofamiglia, uahahah!
Quanto alla pellicola non sembra esattamente perfetta, ma nemmeno da buttare via.

Ford dice: Una famiglia quasi perfetta? Un po' come la famiglia Goi, se non ci fosse il piccolo Marco. Ahahahahah!

Quanto alla pellicola, penso di passare volentieri.



Monte

"Perdonami, tesoro. La prossima volta non ti propongo più un weekend romantico "alla Ford"."

Cannibal dice: Un film ambientato nell'Italia medievale su un uomo che cerca di tirare giù una montagna a martellate... Non ci credo. È persino troppo fordiano per essere vero!

Ford dice: un film che, dalla trama, parrebbe proprio roba fordianissima. Peccato che leggendone in giro pare sia proprio un fuoco di paglia. Un po' come il mio rivale.




Il più grande sogno

"Bello mio, se vuoi somigliare a Ford, devi somigliare un pò di più a me."

Cannibal dice: Il mio più grande sogno non lo rivelo, ma dico solo che ha a che vedere con Ford e con Marte. In alternativa mi posso accontentare anche solo di una settimana senza un miliardo di uscite inutili da commentare.
Ford dice: non posso rivelare il mio più grande sogno perchè scaramanticamente potrebbe non avverarsi. Per il resto, posso sempre augurarmi che le uscite settimanali diminuiscano e Pensieri Cannibali chiuda.



Palle di neve

"E all'intervallo tutti a prendere a palle di neve in faccia Cannibal!" "Sìììììì!"

Cannibal dice: Bambinata della settimana – d'altra parte avvicinandosi al Natale mi sa che si faranno sempre più insistenti – questa volta in arrivo dal Canada. Io mi diverto di più a gettare una palla, anzi una bomba di neve a Ford.
Ford dice: ultimamente mi sono schiaffato parecchie bambinate, alcune interessanti ed altre molto meno. Ho bisogno di una pausa. Perfino io.

mercoledì 23 novembre 2016

Animali notturni (Tom Ford, USA, 2016, 116')





Ricordo bene quando, nella primavera del duemilasei, iniziai a scrivere quello che, ad oggi, è il mio unico romanzo - e che, prima o poi, non mi dispiacerebbe affatto pubblicare, ma questa è un'altra storia -: era un periodo particolare della mia vita, stavo da tanto tempo con una persona cui ho voluto tantissimo bene ma che, nonostante il lungo percorso fatto insieme, era arrivata a non conoscermi almeno quanto io non conoscevo lei.
Forse ci siamo incontrati quando eravamo troppo giovani, o forse, chissà, non siamo stati pronti, o semplicemente non era destino: fatto sta che in quella primavera, con alle spalle i ricordi dei nostri due viaggi più belli - curioso siano stati gli ultimi -, mi chiesi se volevo continuare a stare con lei e fingere di non essere presente o ricominciare da capo.
Scrissi quel romanzo per ricominciare da capo, perchè avevo bisogno come l'aria di tornare a sentire tutti i lati di me che avevo seppellito da troppo tempo, e diedi inizio alla mia stagione più selvaggia e senza controllo.
Nel corso dei primi paragrafi del romanzo, uno dei tre protagonisti - che poi sono sempre lati di me - uccide con un colpo di fucile la moglie malata da tempo per porre fine alle sue sofferenze e partire con un vecchio e forse odiato compagno d'armi.
Ricordo di averlo fatto non tanto per dare sfogo ad una vendetta nei suoi confronti, o perchè avesse colpe superiori alle mie - e ne avevo, credetemi, molte più io -, ma quel passaggio mi fece respirare così tanto da farmi capire che quella storia era finita.
Ricordo anche quanta sofferenza c'era in lei quando mi chiese perchè "l'avessi uccisa" quando ebbe occasione di leggere il lavoro finito.
In realtà avevo ucciso la nostra storia, ma risponderle non è stato facile.
Pochi anni dopo, quando ebbi l'occasione e la fortuna, grazie al lavoro, di passare un pomeriggio come accompagnatore di Joe Lansdale durante un firmacopie, chiacchierando di scrittura si parlò di quanto finisca per essere importante per chi sta dietro la tastiera il fatto di essere presente nel suo lavoro, di non inventare più del necessario, perchè una pagina scritta e "sentita" è in grado arrivare al cuore di un lettore molto più di una preparata a tavolino.
Prima di essere letteralmente rapito dalla visione di Animali notturni - che è stata quasi metacinematografica, considerato che nel corso della sequenza dell'inseguimento tra le due auto nel nulla delle provinciali del profondo Texas un ragazzino ha perso il controllo della sua vettura nei pressi di casa Ford finendo contro il grande albero di fronte all'ingresso della stessa abbattendo completamente una parte del muro di mattoni che conduce al portone d'ingresso - pensavo, sbagliando, che Tom Ford, tutto stile e grandi cornici, fosse uno da tavolino pieno, e che con il cuore e la pancia c'entrasse poco o nulla.
Anzi, a dirla tutta, mi aspettavo per Animali notturni un destino simile a quello che negli ultimi giorni è toccato a The neon demon o Knight of cups.
Devo invece togliermi il cappello di fronte ad un'opera che senza dubbio è autoriale, stilosa, girata e fotografata con eleganza sopraffina, scritta con il bisturi ed interpretata da tutti i protagonisti impeccabilmente - per una volta Gyllenhaal non riesce a rubare completamente la scena -, ma anche torbida, calda, ipnotica, un cocktail riuscito alla perfezione che unisce Lynch, Jeff Nichols ed un finale che farebbe invidia al Wong Kar Wai dei giorni migliori.
Non è facile scrivere d'amore parlando di violenza e vendetta, e non è facile riuscire a liberarsi di un amore in modo così dirompente come riconoscendo che è finito, mettendolo su carta, venendo a patti con la propria sofferenza, con se stessi e con chi abbiamo avuto accanto.
Animali notturni, opera autoriale, stilosa, girata e fotografata con eleganza sopraffina, scritta con il bisturi ed interpretata da tutti i protagonisti impeccabilmente, è zero tavolino e cento per cento animalesca.
E' tutta la passione che nei primi giorni si mette nel sesso, e negli ultimi nell'odio per tutto quello che una storia può aver significato o significare.
Animali notturni sono denti affondati nel collo e unghie nella schiena.
Ma soprattutto, quel qualcosa che ti entra dentro, cuore e cervello, e sai che non ti lascerà più.
E non è quel qualcosa che vorresti. O che avresti voluto.
E' qualcosa che mostra tutto quello che pensavi non potesse essere vero.
Qualcosa cui puoi rispondere solo diventando cattivo come lei.




MrFord




martedì 22 novembre 2016

The neon demon (Nicolas Winding Refn, Francia/Danimarca/USA, 2016, 118')





Caro Nicolas Winding Refn, io ti ho sempre voluto bene, ho amato tantissimo molti - quasi tutti, a dire il vero - tuoi film, ma te lo devo proprio dire: se fossi la Liv cui è dedicato in chiusura The neon demon, ti manderei affanculo così tanto che dovresti ringraziare di non vederti rifatti i connotati a suon di parolacce.
Certo, la colpa è anche mia, che ho deciso in un giorno solo di farmi del male e vedere questo film dopo aver subito la tortura di Knight of cups, che conosco bene il Cinema di Lynch - cui questa roba deve molto, se non tutto - e spero sempre, una volta stabilito un certo legame con un Autore, di partire in vantaggio.
Certo, The neon demon è diretto e fotografato impeccabilmente, ma questo l'avrebbero saputo dire anche gli spettatori da centro commerciale la domenica.
Certo, è la prima volta che in cui mi tocca stroncarti, dunque avrei potuto anche essere più indulgente.
Ma proprio non ce la faccio.
Perchè The neon demon non solo è una merda fumante ben impacchettata, due ore di noia ed autoreferenzialità, ma un vero insulto - neanche l'avesse girato una delle mie nemesi come Lars Von Trier - a quelli che sono stati i veri Maestri della settima arte - resto convinto che se uno come Kubrick avesse visto la sequenza della tomba aperta con la truccatrice psicopatica all'interno nel mezzo del campo di fiori neanche fosse un quadro avrebbe preso Refn a calci in culo fino a fargli desiderare di essere sottoposto alla Cura Ludovico -: ho detestato questo film pur avendolo approcciato nella speranza di sbugiardare tutti quei critici che l'avevano fischiato a Cannes e dunque bersagliato all'uscita in sala, ne ho patito il ritmo, l'inutile scabrosità - che poi, a dirla tutta è un prodotto "scandaloso" solo sulla carta -, la vuotezza, la totale mancanza di empatia e passionalità, la voglia di raccontare una storia al pubblico o anche solo rapirlo, proprio come capita con le pellicole anche più ostiche del già citato Lynch - il paragone con un cult del livello di Mulholland Drive è impietoso -.
The neon demon è tutto quello contro cui lotto del Cinema da quando ho aperto il blog, il simbolo del ciarpame che mi sono lasciato faticosamente alle spalle dopo gli anni di formazione in cui più un lavoro era (apparentemente) complesso ed "artistico", meglio era, l'alternativismo spocchioso ed arricchito di registi ormai intossicati dalla tecnica e totalmente privi di idee interessanti e soprattutto della voglia di trasformarle in immagini.
Caro Nicolas, da queste parti non avrai i cuoricini della tua dedica.
E sappi che faccio questo anche per Liv, chiunque sia.
The neon demon,  per parafrasare un noto personaggio del Cinema nostrano, è una cagata pazzesca.
Considerato, però, che siamo al cospetto di un grande artista, cercherò di usare termini più adeguati: Refn, vaffanculo.
Con il cuore.
Tu e il tuo demone.
Nel caso ne sentissi il bisogno, qui c'è un esorcista pronto a prendere a calci rotanti entrambi.




MrFord




 

lunedì 21 novembre 2016

Trolls (Walt Dohrn&Mike Mitchell, USA, 2016, 92')




Credo che per ogni appassionato dei film Pixar o più in generale del Cinema d'animazione "alto", il fenomeno del "trailer che esaurisce tutto quello che potrebbe esserci di interessante in un film" sia piuttosto noto, specie quando si approccia una pellicola targata Dreamworks: la casa di produzione di origine spielberghiana, infatti, malgrado alcune idee ottimamente coltivate - i due Dragon Trainer, la saga di Shrek, quella di Kung Fu Panda - ha anche prodotto una serie piuttosto cospicua di titoli che, passando dal minuto scarso del trailer - per l'appunto - ai novanta circa di visione finiscono per tramutarsi da prodotti apparentemente spassosi ed interessanti a schifezze atomiche che fanno rimpiangere il tempo perduto.
A nutrire le fila di questa categoria già tendente all'obesità è Trolls, colorata, pacioccosa e buonista ultima opera Dreamworks incentrata sul rapporto tra i simpatici, ottimisti e canterini Troll - che poi, non erano creature spaventose piuttosto che una sorta di versione fluo dei nani da giardino!? - e gli spietati Bergen, perennemente arrabbiati e depressi con la speranza di provare la felicità soltanto nel momento in cui divorano un Troll neanche fosse un acido: quello che, dal trailer, nonostante le apparenze poco rassicuranti per il sottoscritto prometteva di essere un titolo fresco, musicale e quantomeno divertente si è trasformato in una visione noiosa, grondante banalità da favoletta, adattato in italiano in modo imbarazzante - ma perchè tradurre necessariamente i pezzi originali se non si pensa di portare a casa un risutato come quello di Nightmare before Christmas? - e come se non bastasse infarcita di hit del passato - e fin qui niente di male - messe insieme come a realizzare la soundtrack più inflazionata della Storia del Cinema recente.
Una robetta con i fiocchi ed i controfiocchi, insomma, che alimenta la repulsione del sottoscritto per i trolls dai capelli luminescenti che andavano forte se non ricordo male negli anni novanta e per i film d'animazione come questo che alimentano l'astio dei radical per le proposte buoniste o buone indipendentemente dalle stesse e l'ignoranza dei distributori che assegnano alle sale qualsiasi - e sottolineo qualsiasi - pellicola animata alla sola fascia pomeridiana: complimenti di conseguenza alla Dreamworks per l'ennesima trovata vuota e senza senso buona giusto per la vendita di merchandise - che probabilmente andrà fortissimo - e per il portafoglio di Justin Timberlake, che oltre a prestare la voce al protagonista maschile Branch piazza anche la sua recente hit Can't stop the feeling come pezzo di traino della campagna pubblicitaria e dello stesso film.
Unica consolazione, almeno per ora, è data dal fatto che pare che gli incassi non abbiano dato così tanta ragione - almeno al botteghino - al lavoro di Walt Dohrn e Mike Mitchell, segno che forse, una fuffa dopo l'altra, il film d'animazione che funziona solo con il trailer comincia a mostrare il fianco perfino al pubblico occasionale.
Non ci resta, a questo punto, che confidare nel futuro.




MrFord




 

domenica 20 novembre 2016

The mechanic: resurrection (Dennis Gansel, Francia/USA, 2016, 98')




Qualche anno fa, in pieno tripudio da Expendables, recuperai The mechanic, action "filosofico" con Simon West in regia e Statham nel ruolo del protagonista, pellicola che partì benissimo - considerato il genere spaccaculi - e deragliò con una seconda metà troppo "cerebrale" per essere adatta ad un prodotto di questo tipo.
Memore solo in parte della delusione, scoperto questo recente sequel pronto a riportare sullo schermo il killer/tuttofare/chimico/artista della fuga/spaccaculi professionista Bishop, ovviamente è scattato l'immediato recupero, forte non solo della conferma di Statham, ma anche della presenza nel cast di Tommy Lee Jones, da anni orientato su film decisamente più autoriali di questo: e pronti via, i primi dieci minuti con ambientazione carioca - ritroviamo il "meccanico" a Rio - paiono un vero tripudio, con il Nostro come al solito lupo solitario in cerca di una nuova vita anonima ma goduriosa rintracciato da un gruppo di belligeranti tirapiedi di un ex amico che vengono debellati alla grande prima che Bishop possa deliziarci con un paio di voli neanche fossimo in Rio - questa volta il cartone animato - tra cabinovie e parapendio.
Peccato che, dopo averci ingolositi e non poco, Gansel e gli sceneggiatori - soprattutto - cambino rotta riportando le atmosfere della seconda parte del primo film a galla, inserendo perfino una parentesi da storia d'amore che si addice poco e male non solo a questo tipo di prodotti - mica tutti possono essere Rambo 2, in fondo -, ma anche a Statham, a suo agio nell'approcciare Jessica Alba almeno quanto Cannibal Kid in un quadrato di wrestling.
Un vero peccato, perchè se questo Resurrection doveva rivitalizzare un charachter dalle enormi potenzialità limitato da sceneggiatori che paiono usciti dall'Università della mancanza di logica degli horror peggiori e produzioni di livello televisivo - e non sto parlando di livello televisivo in stile True detective, per intenderci - non ci è riuscito se non a sprazzi - la sequenza dell'assalto alla piscina "sospesa" del trafficante di armi e uomini a Sidney è una vera chicca in stile Mission: impossible -, finendo per portare in scena un titolo che è una manna dal cielo per tutti i radical potenziali detrattori del genere botte da orbi, che non esiteranno, nel caso in cui dovessero osare e resistere all'intera visione, a sparare a zero su tutto e tutti, da Gansel, a Statham, a Jones - truccato neanche fosse tornato ai tempi di Batman - fino ai già citati sceneggiatori, sui quali neppure io, da fan accanito di queste tamarrate action, sento che si possa fare qualcosa.
Restano dunque le evoluzioni di Statham in bilico tra acrobazie, arti marziali, spara spara e soprattutto lezioni di coltello - come già visto nel mitico secondo film della già citata trilogia degli Expendables, il ragazzone inglese con le lame ci sa fare parecchio - e poco altro, compresa la speranza che, nel caso in cui si decidesse di optare per un terzo film, ci si concentri più sull'aspetto ludico buttando magari anche un pò di logica in forno insieme ad esplosioni, calci nei denti e via discorrendo, sacrificando nel contempo filosofeggiamenti ed inutili quanto sterili avventure amorose.
Santo cazzo, è un action con Statham che dovrebbe rompere culi senza requie dal primo all'ultimo minuto, non una commedia romantica.
Come giustamente afferma George Washington Duke in Rocky V, "è ora di fare lavorare questi muscoli".
E non posso che sottoscrivere in pieno.




MrFord




 

sabato 19 novembre 2016

Preacher - Stagione 1 (AMC, USA, 2016)




Attendevo la serie dedicata a Jesse Custer ed ispirata alla serie a fumetti Preacher almeno quanto quella legata alle gesta di Hap e Leonard, paladini dei romanzi di Joe Lansdale.
La attendevo ancora di più perchè ideata e fortemente voluta dalla scuderia di Seth Rogen ed Evan Goldberg, probabilmente fan della prima ora dell'opera di Garth Ennis e Steve Dillon.
La attendevo perchè Preacher è una delle cose più fottutamente grandi che il Fumetto mi abbia regalato come lettore.
La attendevo perchè adoro ogni singola vignetta di questo titolo, e quello che avrei voluto è una serie che potesse valere quantomeno la metà dello stesso.
Peccato che non sia neppure lontanamente così.
Ora, io non vorrei fare il fondamentalista sostenitore dell'opera originale e detrattore accanito della trasposizione per piccolo o grande schermo, ma devo ammetterlo: questa versione di Preacher, per chiunque conosca il fumetto, sta all'originale quanto l'orrido Io sono leggenda con Will Smith al Capolavoro letterario al quale si sono "ispirati" per portare la stessa immondizia in sala.
Nulla, di quello che è lo spirito del lavoro di Ennis e Dillon, è rimasto nell'adattamento qui presente, dalla figura di Jesse Custer - che più che un eroe tormentato pare uno stronzo fatto e finito - o di suo padre, della mescolanza di charachters presenti in tutta la serie a fumetti condensati in questa prima stagione - dal Santo degli assassini a Odin Quincannon, tanto per citarne due -, dallo snaturamento di Tulip e Facciadiculo ad un tentativo maldestro di riproporre Cassidy in modo che, almeno per lui, i fan hardcore non rimpiangessero il sarcastico, alcolizzato e scombinato vampiro del Tarantino dei Comics Ennis.
La storia stessa non ha praticamente nulla a che vedere - o quasi - con l'originale, senza contare che, almeno per ora, alcuni passaggi tra i più interessanti dell'epopea di Custer - Fino alla fine del mondo resta uno dei miei capitoli preferiti della saga - sono stati mantenuti ai margini in attesa di tempi migliori che, per il sottoscritto, non faranno in tempo ad arrivare, considerato che ho deciso senza troppi rimpianti di abbandonare un titolo che non mi pare abbia nulla che possa trattenermi.
Anche senza contare i miei appunti da groupie dell'opera originale, infatti, ho trovato Preacher poco incisiva, a tratti perfino lenta, priva di una direzione vera e propria da assegnare ai suoi protagonisti o antagonisti, con troppa carne al fuoco per essere sviluppata in soli dieci episodi, o abbastanza per ingolosire l'audience ad attendere una seconda stagione che promette di essere incasinata - e non in senso buono - almeno quanto la prima.
Un vero peccato, perchè se c'è una materia che merita di essere sviluppata a dovere e creata per essere destinata a diventare un cult è proprio quella offerta dalle avventure del revedendo Jesse Custer, ospite umano di Genesis e combattivo rivale di Dio e di qualsiasi stronzo figlio di puttana cerchi o solo tenti di pensare che il Male possa trionfare sul Bene, anche quando il secondo è pronto a mascherarsi dal primo.
E se qui ci fossero Custer in persona, John Wayne o Genesis, non ci sarebbe parola per definire questa robetta che pare acqua calda al confronto di una bella birra ghiacciata, o un bourbon da competizione.
Dunque fanculo, Preacher all'acqua di rose della tv.
Torno felice agli albi che hanno riempito la mia crescita di lettore.




MrFord




 

venerdì 18 novembre 2016

Julieta (Pedro Almodovar, Spagna, 2016, 99')





Il mio nuovo periodo da "casalingo", per quanto impegnativo e minacciato all'orizzonte dall'ombra della disoccupazione, si sta rivelando una manna dal cielo per tutto quello che riguarda l'arricchimento emotivo e culturale: una bella pila di libri in attesa - per quando si può, come nel corso dell'ora di lezione di ginnastica artistica del Fordino del venerdì, ad esempio -, molte più serie tv, un ritorno al Cinema d'autore che negli ultimi mesi di lavoro era stato decisamente sacrificato in modo da avere serate più distensive e non a rischio di coma sul divano nel corso della visione.
Dunque, da Larraìn a Loach, ho potuto colmare alcune lacune accumulate nel corso della stagione, come l'ultima fatica di Pedro Almodovar, Julieta.
Per chi non lo sapesse, ho sempre amato il regista iberico, lontano come stile dai miei standard eppure in grado di riportare sul grande schermo quel pizzico di grottesco che la grande tradizione di un Maestro come Bunuel - uno dei registi più grandi di tutti i tempi - ha regalato alla settima arte: ci sono molte pellicole del Pedrone che nel corso degli anni hanno segnato profondamente il cuore di questo vecchio cowboy, da Carne tremula a Parla con lei, pronte a liberare il lato drammatico di un autore spesso legato anche alla commedia - esempio perfetto, lo splendido Donne sull'orlo di una crisi di nervi -.
Negli ultimi tempi, però, anche lui pareva essere caduto in quello stato di bollitura che coglie i registi nel momento in cui la necessità di raccontare una storia viene soppiantata da quella di essere necessariamente in sala come un nome su una locandina, e devo ammettere di aver avuto più di un dubbio rispetto alla visione di questo Julieta.
Fortunatamente per me, l'Almodovar qui presente è molto più simile a quello "classico", dei suoi film più riusciti ed intensi, e nonostante non ne raggiunga le vette, così come fu per La mala educacion porta sullo schermo una vicenda forte, calda, vibrante come l'emotività di un autore che trasuda passione come la terra dalla quale proviene: il racconto di Julieta, donna e madre, coraggiosa e fragile, ribelle ed arrendevole, è un altro tassello importante nella filmografia del regista, un altro percorso verso la rinascita che passa, inevitabilmente, attraverso una caduta, sesso liberatorio e prigioni sentimentali, sogni di vita ed incubi da provare sulla pelle, la provincia e la città, quello che eravamo e quello che siamo diventati.
Onestamente, sono stato davvero felice di farmi massaggiare ancora una volta dall'Almodovar più puro, dimenticando in questo modo scivoloni come Gli amanti passeggeri o La pelle che abito, e ricordando invece quelle che sono le certezze della sua produzione: certo, i vecchi fan come il sottoscritto non potranno considerare Julieta più di un gran bell'amarcord dei tempi andati, ma per chi non conosce ancora questo nome importante per il Cinema europeo potrebbe essere un ottimo inizio ed un veicolo niente male per solleticare la curiosità di ripercorrere la carriera del Pedrito, tornato a dimostrare di avere ancora qualcosa da raccontare e di saperlo raccontare con l'intensità che solo le più struggenti storie d'amore - e quella tra genitori e figli lo è, indubbiamente - possono garantire anche ai cuori più aridi.
E se la via che conduce a quello che potrebbe essere un nuovo inizio passa attraverso cadute, risalite, impennate e ferite, poco male: in fondo, è questo che accade nella vita.
E da queste parti, si è sempre pronti ad afferrarla e stringerla.
In questo senso, spero che possa essere lo stesso anche per Julieta.
E penso lo speri anche Almodovar.




MrFord