martedì 30 giugno 2015

Accidental love

Regia: Stephen Greene (David O. Russell)
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 100'




La trama (con parole mie): Alice, giovane cameriera di una cittadina dell'Indiana promessa sposa dello sceriffo locale, proprio nel momento di accettare la proposta di matrimonio nel ristorante più costoso della città è vittima di un incidente curioso che la porta ad avere un chiodo conficcato in testa senza avere la possibilità di avere un'assicurazione sanitaria che possa permetterle di essere operata.
Lo stesso chiodo le provoca reazioni sopra le righe, tanto da far fuggire il promesso marito e convincere la ragazza a tentare il tutto per tutto in un viaggio a Washington alla ricerca del politico Howard Birdwell, giovane deputato pronto ad elargire promesse senza badare troppo alle conseguenze.
L'incontro con quest'ultimo scatena una serie di eventi che arriveranno a sconvolgere la situazione politica degli States, ed ovviamente rappresenterà l'inizio di una nuova e travolgente storia d'amore.








C'era una volta un ottimo regista in grado di portare sullo schermo film dal respiro in pieno stile New Hollywood anni settanta filtrati attraverso una sensibilità moderna, di reinventare vetti attori ormai allo sbando - un certo Robert De Niro, mica bruscolini -, rendere star giovani promesse - Jennifer Lawrence - e far ricredere pubblico e critica rispetto a chi si pensava solo belloccio - Bradley Cooper -, lasciando il segno con The fighter e soprattutto Il lato positivo.
La consacrazione, poi, giunta con quest'ultimo, lasciava intendere un successo ed una crescita sempre maggiori di Russell: nonostante le star e la confezione impeccabile, però, già il successivo American hustle mostrava il fianco a numerose critiche, di fatto rappresentando un passo indietro a livello qualitativo della sua produzione.
Ed è a questo punto che, non saprei dire se per una sbronza un pò troppo pesante o un incidente fortuito come un chiodo rimasto impiantato nel cervello senza un Derek Sheperd pronto ad asportarlo a tempo di record e senza danni permanenti, è giunto l'alter ego Stephen Greene, pronto a firmare questo Accidental love, che vorrebbe ripercorrere i fasti della commedia slapstick dei tempi d'oro dei grandi Studios.
Peccato che, da Howard Hawks in avanti, si staranno con ogni probabilità tutti rigirando nella tomba, considerati i livelli di ridicolo involontario e trash senza ritegno raggiunti da uno degli obbrobri più agghiaccianti dell'anno, in grado a tratti di farmi rivalutare perfino roba come Cinquanta sfumature di grigio: passaggi come l'imbarazzante sequenza che vede Kirsty Alley tentare l'estrazione casalinga del chiodo dalla testa della nipote, il tentativo di soccorso del portavoce del senato soffocato dai biscotti delle giovani boy scout o il rituale nella foresta di Gyllenhaal per ritrovare la propria forza interiore entrano di diritto nell'Olimpo del peggio che il Cinema USA abbia riservato al suo pubblico negli ultimi anni, impedendo di fatto di poter essere sfiorati dall'idea che il tutto fosse un gigantesco scherzo orchestrato da Russell in modo da portare all'attenzione del grande pubblico uno dei temi più caldi della Storia politica degli States, ovvero la questione della sanità.
Ma non basta questo sforzo per rendere digeribile una delle produzioni più sguaiate, ridicole - non in senso divertente, purtroppo - e peggio recitate che ricordi, pronta a far precipitare le quotazioni anche di certezze come Jake Gyllenhaal, che di norma difficilmente sbaglia un copione, e lasciando come unici momenti consolatori per i maschietti i momenti più "scatenati" di Jessica Biel e per le fanciulle lo stesso Gyllenhaal coperto solo da una sorta di perizoma di pelle di fronte ad un fuoco da campo.
Troppo poco, però, per chiedere il sacrificio di un'ora e quaranta di tempo che si potrebbe investire in una sequela di attività decisamente più interessanti rispetto alla visione di questo film, dal sesso, ad una mangiata, ad una sbronza ben orchestrata: sperando, ovviamente, che quest'ultima non generi anche in noi uno Stephen Greene pronto a tirare fuori il peggio che abbiamo immaginato.
Ed anche quello che non ci saremmo neppure sognati.



MrFord



"So she said what's the problem baby
what's the problem I don't know 
well maybe I'm in love (love) 
think about it every time
I think about it
can't stop thinking 'bout it."
Counting Crows - "Accidentally in love" -





lunedì 29 giugno 2015

Maggie - Contagious: epidemia mortale

Regia: Henry Hobson
Origine: USA, Svizzera, UK
Anno: 2015
Durata: 95'





La trama (con parole mie): siamo nella provincia rurale americana non lontani da Kansas City, in un presente straziato da un'epidemia che giorno dopo giorno rende i contagiati simili a veri e propri zombies. Il governo, attraverso la polizia e gli ospedali, si preoccupa di prelevare chi, al termine dell'incubazione, è sul punto di trasformarsi definitivamente per condurlo ai centri di quarantena, dove i soggetti vengono, di fatto, condotti alla fine.
Quando la teenager Maggie viene morsa e contrae l'infezione suo padre Wade ottiene come favore dal capo della polizia locale di portare la ragazza a casa e tenerla sotto osservazione fino a quando dovrà essere necessariamente portata in quarantena, organizzandosi in modo da trasferire a scopo precauzionale gli altri due figli, avuti da un secondo matrimonio, a casa di una zia.
Maggie e Wade, dunque, finiscono per passare insieme le ultime settimane di coscienza della ragazza.








Non troppo tempo fa, grazie al sempre mitico Bradipo, venni a sapere dell'uscita oltreoceano di un film che, sulla carta, aveva tutte le carte in regola per essere amato qui al Saloon: minutaggio più che onesto, Schwarzenegger, zombies ed Abigail Breslin, indimenticata e fin troppo cresciuta Olive di Little Miss Sunshine. Come se non bastasse, il suddetto Bradipo finiva per promuovere la pellicola, lasciando dunque che l'hype del sottoscritto in merito aumentasse a dismisura.
Visione alle spalle, ed uscita italiana clamorosamente avvenuta - con un titolo che è un vero e proprio affronto all'intelligenza umana -, non posso che trovarmi a confermare pienamente quelle che erano le migliori aspettative della vigilia: Maggie è un film di zombies atipico - chi si aspetta Schwarzy pronto a fare fuori morti viventi a frotte tra colpi d'arma da fuoco, cazzotti ed esplosioni ha sbagliato decisamente indirizzo -, la storia toccante di un lungo addio in grado di raccontare, prima ancora dell'epopea horror dei protagonisti e della cornice in cui vivono, il rapporto tra un padre ed una figlia, il superamento del dolore, la presa di coscienza rispetto alla malattia e alla morte.
Tematiche, dunque, decisamente reali e quotidiane sfruttate per dare una nuova interpretazione ad un genere che, di norma, riserva esclusivamente grandi massacri gore, ritmi forsennati e fiato sul collo: ovvero tutto quello che non troverete nel lavoro di Henry Hobson, pronto a stupire - in positivo - con tempi dilatati che trovano nella sfida rappresentata dal granitico Arnold pronto a piangere sulla scena il momento di maggior thrilling della pellicola, incentrata al contrario sui sentimenti che guidano i protagonisti verso l'inevitabile - e certo non conciliante - conclusione.
Una storia di genitori e figli - ottima l'evoluzione del rapporto tra Maggie e la sua madre acquisita, seconda compagna di Wade, e con il fratello e la sorella minori -, di teenagers - basta la manciata di minuti della gita con gli amici per descrivere le angosce ed i timori di un'età tra le più difficili della vita -, di dolore e soprattutto gestione dello stesso, dalle angosce e dalla maturazione della giovane protagonista alla presenza - non si potrebbe definire altrimenti - del padre, culminata nella sequenza - forse la più horror dell'intera pellicola, per certi versi - dell'ultimo saluto prima della scelta che conduce all'epilogo.
Per certi versi, volendo attribuire a questo film una profondità d'essai, si potrebbe quasi pensare che l'autore ed il regista abbiano scelto di sfruttare l'argomento zombie per affrontare un tema decisamente attuale e scottante  come quello dell'eutanasia, a braccetto con la morte ed i rapporti che legano indissolubilmente insieme al sangue: l'accenno alla situazione del vicino di Wade, pronto a non denunciare la malattia di moglie e figlia per tenerle accanto nonostante la loro trasformazione è emblematico, in questo senso.
La stessa Maggie, in bilico tra quello che è stato, il ricordo della madre, il rapporto con il padre, quello che avrebbe potuto essere, la coscienza di tutte le possibilità che i suoi coetanei non contagiati potranno avere pur in un mondo segnato da una pestilenza come quella che l'ha colpita, è un charachter che non si dimentica facilmente: forte e fragile, piccola piccola quanto adulta.
In un certo senso, è così che siamo tutti, di fronte alla fine.
Testardi e vulnerabili, i bambini che eravamo e gli adulti che, in una certa misura, siamo costretti a diventare.
In un anno in cui è stato incensato decisamente troppo un presunto - e finto - cult come It follows, Maggie - nonostante il giudizio e l'accoglienza tiepidi, ed alcune ingenuità nella realizzazione e nello script - rappresenta decisamente meglio del suo più illustre - almeno sulla carta - compagno di genere un'alternativa unica e potente, un nuovo modo di vedere l'horror senza dimenticare, per questo, la sua tradizione.
Perchè l'horror non è che lo specchio deformato e deformante della nostra quotidianità.
E non sempre quello che la stessa riserva fa meno paura.




MrFord




"When your lost
I am found
when you slip
I hold my ground
when I fall
please take a bow
and when you're up
just remember I am down."
The Black Crowes - "By your side" - 





domenica 28 giugno 2015

Miami Vice

Regia: Michael Mann
Origine: USA
Anno: 2006
Durata: 131'




La trama (con parole mie): Sonny Crockett e Ricardo Tubbs sono due detectives della polizia di Miami legati a doppio filo alle operazioni sotto copertura volte a portare allo scoperto traffici illeciti, dalle armi alla droga. Quando un loro agente viene compromesso a causa dell'intrusione dell'FBI i due vengono reclutati dall'agenzia affinchè si infiltrino spacciandosi per corrieri in un'organizzazione che fa capo ad un colombiano di nome Yero, che pare sia uno dei pesci più grossi del continente.
Una volta entrati nel giro, però, Crockett e Tubbs vengono a conoscenza di un livello ancora superiore a quello portato appena sotto la superficie dallo stesso Yero, ed entrati in contatto con Isabella e Montoya, vertici dell'organizzazione, tenteranno di smantellare la stessa dall'interno: il legame sempre più stretto tra Sonny e Isabella e l'odio di Yero per l'infiltrato, però, finiranno per complicare le cose.








Se dovessi pensare ad un'ipotetica classifica dei miei registi americani - viventi, sia chiaro - favoriti, Michael Mann si giocherebbe senza dubbio le prime posizioni con Maestri del calibro di Eastwood, Scorsese e Cimino: eppure, riflettendo proprio in merito ai nomi che abiterebbero i piani alti dell'ipotetica lista, forse il suo è quello che finirebbe per doversi sudare più degli altri non tanto il fatto di essere dove si trova, quando di essere amato in termini cinefili.
Ho impiegato anni - e visioni -, infatti, per riuscire a comprendere appieno la grandezza di Mann e del suo Cinema: ricordo quanta fatica feci la prima volta che affrontai Heat - La sfida, o con quanta diffidenza approcciai più di recente Collateral e questo stesso Miami Vice, salvo poi ricredermi ed aumentare non solo la percezione delle pellicole stesse, ma il loro valore passaggio dopo passaggio su questi schermi.
Proprio Miami Vice, nato dall'idea che fu alla base della nota serie tv - firmata dallo stesso Mann nei primi anni della sua carriera ed ormai cult imprescindibile legato agli anni ottanta -, mi lasciò abbastanza freddo ai tempi della prima visione in sala, quasi come fosse una sorta di fratello minore del già citato Collateral, tutto fotografia, riprese pazzesche e colonna sonora perfetta: valutazione clamorosamente sbagliata.
Perchè Miami Vice è un trionfo non solo di tecnica e stile, ma un omaggio strepitoso ad un genere purtroppo ormai relegato a tentativi isolati, un hard boiled d'altri tempi in grado di regalare passaggi action mozzafiato, caratterizzazioni immediate - come già avvenne per Heat - ed atmosfere uniche: in questo senso, da Miami alle cascate di Iguazu, passando per il bacino centro americano, questa pellicola è assolutamente perfetta sotto ogni punto di vista.
Se, poi, alla cornice vengono associati scambi come quello tra il Sonny di Colin Farrell e la Isabella di Gong Li prima del viaggio in motoscafo verso L'Havana pare quasi di deporre le armi senza neppure lottare rispetto alla potenza di un prodotto che racconta la durezza della strada e del confronto tra poliziotti e criminali - da entrambe le parti dipinti come uomini, con i loro difetti ed i talenti a fare da contrappeso - sfruttando una partenza a razzo ed una chiusura assolutamente perfetta nel suo essere aperta, quasi incompiuta, nella scelta di Crockett di rimanere accanto a quella che è la sua famiglia a scapito di quello che potrebbe essere l'amore.
Da questo punto di vista, Miami Vice - come il recente Blackhat - ricorda da vicino il melò dell'action di Hong Kong e dei grandi registi orientali, che ai proiettili non dimentica mai di associare struggenti legami dal sapore di Classico e sesso così vero da farlo sentire sulla pelle - Tubbs e la compagna sotto la doccia e a letto, Crockett e Isabella all'interno della macchina -, un marchio di fabbrica da passato remoto portato sullo schermo sfruttando mezzi e tecniche assolutamente all'avanguardia.
Senza dubbio a Mann non interessa piacere, così come ai suoi protagonisti: eppure Miami Vice entra sottopelle, da qualsiasi angolazione lo si guardi o lo si viva, che ci si senta più vicini alla razionale struttura di Tubbs o all'improvvisato charme di Sonny, che si preferiscano i proiettili e la mano pesante dei neonazisti o gli intrighi quasi politici dei grandi trafficanti internazionali.
E' prendersi il tempo di un mojito alla Bodeguita prima di buttarsi in un conflitto a fuoco che potrebbe significare morte certa.
E' il ruggito di un fucile d'assalto, o quello di cascate che mostrano la potenza di chi vive al di sopra di tutto. Ordine o Caos che siano.
E Michael Mann è così.
Ordine e Caos.
Tecnica e istinto.
Fortunatamente, il risultato è lo stesso: grande Cinema.



MrFord



"So come pull the sheet over my eyes
so I can sleep tonight
despite what I've seen today.
I found you guilty of a crime, of sleeping at a time
when you should have been wide awake."

Audioslave - "Wide awake" - 





sabato 27 giugno 2015

Orange is the new black - Stagione 2

Produzione: Netflix
Origine: USA
Anno: 2014
Episodi: 13




La trama (con parole mie): per Piper Chapman la vita dietro le sbarre non procede propriamente tranquilla. A seguito dello scontro con Pennsatucky, infatti, la donna è stata costretta ad un periodo in isolamento cui fa seguito una trasferta legata al processo dell'ex boss per il quale lavorò l'ex fidanzata Alex Vause, responsabile della sua reclusione.
Quando proprio le dichiarazioni di quest'ultima separano di nuovo le loro strade e Piper fa ritorno alla sua "casa" dietro le sbarre, si troverà ad affrontare i cambiamenti nella geografia sociale delle detenute, dal nuovo ruolo della stessa Pennsatucky al progressivo potere assunto dalle afroamericane, guidate dalla temibile Vee, pronta a tutto per riprendere il controllo della prigione che, in gioventù, l'aveva già ospitata.
Come si evolveranno, dunque, le vicende? E cosa accadrà alla tornata in libertà Alex?






Una delle sorprese più piacevoli della scorsa stagione del piccolo schermo fu un titolo in grado di unire l'approccio "in rosa" di Julez alla necessità di dosi robuste di sesso, violenza, linguaggio scurrile ed un'ambientazione carceraria che non fa mai male come spesso e volentieri ricerca il sottoscritto: Orange is the new black.
Partita in sordina, infatti, con il crescendo finale la prima stagione del serial che vede la "brava ragazza" Piper Chapman costretta a vivere dietro le sbarre - con tutte le conseguenze del caso, da quelle sociali e legate ai rapporti con l'esterno a quelle con le quali ci si trova necessariamente a dover fare i conti all'interno - era riuscita ad alzare l'asticella delle aspettative per l'annata numero due, che purtroppo, a conti fatti, pur risultando molto interessante non si è rivelata altrettanto potente: fatta eccezione, infatti, per l'ascesa di Vee ed i conflitti razziali all'interno del carcere - charachter notevole, quello della perfida matrona afro, che tiene sulle spalle l'intera annata - e gli episodi dedicati a Miss Rosa - splendido il season finale, un concentrato di malinconia e desiderio sfrenato di libertà, oltre a quel "è sempre stata una maleducata" che chiude alla grandissima una vicenda che pareva non avere fine -, il resto pare campare del credito guadagnato l'anno precedente, a partire dalla scarsa presenza di Laura Prepon/Alex Vause - per il dispiacere di Julez, che l'ha ormai eletta a suo sogno erotico femminile - ad un ridimensionamento della follia di un charachter potenzialmente stupefacente come Pennsatucky, senza contare il muoversi ai margini di Nichols e Diaz, che paiono essere rimaste in qualche modo prigioniere dei loro archetipi.
Unico scossone effettivo il cambio di direzione nel carcere, che promette scenari interessanti rispetto alla prossima stagione, sia in positivo che in negativo: nel complesso, però, un'annata che pare di transizione, per Piper e le sue compagne di sventura, che soddisfa ma non lascia con la sensazione di aver assistito a tredici episodi memorabili almeno per la serie stessa.
Non voglio però apparire troppo severo, rispetto a Orange is the new black, che ha il merito di mostrare - ed è assurdo negarne l'esistenza - le palle dell'altra metà del cielo in un contesto insolito - almeno per quanto riguarda le proposte in rosa - senza dimenticare intrecci che toccano i massimi sistemi - amicizia, amore, desiderio di vivere ed affermarsi in quanto individui - senza drammatizzare troppo, mantenendo risvolti grotteschi e noir che non hanno nulla da invidiare ai capisaldi di genere.
Il lato più interessante di OITNB resta la volontà di umanizzare le detenute senza comunque dimenticare le loro inclinazioni o colpe, in modo che possano essere considerate umane ed in quanto tali, forse, destinate a legare i loro destini al "lato oscuro": l'esempio della già citata Miss Rosa è lampante, ma la stessa Piper, soprattutto nel corso del permesso ottenuto per assistere ai funerali della nonna, nota quelle che sono le differenze tra chi ha vissuto dall'altra parte del confine e chi si è visto negare uno degli aspetti più importanti dell'esistenza di una persona: la libertà.
Ed è bello, anche quando fa male, scoprire che non si deve fingere che la colpa non esista, o pretendere di essere perfetti ed integerrimi: come i detenuti cantati dalle canzoni di Johnny Cash, queste donne sono, dalla prima all'ultima, profondamente umane.
Ed è questa la loro forza, tanto quanto la loro debolezza.
Perfino quando si tratta di un'eminenza più che grigia come Vee.
L'unico accorgimento da tenere è quello di cercare di essere educati.
Perchè non si sa mai di quale "reaper" andremo ad incrociare il cammino.



MrFord



"Valentine is done
here but now they're gone
Romeo and Juliet
are together in eternity..."

Blue Oyster Cult - "(Don't fear) the reaper" -






venerdì 26 giugno 2015

Forza maggiore

Regia: Ruben Ostlund
Origine: Norvegia, Svezia, Francia, Danimarca
Anno: 2014
Durata: 120'





La trama (con parole mie): una famiglia benestante svedese, in vacanza per la settimana bianca in un lussuoso residence delle Alpi francesi, assiste nel corso di un pranzo sulla terrazza panoramica della stazione sciistica ad una valanga che giunge ad infrangersi proprio ai piedi della terrazza stessa, generando il panico in tutti i presenti.
Quando, all'avvicinarsi della stessa, il padre Tomas fugge prendendo con se soltanto il telefono abbandonando moglie e figli, la donna comincia a domandarsi quale potrebbe essere il destino del loro rapporto. E' l'inizio di un confronto silenzioso e terribile tra i due coniugi, che coinvolge anche una coppia di amici e, ovviamente, i due figli, entrambi sconvolti dall'accaduto e dalla tensione tra i genitori.






Dopo tutti questi anni di Saloon, bevute e bottigliate, molti di voi sapranno quanto il sottoscritto sponsorizzi il pane e salame, l'istinto, la pancia rispetto alla razionalità pura, l'algida freddezza di chi riesce, sempre e comunque - o quasi - a rimanere distaccato come un chirurgo.
Di fatto, forse perchè io sarei più un macellaio, che non un perfezionista del bisturi.
Proprio per questo, l'approccio all'opera di registi cosiddetti freddi come Haneke, Lanthimos e soci richiede al sottoscritto uno sforzo maggiore per trovare la scintilla nella pellicola che sta affrontando ed ai registi stessi un valore aggiunto che permetta di superare la diversità di approcci alla vita ed arrivare a colpire nel profondo comunque.
Forza maggiore, giunto sugli schermi del Saloon spinto proprio dagli accostamenti ai cineasti succitati e dalle critiche positive giunte nel corso di tutta l'ultima stagione, aveva di fatto lo stesso compito: Ruben Ostlund, discretamente giovane regista norvegese, riesce nell'impresa solo a metà, confezionando un prodotto molto affascinante visivamente ed in grado di colpire almeno fino al giro di boa della metà del minutaggio per poi avvitarsi su se stesso nella parte finale, quella che avrebbe dovuto essere risolutiva ed invece non trova il coraggio di inserirsi in un ambito di riscatto positivo o totale disperazione negativa.
Senza dubbio un peccato, perchè a partire dall'utilizzo della musica, dalla fotografia e dalla scelta delle inquadrature, passando per l'impressionante sequenza della valanga ed il crescendo di tensione tra Tomas ed Ebba culminato con il confronto con la coppia di amici giunta pochi giorni dopo l'incidente gli interrogativi sul concetto di amore e famiglia, così come la decostruzione degli stessi concetti, risultano assolutamente convincenti e gestiti con la forza ed il coraggio che spesso sono stati associati a grossi calibri della narrazione entomologica: a partire, però, proprio dalla separazione con gli amici nella serata della frattura più profonda tra i due protagonisti, tutto pare progressivamente perdere mordente tra sequenze assolutamente inutili - la festa selvaggia nella notte dopo il ritorno di Tomas dalla sua giornata off dalla famiglia - ed un finale assolutamente poco incisivo, che onestamente non sono riuscito a collocare come una sorta di visione di speranza rispetto al contatto umano ed alla voglia di ricominciare o un'ulteriore critica al nucleo familiare ed alla sua importanza nella società.
Nel corso della seconda parte, tolta la partecipazione del Kristofer Hivju diventato un idolo di Julez in Game of thrones, ed i paesaggi innevati mozzafiato - soprattutto le riprese del giro fuori pista di Tomas e Mats - poco resta della potenza del messaggio iniziale, del confronto tra il proprio istinto di sopravvivenza e la salvezza delle persone che amiamo, e dell'utilizzo della metafora del disastro naturale come specchio di un rapporto che si incrina, e che non è affatto semplice cercare di ricostruire dalle macerie.
Non è, dunque, una bocciatura, quella di Ostlund e di Forza maggiore, quanto più una sospensione di giudizio in attesa di scoprire, un pò come accade rispetto alla famiglia protagonista, quale direzione prenderà il futuro: valanghe o no, onestamente spero che la prossima volta si possa parlare di lui come di un potenziale grande nome del Cinema da bisturi che tanto è lontano dal mio caro pane e salame tagliato spesso con un coltellaccio da cucina.



MrFord



"And you love the little signs of life
you love it when we lose our minds
you love these little wars of words
you love it when they call your name."
Snow Patrol - "The weight of love" - 




giovedì 25 giugno 2015

Thursday's child

La trama (con parole mie): l'estate è ormai esplosa anche sul calendario, si comincia a pensare alle vacanze e si cerca ristoro anche mentale nelle visioni. La settima arte, però, conferma il trend negativo del duemilaquindici e, che si tratti di proposte d'autore o blockbusteroni giocattolo, non sembra protagonista di una delle sue stagioni migliori: dunque, di fatto, si finisce per doversi accontentare di sequel poco convincenti e del ritorno sul grande schermo di uno dei paladini del Saloon.
Ovviamente non parlo del mio sgradito compare Cannibal Kid, ma di Arnold Schwarzenegger.
Riuscirà il buon vecchio Conan a cambiare i destini di un weekend un pò spento?


"Cannibal, ho deciso di terminarti."
Ted 2

"Un'altra lettera d'amore per te da parte di Cannibal Kid. Proprio non si vuole arrendere."
Cannibal dice: Ted 1 si è rivelata per me una delle commedie più esilaranti degli ultimi tempi. Riguardo a Ted 2 però ho una brutta sensazione. Seth MacFarlane finora non mi ha mai deluso particolarmente, ma questo sequel mi sa tanto di minestra riscaldata.
E poi non c'è più Mila Kunis, rimpiazzata da new-entries come l'insipida Amanda Seyfried e l'insopportabile Liam Neeson... Ma si può?
È come sostituire Cannibal Kid con James Ford e Giacomo Festi, uahahah!
Ford dice: il primo Ted, per quanto simpatico, non era nulla più di una commediola da neuroni spenti. MacFarlane, poi, ha prodotto uno dei film più brutti degli ultimi anni, Un milione di modi per morire nel West.
Le aspettative rispetto a questo secondo Ted, dunque, sono bassine, ma in questo periodo ci potrebbe anche stare.




Contagious - Epidemia mortale

"E tanto per essere sicuro, ti termino una seconda volta."
Cannibal dice: Il nuovo film con Arnold Schwarzenegger. No, non l'atteso (ma da chi?) nuovo Terminator, bensì questa pellicola zombie di cui vi parlerò presto, molto presto...
Ford dice: a prescindere dal ridicolo titolo italiano, Maggie è stata una vera e propria rivelazione. Si parla di zombies e di Schwarzy, ma non aspettatevi il consueto action tutto esplosioni e morti ammazzati.
Sarà un bene o un male? A brevissimo la risposta di White Russian.




Ruth & Alex - L'amore cerca casa

"Coltivo i pomodori per Ford: con tutti quelli che mangia, non bastano mai!"
Cannibal dice: Morgan Freeman + Diane Keaton in uno di quei film per la terza età di cui l'anti-teen Ford andrà pazzo. Io invece torno alle mie pellicole adolescenziali, probabilmente più sceme, ma sicuramente anche più divertenti.
Ford dice: tipica commedia da terza età come ne sono uscite parecchie negli ultimi anni. Non essendo una tamarrata action, però, non mi attira per nulla.




Big Game - Caccia al presidente

"Hey, Peppa, ricordami di non accettare più l'invito di Ford per un weekend in montagna."
Cannibal dice: Film che si annuncia una big cazzatona, e pure una big fordianata action. Considerando però che il clima estivo invoglia a vedere porcatone disimpegnate come questa, non escludo del tutto la possibilità di una visione. E non escludo nemmeno la possibilità di dare la caccia al presidente di WhiteRussian.
Ford dice: sarà pure un action, ma ormai Samuel Jackson è garanzia di cagata neppure si trattasse di Johnny Depp. Passo più che volentieri.




Bota Cafè

L'eremo in cui si rifugia Cannibal Kid. Sul tetto, l'auto di Ford dopo un parcheggio improvvisato.
Cannibal dice: Pellicola albanese che dal trailer sembra più interessante di un prodotto italiano medio. Non credo di aver mai visto un film albanese in vita mia, al massimo ne ho visto qualcuno di Antonio Albanese, questa potrebbe essere – fooorse – l'occasione per rimediare. Di certo Bota Cafè è sempre meglio che andare a prendere un caffè con Mr. Ford. Anche perché io non bevo caffè.
Ford dice: essendo estate ed avendo, di fatto, solo voglia di sole, sbronze, mare e film disimpegnati, passo.
Resto più che altro stupito che la mia nemesi per eccellenza, come me, non beva caffè.




Violette

"Dici che siamo più chic di Katniss Kid?" "Vestite così non credo, sembriamo più le nonne di Ford!"
Cannibal dice: Violette non è il film su Violetta, l'idolo delle teenagers e di Mr. Ford, bensì una pellicola franco-belga sul femminismo che sembra più noiosetta che radical-chic. Però mai sottovalutare il cinema franco-belga.
Ford dice: dopo Alabama Monroe, qualsiasi cosa venga dal Belgio finisce per ispirarmi, eppure in questo caso sento puzza di radicalchiccata che in questo periodo dell'anno sta al Saloon quasi peggio del Cannibale.




Crushed Lives - Il sesso dopo i figli

"Smettetela di guardarci, voi due blogger! Siamo già abbastanza incasinati con i figli!"
Cannibal dice: Per il sesso dopo i figli non c'è bisogno di vedere questo film che non promette niente di buono. Basta chiedere a Ford.
E la vera risposta che dovrà darvi sarà: niente sesso dopo i figli, ah ah aaah!
Ford dice: il sesso dopo i figli è un argomento particolare, perchè di fatto finisce per riportare ai tempi in cui si faceva di nascosto dai genitori.
Preferisco, comunque, vivermi il sesso dopo i figli, che vedere film che non mi attraggono neanche per sbaglio.




Noi siamo Francesco

"Ammazza! I piedi mi puzzano più della tana del Fordosaurus Rex!"
Cannibal dice: E io no. E soprattutto, grazie a Iddio, non sono nemmeno Fordesco.
Ford dice: neanche io. E grazie a tutti gli dei, non sono Cannibalesco.



mercoledì 24 giugno 2015

Kurt Cobain - Montage of heck

Regia: Brett Morgen
Origine: USA
Anno:
2015
Durata: 145'
 





La trama (con parole mie): infanzia, traumi, crescita, ascesa, successo e morte del mito del grunge e del rock Kurt Cobain, che prese per mano e a schiaffi la musica svegliandola dal sogno degli anni ottanta per traghettarla nell'infinite sadness dei novanta.
Un ragazzo nato e cresciuto nella tranquilla provincia americana, ossessionato dal desiderio di non essere umiliato e dalla voglia di costruirsi una vita normale che normale, di fatto, non sarà mai: dal divorzio dei genitori al continuo rimbalzare tra le case dei parenti sempre troppo presto stufi di lui, dal disagio della scuola alle prime esperienze con la chitarra e la marijuana, dai lavori occasionali alla formazione dei Nirvana, band destinata ad assurgere ad una fama mondiale che, probabilmente, Kurt e i suoi compagni non si aspettavano neppure lontanamente di conquistare.
Ed il rapporto con lo stardom, i fan, la droga, Courtney Love, la musica, la figlia, la morte.








Il mio rapporto con Kurt Cobain è sempre stato piuttosto conflittuale.
Se, da un lato, artisticamente non ho mai messo in discussione il suo talento, la capacità che ha avuto di distruggere un intero decennio e porre le fondamenta per un altro, la rabbia e la passione portate sul palco e tra le note, dall'altro ho sempre trovato estremamente fastidiosa la sua scelta di abbandonare il campo nel momento in cui aveva fama, ricchezza, fan adoranti pronti a seguirlo, una figlia praticamente appena nata, la giovinezza e la bellezza.
Per colpa della sua decisione, probabilmente, i Nirvana, un gruppo rivoluzionario per la Storia della Musica, rimarranno sempre imprigionati nella loro epoca, incapaci, dal sound alla portata, di uscire dai confini che Cobain stesso aveva tanto lottato e desiderato oltrepassare.
Brett Morgen, da questo punto di vista, racconta molto bene la schizofrenia artistica - e non solo - del leader dei Nirvana, un gruppo di ragazzi che, dalla Seattle capitale del grunge, sconvolsero il mondo della musica nei primi anni novanta come un vero e proprio tornado, che ricordo prendere forma nelle aule del liceo ai tempi del mio primo anno, lo stesso che vide la drammatica morte dello stesso Cobain, a soli ventisette anni, a cavallo tra un destino segnato dal numero nella storia del rock ed i miei compagni di classe in lacrime come se fosse venuto a mancare loro un fratello maggiore, un simbolo, un'icona.
D'altro canto, l'operazione non appare, per quanto affascinante, riuscita e potente come avrebbe potuto essere, complici una durata a mio parere eccessiva ed i troppi inserti animati - visivamente ipnotici, senza dubbio, ma fin troppo presenti rispetto alla componente determinata dai filmati di repertorio e dalle interviste - pronti a sacrificare dettagli interessanti come il fatto che Novoselic compaia sempre visibilmente commosso, mentre Dave Grohl non sia presente nella componente "attuale" del film, complici probabilmente i numerosi problemi avuti dai due ex compagni di Kurt con la Yoko Ono dei Nirvana, Courtney Love, in termini economici ed umani.
E potrei continuare ad analizzare in termini critici la visione di Montage of heck, che è risultata se non altro efficace nel fotografare un vero e proprio mito del rock e la sua epoca, ma non ci riesco.
Perchè ho patito tantissimo, la visione di questo film.
Perchè io detesto profondamente Kurt Cobain.
Io amo la vita, faccio dell'esperienza e del godere della stessa una bandiera ed un monito, mi prefiggo di rimanere da queste parti e saldamente fino a centotre anni, se non oltre, lotto ogni giorno per vincere la stanchezza, il sonno, le possibili delusioni, qualsiasi cosa riservi la quotidianità.
E se a ventisette anni neppure fossi stato un dio del rock, con un viso d'angelo, il mondo ai miei piedi, soldi a palate, una bimba appena nata, una strada appena all'inizio, la possibilità ed il talento per avviare una vera e propria rivoluzione culturale, tutto avrei pensato, tranne che di farla finita.
Io detesto Kurt Cobain perchè trovo che sia un vigliacco, uno stronzo, un poser del cazzo che si è seduto sui traumi di una crescita difficile come l'hanno, l'hanno avuta e l'avranno tanti privi di un briciolo del suo talento.
Che pure continueranno ad andare avanti.
Troppo facile dire che l'importante è continuare a fare la propria musica, e che non importa del successo.
Troppo facile farsi schiacciare dallo stesso.
Troppo facile desiderare una famiglia e poi permettere che la propria figlia nasca tossicodipendente.
Troppo facile, caro Kurt.
Un pò come scappare.
Un pò come farla finita.
E sappi che se fossi qui ora, ti prenderei a schiaffi.
Lo farei con il mio amico Emiliano, che ha fatto la tua scelta, quindi figurati cosa farei con te, considerata l'empatia che provo rispetto alla tua posizione.
Caro Kurt, sarai anche stato un ragazzino, sarai stato solo, o rifiutato, o quello che vuoi, ma solo a guardare il filmino di te e Courtney intenti, marci secchi, a tagliare i capelli di vostra figlia poco più che neonata, fa salire in me una rabbia che si mangia tutti i tuoi stronzi sfoghi sul palco.
Vaffanculo, Kurt Cobain.
Sei stato un meraviglioso, dirompente, fulgido fuoco di paglia.
Io sto con Dave Grohl.
Che è cambiato, è cresciuto, è andato avanti.
E oggi, nel duemilaquindici, si rompe una gamba saltando dal palco durante un concerto, e dice "aspettatemi, torno a suonare per voi", va in pronto soccorso, si fa ingessare, e torna a finire il live.
Questa è passione.
Onestamente non so per quale motivo non abbia partecipato a questa celebrazione.
O almeno, alla parte di Montage of heck che ti celebra.
Ma mi piace pensare che dissenta.
Perchè è giusto che si testimoni la tua grandezza.
Ma non ci sto a festeggiare la stessa.
Perchè tu non sei stato grande.
Sei stato solo un ragazzino dal potere troppo grande per le sue piccole mani.
Sei stato il Joffrey Lannister del rock.
E quelli come te, dalle mie parti, è meglio che si facciano vedere il meno possibile.




MrFord




"I'm so happy 'cause today
I've found my friends ...
they're in my head
I'm so ugly, but that's okay, 'cause so are you ...
we've broken our mirrors [Alt: We broke our mirrors]
sunday morning is everyday for all I care ...
and I'm not scared
light my candles, in a daze
'cause I've found god."
Nirvana - "Lithium" - 




martedì 23 giugno 2015

Pitch perfect 2

Regia: Elizabeth Banks
Origine: USA
Anno: 2015
Durata:
115'





La trama (con parole mie): le Barden Bellas, alle spalle un'esibizione a dir poco sconvolgente al Lincoln Center di fronte al Presidente Obama che è costata loro reputazione e luci della ribalta, si ritrovano a dover affrontare il lento e difficile percorso della rivincita reso ancora più complesso dall'avvicinarsi del momento della laurea per la maggior parte delle protagoniste di tre anni di vittorie ai Campionati Nazionali, dall'allontanamento di Beca, desiderosa di intraprendere la carriera di produttrice musicale, e dall'inserimento di volti nuovi dall'energia spesso non ben gestita.
Quando l'opportunità di riabilitare il proprio nome porta le Bellas a tentare la strada dei Mondiali di canto a cappella, il gruppo di ragazze si trova di fronte al favoritissimo gruppo tedesco, in grado di batterle sotto molti punti di vista ed intimidirle grazie ad esibizioni e coreografie praticamente perfette.
Riusciranno le Bellas a ritrovare l'armonia che pare perduta e vincere ancora una volta ribaltando i pronostici?








Quando, nel pieno dell'estate duemilatredici, lontano per scelta dal lavoro in un momento molto difficile, ebbi modo di godermi il congedo di paternità e passare con il Fordino, Julez e famiglia quasi un mese al mare, nella scorta di film che portai per condire le serate si trovava anche l'allora ribattezzato Voices, commedia dalla quale mi aspettavo poco o niente che, al contrario, si rivelò una visione piacevole e trasformò la "cup song" di Anna Kendrick in un vero e proprio tormentone.
All'uscita di questo secondo capitolo del franchise, il dubbio che potesse trattarsi di un'operazione puramente e meramente commerciale finì per abbassare molto le aspettative rispetto alla visione, temendo nel peggio: neppure nei miei peggiori incubi, però, mi sarei aspettato qualcosa di così terribile.
Elizabeth Banks, per l'occasione dietro la macchina da presa - e spero vivamente che non si sogni di ritornarci - e la sceneggiatrice Kay Cannon confezionano una pellicola stanca, noiosa, lentissima nelle quasi due ore di durata, spesso e volentieri volgare - nel senso non divertente del termine - neanche celasse lo zampino dei Vanzina, specchio della tipica operazione portata a termine con il solo scopo di mangiare soldi agli spettatori.
Dallo script, dunque, telefonato e mai davvero divertente, a personaggi e cast, tutto concorre a costruire uno degli insuccessi più clamorosi della stagione, in grado di andare oltre anche ad aspettative - come scrivevo poco sopra - decisamente basse combinando una povertà creativa clamorosa ad una serie di personaggi interpretati nella maniera più irritante possibile: dalla protagonista Anna Kendrick al suo inutile fidanzato - per quale motivo mantenere questa figura, se non per allungare il film di qualche minuto? - passando per l'irritante Rebel Wilson - che appare falsa e costruita così tanto da far sembrare il poser più scatenato come il protagonista di Noi siamo infinito - e la new entry Hailee Steinfeld, che pare aver abbandonato la scintilla che la guidò ai tempi de Il grinta per abbracciare uno stile degno delle peggiori produzioni televisive Disney.
Perfino Julez, felicissima di ritrovare le protagoniste del primo film e di rinverdire i fasti dei tempi d'oro di Glee - prima che la stessa serie canterina sprofondasse nel ridicolo -, ha finito per passare giocando con il cellulare tutta la seconda metà del film, probabilmente restando sveglia soltanto per manifestare solidarietà con il sottoscritto, che aveva scelto di rinunciare alla visione di Child 44 per potersi rilassare insieme con questo.
Pitch Perfect 2 rappresenta, dunque, uno dei punti più bassi del Cinema americano di questa prima metà dell'anno, una proposta spillasoldi assolutamente vuota, becera e poco interessante, improvvisata e dozzinale, nonostante di fatto sia stata premiata da incassi altissimi che le hanno garantito - pare, purtroppo - un terzo capitolo che, a questo punto, mi guarderò bene dal precipitarmi a recuperare.
Tanto ho lottato - se così si può dire - per lasciarmi alle spalle il periodo da fan hardcore del solo Cinema d'essai e d'autore per concedere la giusta attenzione e gloria anche alle proposte action, quanto titoli come questo mi fanno rimpiangere i tempi in cui criticavo qualsiasi blockbuster o potenziale tale bollandolo come pellicola buona giusto per i poveri stronzi che dalla stessa finivano per farsi fregare, magari in sala, con tanto di soldi sul piatto.
Considerato che prodotti di questo tipo nascono esclusivamente per intrattenere ed alleggerire il cervello, - in particolar modo d'estate -, direi che Pitch Perfect 2 è doppiamente colpevole, e dunque almeno quattro volte meritevole di una sviolinata di improperi rifilatigli dal sottoscritto nel corso di una visione che non solo non è stata divertente, ma è apparsa anche forzata, lenta e sguaiata.
Dal primo all'ultimo minuto, insomma, di "perfect" non c'è proprio nulla.




MrFord




"I'm all out of faith
this is how I feel
I'm cold and I am shamed
lying naked on the floor."
Natalie Imbruglia - "Torn" - 




lunedì 22 giugno 2015

Kill the messenger - La regola del gioco

Regia: Michael Cuesta
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 112'






La trama (con parole mie): Gary Webb, reporter d'assalto di un piccolo giornale californiano, a seguito di una serie di casualità fortuite legate ad indagini parallele, si trova tra le mani una potenziale bomba giornalistica. La compagna di un trafficante di droga con un processo in corso, infatti, passa a Webb copie di prove che dimostrerebbero la partecipazione attiva del governo statunitense all'acquisto ed allo smercio in territorio americano di droga a partire dai tempi del grande problema del Nicaragua e dell'amministrazione Reagan, coinvolgendo di fatto gli ecosistemi sociali dei quartieri delle metropoli USA.
Deciso a fare luce sulla vicenda, Gary lotterà finendo per rischiare non soltanto la sua carriera, ma l'incolumità di se stesso e della sua famiglia, passando da fama e riconoscimenti pubblici a velate minacce ed una progressiva estromissione dal mondo della carta stampata.
Ma quale si rivelerà la verità a proposito del traffico di droga "gestito" dal Paese stesso?
Chi sono i responsabili, e pagheranno?
E riuscirà Webb a non farsi ammazzare nel tentativo di vedere pubblicato il suo lavoro?









La figura del reporter d'assalto, che sia per la scrittura o la curiosità, o la tendenza a rompere gli schemi lottando per la diffusione libera delle notizie, mi ha sempre affascinato, che si parlasse di vita vissuta o di Cinema: da Tutti gli uomini del Presidente a Salvador, passando, pur se per vie alternative, da The Agronomist, le figure dei grandi comunicatori di radio, televisione e stampa hanno trovato sempre la porta spalancata, qui al Saloon, grazie ad un approccio sempre al limite che è costato spesso e volentieri anche la vita ai suoi protagonisti.
Questo La regola del gioco - adattamento pessimo dell'originale Kill the messenger, molto più centrato ed evocativo - rientra a pieno titolo nella categoria, e pur non essendo ai livelli clamorosi della succitata pietra miliare di Pakula, finisce per proporsi come uno dei titoli più interessanti dell'inizio dell'estate: la vicenda di Gary Webb - ben portato sullo schermo da Jeremy Renner, uno che non ho mai particolarmente amato o apprezzato come protagonista -, ripresa dalla cronaca ed ovviamente rimaneggiata in modo da colpire ancora più profondamente l'immaginario dell'audience, diretta con piglio da ottimo artigiano da Michael Cuesta - una delle menti dietro Homeland, che in precedenza lavorò dietro la macchina da presa in alcuni episodi dei cult Six feet under e Dexter -, è una solida storia tesa di giornalismo d'assalto, ascese e cadute, nonchè una critica decisamente aspra agli organi di governo a stelle e strisce dagli anni ottanta in avanti, dalla guerra al narcotraffico alle vicende del Nicaragua, da Reagan alle strade delle periferie urbane invase dai prodotti messi sul mercato da potenti padrini legati a doppio filo con politici di Washington.
Il viaggio di Gary Webb, iniziato quasi per caso e pronto a condurlo dai corridoi del potere della Capitale a prigioni centroamericane corrotte - molto interessanti le piccole parti affidate a caratteristi d'eccezione come Jason Patrick e Barry Pepper, o la partecipazione di grossi nomi come Andy Garcia, passato ormai a fare la parte del vecchio leone nonostante io lo ricordi ancora come il giovane poliziotto de Gli intoccabili -, è un percorso a doppio binario che condurrà il giornalista al successo ed al riconoscimento del proprio valore ma al progressivo allontanamento dalla famiglia, gli affetti, i colleghi e tutto quello che la grande macchina del Sistema - legale e non - prevede come punizione per chi decide di allungare un pò troppo lo sguardo oltre il confine dallo stesso Sistema imposto.
Il viaggio di Webb attraverso il legame tra USA e narcotrafficanti - non è un mistero che molti dei governi del mondo stringano patti di questo genere con le più potenti organizzazioni criminali, o accordi che li vedano, in un modo o nell'altro, in sudditanza rispetto alle stesse, come è capitato di recente di osservare con il nostrano La trattativa - è di quelli che colpiscono e toccano corde che conducono all'indignazione, così come riflessioni legate al limite che ognuno di noi è disposto a superare per etica, orgoglio, voglia di dimostrare il proprio valore e legami affettivi: quanti, infatti, a fronte di chiare minacce alla propria incolumità e dimostrazioni di potere deciderebbero di tirarsi indietro, e lasciare che la propria sopravvivenza - e quella dei propri cari - venga prima dell'indagine o dello scoop che si stanno seguendo?
Quanti, al contrario, deciderebbero di andare fino in fondo, anche a costo di rimanere soli, esiliati, umiliati, sconfitti anche nel momento della vittoria?
Probabilmente una risposta definitiva a queste domande non esiste, eppure sono contento che esistano film onesti e solidi come Kill the messenger, pronti a raccontare le storie di lottatori come Gary Webb, che normalmente finiscono per scomparire tra le pagine della Storia, pur avendone fatto parte attiva.




MrFord




"Occupations overthrown, a whisper through a megaphone
it's nothing as it seems, the little that he needs, it's home
the little that he sees, is nothing he concedes, it's home
and all that he frees, a little bittersweet, it's home."
Pearl Jam - "Nothing as it seems" - 




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