giovedì 30 aprile 2015

Two sisters

Regia: Jee Won Kim
Origine: Corea del Sud
Anno:
2003
Durata:
115'





La trama (con parole mie): Bae Soo Mi e Bae Soo Yeon sono due sorelle alle prese con problemi psicologici trovatesi a convivere con il padre e la nuova compagna di quest'ultimo, la crudele matrigna sempre pronta a metterle spalle al muro Eun Joo.
Quando il ritorno dalla clinica di igiene mentale di una delle due ragazze nella casa di campagna della famiglia riapre vecchie ferite, ed apparizioni misteriose segnano nel profondo ogni occupante della stessa, il conflitto tra le sorelle e la "dolce" metà del padre si inasprisce, incrinando i rapporti che le due mantengono con il genitore rimasto, per quanto labili gli stessi siano.
Ma cosa nasconde la dimora dell'improvvisato focolare domestico? Quali segreti si celano dietro l'instabilità delle ragazze e di Eun Joo? E quale ruolo hanno rispetto alla stessa il padre e gli ospiti che la famiglia accoglie?
Soprattutto, chi tra le giovani sorelle e la loro acquisita genitrice avrà davvero la ragione dalla sua parte?








Questo post partecipa all'iniziativa K-Horror Day.





Da che mi ricordi, e da quando ero bambino, il Cinema è sempre stato parte integrante della mia vita e del quotidiano di casa Ford, dai tempi in cui con mio fratello guardavamo una ventina di minuti de I Goonies o qualche altro cult mentre facevamo colazione prima di andare a scuola alla scoperta e riscoperta dei Classici, o dei nuovi autori: all'inizio degli anni zero, per un buon lustro ho attraversato la mia fase più radical chic come spettatore, concedendomi soltanto proposte d'essai ed approfittando della ricerca per scoprire aree geografiche che, cinematograficamente e culturalmente, conoscevo poco o per nulla.
Una delle più gradite tra le suddette scoperte fu la settima arte coreana, che da Kim Ki Duk a Bong Joon Ho riservò chicche davvero notevoli, ed è rimasta, anche dopo il mio risveglio tamarro, nel cuore del sottoscritto: da tanto tempo, però, mancava sugli schermi di casa Ford un ritorno di questo Cinema, ed approfittando della giornata dedicata al K-horror organizzata da Obsidian Mirror ho finito per approfittare ed unire due amori del mio passato di spettatore in un unica visione.
Peccato che, a parte l'eleganza - che già ben conoscevo - di Jee Woon Kim e dei suoi movimenti di macchina ed inquadrature, così come della ricercata fotografia, non mi sia rimasto, di fatto, praticamente nulla da una visione poco incisiva, a tratti decisamente noiosa e prevedibile rispetto alle influenze, recitata quel tanto sopra le righe da scadere, in alcuni passaggi, perfino nel ridicolo involontario: non che Two sisters sia oggettivamente un brutto film, o che sia privo della capacità di spaventare o quantomeno turbare lo spettatore - anche se, sarà l'età o il fatto di aver ormai alle spalle una carriera da veterano del genere, ormai trovo davvero difficile rimanere colpito da fantasmi, apparizioni e squilibri di vario genere -, eppure è come rimbalzato sbattendo forte contro la corazza di questo vecchio cowboy, assumendo i connotati dell'occasione sprecata e della classica pellicola che quasi dispiace di aver buttato sullo schermo, un pò come un appuntamento andato male o due ore tentenzialmente sprecate.
Evidentemente il momento di riavvicinamento al Cinema coreano per il sottoscritto doveva farsi attendere - o approfittare di qualche pezzo da novanta come fu I saw the devil, ad esempio -, così come alla sua componente - molto marcata, del resto - horror, che ha subito agli occhi del vecchio Ford una rovinosa caduta rispetto all'idea di tentare il recupero di qualche altro titolo che negli anni mi sono perso legato alla produzione coreana dei cari, amati film d'orrore.
Certo, a discolpa di Jee Woon Kim andrebbe segnalato che, a ben guardare, Two sisters rappresenta più un ibrido tra un dramma in famiglia legato a rancori e disfunzioni ed il noto cult giapponese The ring, e dunque non sarebbe sulla carta ascrivibile ad un genere fisso ed impostato, ma non basta una certa elasticità per trasmettere la vitalità che necessiterebbe una pellicola che passa e va senza colpo ferire - nonostante, lo ripeto, un grande gusto nella parte tecnica di regia e messa in scena - nonostante si proponga, almeno sulla carta, di lasciare un segno profondo in chi si trova dall'altra parte dello schermo.
Personalmente, con i titoli di coda, ho pensato più ad una liberazione, che non alle cicatrici - positive o negative che possano essere - che quest'opera poteva avermi lasciato negli occhi o nell'anima: e non è davvero mai una buona cosa.
Anzi, dovrebbe seminare il terrore più di qualsiasi horror.



Alla ricerca del terrore al mio fianco:
"Whispering Corridors" (1998) su Non c’è paragone
"Whispering Corridors" (1998) su Pensieri Cannibali
“Sorum” (2001) su Mari’s Red Room
“Three...Extremes” (2004) su La Fabbrica dei Sogni
“The Host” (2006) su Recensioni Ribelli
“Hansel & Gretel” (2007) su In Central Perk
“Thirst” (2009) sul Bollalmanacco di Cinema
“I Saw the Devil” (2010) su Delicatamente Perfido
“The Terror Live” (2013) su Cinquecento Film Insieme
“Mourning Grave” (2014) su Director’s Cult




MrFord




"If she looked me deep into my eyes
and softly asked me too
I'd be in her bed and in her flesh
and waste the life I knew."
Pain of salvation - "Sisters" -





Cenerentola

Regia: Kenneth Branagh
Origine: USA, UK
Anno:
2015
Durata:
105'






La trama (con parole mie): a grande richiesta del sottoscritto, torna al bancone del Saloon con una nuova recensione Julez, che ormai è diventata la specialista di casa Ford nello sciropparsi tutti quei titoli apparentemente molto poco fordiani che finisco per non avere voglia di schiaffarmi.
Questa volta tocca alla nuova Cenerentola targata Kenneth Branagh, regista che in passato è riuscito a regare al sottoscritto ottime soddisfazioni così come schifezze abominevoli.
Quale sarà stato il risultato, questa volta?
Alla mia compagna di viaggio l'ardua sentenza.









Finalmente un film che ti da esattamente quello che ti aspetti quando decidi di vederlo.
Che può essere un’arma a doppio taglio, eh.
Cenerentola è precisamente quello che è Cenerentola. 
La morale, l’insegnamento, l’attesa del buono, la fantasia, un bel vestito, scarpe inventate da De Sade o dal signor Compeed, il lieto fine, i buoni che vincono sui cattivi.
Questo mi aspettavo, questo ho avuto.
Certo io non sono tanto tipo da principesse (se escludiamo Ariel e Merida, ma loro non contano vero? Sono ancora rock vero?) e ad un principe azzurro, per quanto buono e profondo e ricco sfondato preferisco tutta la vita un Sawyer o un Tim Riggins che di principesco non hanno una favazza secca.

Merida rock.
Quindi Cinderella non è mai stata la mia fiaba preferita, anche perché hai voglia ad essere gentile (e si metta agli atti vostro onore che io lo sono eccome) ma dopo un po’, o anche prima, io le sorellastre le avrei sfanculate e avrei loro tagliato i capelli di nascosto o fatto lo scherzo del dentifricio nelle scarpe come in Il cowboy con il velo da sposa.
Eppure devo ammettere che, complice il comparto tecnico – di mestiere e centratissimo –, mi sono goduta questa favola che non pretende di essere il nuovo “geniale” genere degli stravolgimenti delle fiabe (vedasi Into the Woods), ma riesce nell'intento di rispettare il classico che non stanca mai.
Quindi non si grida al miracolo, non è stata messa una pietra miliare lungo la strada del mondo della settima arte, non c’è stata alcuna sorpresa, però avercene film che non deludono le aspettative, anche quando non altissime. 
E bravo Kennettone mio che ci avevi lasciato un po’ per strada con un’egomania che aveva inficiato i tuoi ultimi lavori. Siamo lontani dai tuoi migliori Shakespeare (Molto rumore per nulla) ma anche dai tuoi peggiori flop (Il flauto magico).

Principesse come piacciono a me.
Il principe (che stavolta non è protagonista delle terribili nozze di sangue) è sicuramente meno noioso di altri visti in precedenza.
Cenerella si comporta in un determinato modo non solo perché è scema ma perché crede nella magia della gentilezza, così come insegnatole dalla madre, di cui è la fotocopia.
La trasformazione di zucca, topi, lucertole e oca è veramente magica.
Non ci sono grandi buchi di logica e la storia scorre liscia e senza inciampi.
Insomma, niente male per un film dal quale non mi sarei aspettata praticamente nulla.
Se dovessi avere una figlia femmina glielo farei vedere volentieri. 
Salvo poi mostrarle le foto di Tim Riggins a petto nudo.
Giusto per insegnarle il buon gusto.



Julez



 
"I sogni son desideri
chiusi in fondo al cuor
nel sonno ci sembran veri
e tutto ci parla d'amor."
Maria Cristina Brancucci - "I sogni son desideri" - 




 

mercoledì 29 aprile 2015

Black sea

Regia: Kevin MacDonald
Origine: USA, Russia, UK
Anno: 2014
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Robinson, esperto capitano di sottomarini lasciato a casa dalla multinazionale per la quale ha lavorato negli ultimi undici anni, cerca un finanziatore a seguito della scoperta di un ex collega che collocherebbe nelle profondità del Mar Nero un U-Boot tedesco ancora carico di lingotti d'oro frutto di un accordo finito male tra Hitler e Stalin.
Scelto l'equipaggio, diviso tra russi ed anglosassoni, ed acquistato un vecchio sottomarino, Robinson guida i suoi nell'oscurità degli abissi, senza sapere che dietro il denaro che ha permesso la loro rischiosa missione si cela proprio la multinazionale responsabile della sua disoccupazione, e che le differenze culturali tra i membri della spedizione finiranno per minare dall'interno la riuscita dell'impresa.
Chi, alla fine, riuscirà a tornare a galla? Ed esisterà davvero, questo mitico U-Boot carico d'oro?







Senza dubbio una delle esperienze più importanti per capire se si potrà mai davvero avere un legame unico con una persona è quella del viaggio, spartiacque fondamentale in grado di cementare rapporti destinati a durare una vita o far naufragare amicizie o amori che si credevano più che solidi: una sorta di versione "dopata" del viaggio stesso risulta essere senza dubbio la convivenza forzata, sia essa legata ad una realtà casuale - i naufraghi di Lost, per citare un esempio fondamentale di fiction -, a trascorsi di vita - il carcere - o scelte - il lavoro a bordo di una nave, o un sottomarino -.
Black sea, ultimo lavoro del discontinuo ma decisamente capace Kevin MacDonald, mostra - e molto bene - proprio questo: sfruttando meccanismi che rimbalzano dal film d'azione al thriller senza disdegnare il quasi horror, il regista scozzese consegna tra le mani del pubblico un cocktail artigianale ma ottimamente riuscito che rievoca tanto The descent - almeno rispetto al fatto che sia l'Uomo, il mostro più temibile che si può avere la sfortuna di incontrare - quanto The Abyss o il semisconociuto ma decisamente interessante Below, senza dimenticare in tutto questo la mitologia marinaresca ed appoggiandosi sulle spalle di un Jude Law che pare non aver dimenticato la lezione dell'ottimo Dom Hemingway, portando sullo schermo un personaggio che lo allontana dal suo status precedente di sex symbol mostrandolo al contrario decisamente più maturo e ruvido, quasi fosse una versione action degli antieroi sociali di Ken Loach.
Un prodotto non particolarmente originale, dunque, ma in grado di funzionare dal primo all'ultimo minuto, di tenere alta la tensione e risultare credibile anche nei momenti decisamente più legati alla fiction, dotato di un grande fascino vintage - e non solo per il sottomarino "d'altro tempi" sfruttato come location dal regista e come mezzo per giungere allo scopo della missione dai protagonisti - e capace di portare sullo schermo sia riflessioni legate al mondo del lavoro ed alla condizione di disperati di molti professionisti rimasti "a piedi" da un giorno all'altro sia il tipico crescendo adrenalinico che una ventina d'anni or sono rappresentava uno standard per titoli di questo genere che ambissero a diventare quantomeno dei piccoli cult: l'ambientazione sottomarina, inoltre, che si parli del claustrofobico interno del sommergibile o delle oscure profondità degli abissi - ci si riferisce spesso, soprattutto in termini cinematografici, allo spazio profondo, ma l'ignoto offerto dalle fosse dei nostri oceani è assolutamente all'altezza delle vastità siderali - conferisce ad una vicenda che, di fatto, è legata all'avidità ed alla voglia di riscatto tutte umane una cornice dal fascino del vecchio film d'avventura, quasi l'impresa praticamente impossibile di Robinson e soci fosse intrisa di quello spirito piratesco che diede origine ad una serie di leggende immortali della Letteratura come del Cinema.
In questo senso, l'aura survival del lavoro di MacDonald unita ai suoi tratti decisamente più umani - dalla stupidità del conflitto tra le due fazioni dei membri dell'equipaggio da piena Guerra Fredda al rapporto tra Robinson e Liam pronto a colmare il vuoto di quello lasciato dal figlio cresciuto da un altro uomo del primo e la futura paternità del secondo - rende Black sea una visione solida e di carattere, destinata probabilmente a non fare la Storia della settima arte ma non per questo non meritevole di attenzioni: in un certo senso, infatti, Black sea è uno di noi.
Uno qualunque, con i suoi pregi ed i suoi difetti, forse non geniale, ma di pancia, diretto e sincero, nel bene e nel male. Qualcuno presente. In qualsiasi termine lo vogliate interpretare.
Considerato che io per primo diffidavo di questa visione neanche mi avessero chiesto di prendere parte ad una missione pressochè suicida nelle profondità del Mar Nero, direi che neppure un finale con una qualche concessione di troppo sia riuscito a fermarmi: e sapete che vi dico?
Che con gente come MacDonald, o Robinson, mi imbarcherei tutti i giorni.




MrFord




"And I could write it down
or spread it all around
get lost and then get found
or swallowed in the sea."
Coldplay - "Swallowed in the sea" - 




martedì 28 aprile 2015

Tuesday's child


La trama (con parole mie): e dopo la clamorosa ed inaspettata delusione che gli Avengers hanno riservato al sottoscritto la scorsa settimana, toccherà a questo giro al mio pusillanime rivale Cannibal Kid rimanere scottato con il documentario dedicato a Kurt Cobain che ha finito per farci anticipare l'uscita della rubrica dedicata alle uscite settimanali al martedì?
Speriamo di sì, anche perchè prima o poi il Destino dovrà decidersi a punire il Cucciolo Eroico per tutte le stronzate che riesce a sparare, in questa rubrica e dalle sue parti: in caso contrario, un giorno o l'altro dovrò proprio organizzare una bella gita a Casale.


"La prossima volta che mi consigli un film che ti ha suggerito Cannibal, ti faccio diventare la vittima numero quarantacinque."


Cobain: Montage of Heck
"I film suggeriti da Peppa Kid? Una tristezza!"


Cannibal dice: Non sono uno che tende a mitizzare artisti e cantanti come fa Ford con Justin Bieber e i One Direction, però se c'è una figura che per me è sempre rimasta avvolta più nella leggenda che nella realtà è quella di Kurt Cobain. Sono quindi davvero curioso di vedere questo documentario che dovrebbe andare a mostrare il lato più intimo e privato del cantante dei Nirvana. Mentre ancora devo guardare Citizenfour, il mio documentario del cuore dell'anno mi sa che sarà questo Montage of Heck.
Ford dice: sono molto curioso a proposito di questo documentario. Del resto, Cobain è stato uno dei musicisti più importanti della fine del secolo scorso, e per quanto continui a considerarlo un povero cazzone per aver buttato via la vita a neppure trent'anni con dalla sua il talento, la ricchezza, la bellezza ed una figlia appena nata - senza contare fan scalmanati in tutto il mondo -, la curiosità resta. Poi, certo, non essendo più un quindicenne impazzito come il mio rivale, rimetterò al suo posto perfino il signor Nevermind.





 Child 44 - Il bambino n. 44




"Ora sai che succede quando mi si suggerisce di vedere un film consigliato da Pensieri cannibali."


Cannibal dice: Un film che nelle pubblicità viene spacciato come il nuovo di Ridley Scott, come se dopo gli ultimi atroci film alla The Counselor fosse un vanto, ma in realtà è firmato da tale Daniel Espinosa. Comunque sia si tratta di un thriller storico ambientato nella Russia anni '50 con un cast capitanato da Tom Hardy, Noomi Rapace e Joel Kinnaman. Ucci ucci, sento puzza di pellicola da fordianucci.
Ford dice: quando una campagna pubblicitaria è massiccia come quella di Child 44, soprattutto se legata ad un titolo che parla di serial killer e morti ammazzati, la puzza di fregatura pare avvertirsi lontana miglia.
Speriamo che le aspettative basse ed un cast sulla carta più che rispettabile possano contribuire a rendere questo film la sorpresa della settimana, e non la solita cannibalata.





 Run All Night - Una notte per sopravvivere



"Ecco Ford, ora lo faccio secco: così impara a parlare male delle mie mani!"


Cannibal dice: Di recente ho parlato con mia somma sorpresa bene di un film con Liam Neeson, Taken 3. Che è un po' come se parlassi bene di James Ford. Sul fatto che possa andargli bene di nuovo, intendo a Neeson non a Ford, la vede molto dura. Anche perché questo Run All Night sembra proprio una porcheria action criminale al 100% fordiana.
Ford dice: come ben sapete, adoro l'action tamarra che tanto infastidisce il mio pusillanime rivale. Peccato che Liam Neeson, l'uomo dalle mani più brutte del mondo, c'entri un pò come Cannibal Kid con il wrestling. Dunque, a meno che non mi scappi la voglia di massacrare un titolo a caso, credo lascerò questo Run all night nel felice limbo dei dimenticati e dimenticabili.





 Le streghe son tornate
"Ora vedete di dirmi dove sono quei due imbecilli di Ford e Cannibal: devo dar loro una ripassata!"

Cannibal dice: Tremate tremate, le fordianate son tornate. Del regista spagnolo Alex de la Iglesia non so bene cosa pensare. Ho visto giusto due dei suoi film: uno, Ballata dell'odio e dell'amore l'ho trovato una pretenziosa cacchiata clownesca e fordiana, l'altro, Oxford Murders, un thrillerino piuttosto affascinante. Magari questo Le streghe son tornate mi chiarirà di più le idee: potrebbe essere divertente, anche se la probabilità che sia un'altra gran cacchiata fordianata è alta.
Ford dice: Alex De La Iglesia è un tipo davvero strano. Ho trovato alcuni suoi lavori molto interessanti ed altri assolutamente inguardabili. Certo, più di quanto raccolga dalle mie parti Peppa Kid, ma è comunque pochino. Sinceramente queste streghe mi ispirano ben poco, ma considerata, per l'appunto, la pochezza delle proposte di questo periodo, potrei anche prendermi questo rischio.






Ritorno al Marigold Hotel
"Niente male questo ricovero per vecchi alcolisti. Me l'ha consigliato Ford."

Cannibal dice: Non solo hanno fatto un Marigold Hotel, che io ho evitato come gli appestati, adesso pure un sequel?
Ma questo è il trionfo della terza età, anzi della quarta. Quella in cui si trova Ford.
Ford dice: avevo già evitato accuratamente Marigold Hotel, un film da ora del the giusto giusto per le signore di una certa età e per i pusillanimi come Cannibal Kid, e non credo proprio correrò in sala per sciropparmi un sequel che mi pare già inutile.


 I 7 nani
"I sette Cannibal: Peppolo, Cucciolo, Pusillanimo, Malicko, Katniko, Kurtolo e Lars."

Cannibal dice: Va beh, questo lo lascio direttamente a quell'eterno bambinone, nato già vecchio. Non parlo di Benjamin Button, ma di Ford.
Ford dice: dopo Once upon a time, Cenerentola, Maleficent e chi più ne ha, più ne metta, vorrei girare alla larga dal mondo delle fiabe tanto quanto da quello del Cannibale.





 Basta poco
"Basta poco, in Italia, per produrre film inutili."
Cannibal dice: Basta poco per fare un bel film. Ma mi sa che quel poco qui dentro non è presente.
Ford dice: basta poco per capire cosa significa non capire una beata mazza di Cinema. Basta leggere Pensieri Cannibali. Ahahahahahah!
Dovevo parlare di un film!? Non ne vedo alcuno, in questo caso.



lunedì 27 aprile 2015

Avengers - Age of Ultron

Regia: Joss Whedon
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 141"





La trama (con parole mie): i Vendicatori, ormai divenuti una forza con la quale fare i conti ad ogni latitudine del pianeta, nel corso di una missione che li vede debellare le ultime forze dell'Hydra rimaste attive dopo la caduta dello Shield, vengono in contatto con un manufatto che cela l'energia di una delle Gemme dell'infinito, potentissimi artefatti in grado di conferire un potere quasi illimitato, appartenuta a Loki, fratello di Thor. Scoperti, inoltre, due gemelli dalle incredibili abilità - Wanda e Pietro Maximoff - ed un programma dormiente, gli Avengers si mettono al lavoro in modo da poter trarre il meglio dalle loro ultime conquiste: peccato che, quando Tony Stark decide di mettere mano al programma stesso per applicarlo ad un progetto di intelligenza artificiale evoluta, il risultato sia Ultron, robot senziente determinato a cancellare dalla faccia della Terra non solo il gruppo di eroi, ma il genere umano.
Capitan America e soci, dunque, dovranno dare fondo a tutte le loro energie ed il coraggio che li contraddistingue per rispondere ad una nuova, letale sfida.








Spesso e volentieri si dice che le aspettative siano la prova più difficile da superare, e che tanto più alte le stesse finiscono per essere, quanto consistenti diventino i rischi di un fallimento: il primo film dedicato agli Avengers, uscito tre anni or sono proprio in questo periodo in sala, è stato una delle esperienze di godimento cinematografico in termini fracassoni più esaltanti della mia vita di spettatore, e da appassionato di fumetti ha finito per rappresentare l'ideale di prodotto che, da bambino - e non solo - avrei sognato per la trasposizione su grande schermo degli eroi di carta, inferiore, probabilmente, soltanto a quella chicca assoluta de Il cavaliere oscuro.
Peccato che, proprio come fu per il filmone di Nolan, su lavoro di Whedon e su questo sequel pesassero come macigni aspettative accumulate in tre stagioni di attesa, condite senza dubbio da ottimi prodotti targati Marvel - Il soldato d'inverno, il secondo Thor, Guardiani della galassia - ma pronte a culminare con questo Age of Ultron: cosa, dunque, è andato storto, tradendo le attese e, di fatto, trasformando un potenziale cult del Saloon in una delle più cocenti delusioni cinematografiche dell'anno?
Senza dubbio l'approccio, consacrato al comparto tecnico ed agli effettoni - belli da vedere, senza dubbio, almeno quanto le divertenti e spassose scene d'azione - piuttosto che ad un'idea o una sceneggiatura quantomeno pronta a dare spessore anche ad una proposta popcorn come questa - come fu per il primo film, per intenderci -, i protagonisti - a partire dal Tony Stark di Robert Downey Jr, mattatore nel primo capitolo, macchietta gigionesca in questo secondo, passando attraverso un Ultron sfruttato solo in parte ed una coppia Scarlet/Quicksilver sconfitta clamorosamente dalla controparte vista in X-Men: giorni di un futuro passato -, la scorrevolezza - due ore e venti che pesano come macigni, sequenze di combattimento a parte, rese stoppose da una mezzora piena tutta giocata all'interno di casa Hawkeye responsabile del mio primo, vero momento di cedimento al mondo dei sogni in una sala e passaggi tagliati con l'accetta neanche il pubblico fosse completamente disinteressato alla storia dietro lo spettacolo di esplosioni e rocambolesce evoluzioni videoludiche -, ed una direzione del progetto che pare quasi mostrare un'anima conflittuale che potrebbe aver visto protagonisti Whedon ed i suoi colleghi più talentuosi rispetto ad un "consiglio d'amministrazione" pronto a sacrificare tutto - in primis la qualità non visibile attraverso le vorticose capriole della macchina da presa - in nome dell'incasso e del guadagno.
Tutto questo senza contare il disagio di stare, di fatto, assistendo ad una gigantesca sequenza di raccordo pronta a preparare il terreno per i prossimi terzi capitoli delle saghe in singolo di Capitan America e Thor, l'imminente Ant-Man, il secondo Guardiani della galassia e, ovviamente, il doppio capitolo finale (?) delle avventure degli Avengers, che, come già si era intuito al termine del primo film, avrà come protagonista - ed antagonista - il quasi onnipotente Thanos, una sorta di stradopato Le due torri con molto meno mordente.
Probabilmente, al contrario del Batman nolaniano, gli Eroi più potenti della Terra non hanno bisogno di essere resi più profondi o appesantiti da storie sentimentali decisamente troppo zuccherose - il legame Hulk/Vedova nera, da vecchio fan della serie a fumetti, non si può proprio vedere -, o di alternare a fasi di esplosioni e botte da action di grana grossa il focolare domestico da grandi valori americani - di nuovo, la parte ambientata in casa Burton -: dovrebbero semplicemente andare dritti per dritti alla meta, senza troppe domande e con molta (auto)ironia.
Spaccare, per dirla come Hulk.
E qui, invece, si tira il freno a mano. E quando si spacca, lo si fa con la spiacevole sensazione di stare assistendo ad un divertissement soltanto per chi vi ha preso parte o ad un compitino buono giusto per scucire dei gran soldi - e con gran successo - a noi poveri stronzi pronti ad alimentare aspettative legate ad un'idea ingenua e naif di divertimento neanche fossimo tornati tutti dodicenni pronti a chiedersi chi sia più forte tra Thor e Hulk - anche se, ai miei tempi, la domanda più frequente era chi lo fosse tra Hulk e la Cosa -.
Usciti dalla sala, il problema non è stato, dunque, quello di trovare la risposta ad una domanda tanto semplice quanto affascinante, o l'idea di dover aspettare ancora almeno un paio d'anni prima di affrontare il nuovo capitolo della saga - come accadde con il film numero uno -, bensì la paura che, da ora in avanti, le cose potranno solo peggiorare.
E speriamo proprio di no.
Anche perchè un "Avengers assemble" lasciato a metà sarebbe davvero un delitto.
E non solo per gli appassionati di fumetti, o di blockbuster fracassoni.
Perchè tutti abbiamo bisogno di prodotti come questo.
Fosse anche solo per staccare il cervello.




MrFord




"Stop trying to live my life for me
I need to breathe
I'm not your robot
stop telling me I'm part of the big machine
I'm breaking free
can't you see,
I can love, I can speak
without somebody else operating me
you gave me eyes so now I see
I'm not your robot, I'm just me."
Miley Cyrus - "Robot" -





domenica 26 aprile 2015

Man of Tai Chi

Regia: Keanu Reeves
Origine: USA, Cina, Hong Kong
Anno: 2013
Durata: 105'




La trama (con parole mie): Mark Donaka, miliardario appassionato di scontri di arti marziali e di violenza, finanzia un campione al quale chiede di difendere la propria vita contro sfidanti sempre più forti vendendo il tutto come un prodotto per un'elite annoiata di uomini ricchi ed influenti come lui. Scoperto per caso nel corso di un torneo l'aspirante Maestro di Tai Chi Tiger Chen, Donaka decide di farne il nuovo volto del suo personale giocattolo, spingendolo sempre di più verso il lato oscuro grazie a soldi, sicurezza e combattimento: Tiger, influenzato anche dalle necessità del suo Maestro e dalla situazione economica del tempio che lo ospita, finisce dunque per lasciarsi coinvolgere sempre di più nel nuovo ruolo di simbolo di questo circolo di lotta segreto, sconfiggendo uno sfidante dopo l'altro.
Quando, però, la parte "malvagia" del suo Tai Chi e del suo carattere viene a galla, Tiger scoprirà che il nemico più temibile con il quale dovrà confrontarsi sarà se stesso.








I film di botte - specialmente quelli di arti marziali - sono stati uno dei pilastri della mia formazione di tamarro e cinefilo, per quanto le due cose possano - solo superficialmente - apparire clamorosamente spaiate: con il passare degli anni - e soprattutto, lasciato alle spalle il periodo radical chic della mia esistenza di spettatore -, ho rivalutato questo tipo di prodotti godendomi sia le parentesi più autoriali del genere - The Raid e The Raid 2 su tutte -, i classici intramontabili - Kickboxer o Senza esclusione di colpi - e le nuove chicche figlie del credo dei calci rotanti come questo Man of Tai Chi, pellicola interpretata e soprattutto girata da un Keanu Reeves nell'insolita veste del villain che mescola atmosfere ed un cast interamente orientali ad una produzione tipicamente figlia del larger than life a stelle e strisce.
Il risultato è stato clamorosamente ben inquadrato da Julez nel corso della visione, grazie ad uno dei commenti più illuminati che si potessero esprimere rispetto al Cinema di botte: "i film di questo tipo sono come i porno: una storia risibile e raccordi che speri finiscano il più presto possibile per vedere il combattimento successivo".
Probabilmente neppure con una benedizione di Jean Claude Van Damme in persona sarei riuscito a definire meglio il tripudio di goduria che è, di fatto, questo tipo di prodotto, nato per esigenze principalmente ludiche, impreziosito dalle esibizioni dei talenti messi in campo - sorprendente il pur ridicolo, almeno nella capigliatura, Tiger Chen, e da urlo per gli appassionati il pur breve confronto con l'Iko Uwais dei due già citati The Raid nel finale, così come il duello con lo stesso Reaves, che sfoggia un parco mosse decisamente tosto per un attore ormai cinquantenne, per quanto invecchiato bene come lui - e certamente subordinato a sceneggiature che non hanno il dovere di mostrarsi rispettose di logica ed affini.
Nonostante l'ovvia pochezza dello script, comunque, Man of Tai Chi non disdegna di mescolare nel suo cocktail anche una certa ricerca di approfondimento legata al confronto con il "Lato oscuro" del protagonista, sfruttato alla grande anche rispetto alla scelta dei Tai Chi, da sempre disciplina più legata alla meditazione ed all'esibizione che non al combattimento vero e proprio: il percorso di Tiger, conquistato progressivamente dalla possibilità di sfogarsi e liberare tutte le sue energie in battaglia ed avere dai risultati un riscontro in termini di fama e denaro che nella vita di tutti i giorni non ha mai potuto assaporare risulta quantomeno interessante, e seppur clamorosamente derivativa - qualcuno ha detto Guerre Stellari!? - la questione legata al "Lato Oscuro della Forza" è da sempre una tematica che tocca ognuno di noi, in misura più o meno sentita.
Se, però, il meccanismo legato alla corruzione dell'anima del "campione del Bene" trova un senso, ne ha meno l'intera parte legata alle indagini della polizia su Donaka - che paiono effettivamente un riempitivo sfruttato per evitare un minutaggio eccessivamente basso -, colpevole con i suoi non sempre interessanti sviluppi di togliere minuti preziosi alle esibizioni non solo del main charachter in battaglia, ma anche dei numerosi e decisamente differenti - per stile e fisicità - combattenti chiamati a raccolta da Keanu Reeves.
Probabilmente, se si fosse spinto maggiormente sulla componente tournament in pieno stile Mortal Kombat, Tekken o Senza esclusione di colpi i fan hardcore di questi prodotti avrebbero potuto quasi gridare al miracolo, mentre il risultato è "solo" quello di un prodotto che stimola l'amarcord di chi, per l'appunto, con tutto quello che è esistito da Bruce Lee in avanti è cresciuto.
Un plauso, ad ogni modo, al coraggio del buon, vecchio Keanu ci sta tutto: un esperimento di questo genere, infatti, non sarebbe stato da tutti, ed averlo proposto significa quantomeno che il protagonista del recente - e spassosissimo - John Wick adora i film di arti marziali e botte almeno quanto il sottoscritto.
E dunque, qui al Saloon c'è una serata offerta dalla casa per ubriacarsi allo sfinimento che porta già il suo nome.




MrFord




"Fear of the dark,fear of the dark
I have constant fear that something's always near
fear of the dark,fear of the dark
I have a phobia that someone's always there."
Iron Maiden - "Fear of the dark" - 






sabato 25 aprile 2015

The Poughkeepsie Tapes

Regia: John Eric Dowdle
Origine: USA
Anno: 2007
Durata:
86'





La trama (con parole mie): a Poughkeepsie, cittadina a Sud dello Stato di New York, in una casa in affitto viene scoperta la macabra collezione di uno dei più terriili e feroci serial killers che abbiano mai operato negli Stati Uniti.
Quello che le Forze dell'ordine analizzano, infatti, è la personale videoteca di un assassino dedito a documentare ogni suo atto, dalla prima volta al terrificante piano che lo vede plagiare, dalla mente al corpo, una delle sue vittime: ma chi potrà mai essere, questo psicopatico in grado di mostrare profili e caratteri diversi ad ogni suo omicidio?
Il sospetto principale, arrestato e condannato, sarà davvero chi tutti sperano possa essere?
O questo "uomo nero" continuerà a viaggiare per le strade, innalzando le statistiche di sequestri ed uccisioni in una o nell'altra area metropolitana?








Se qualche mese fa mi avessero detto che non solo avrei finito per divertirmi con Necropolis - La città dei morti, nonostante i suoi limiti, e che proprio a seguito di quella visione sarei andato a recuperare questo The Poughkeepsie Tapes firmato sempre da John Eric Dowdle e prodotto dal fratello di quest'ultimo, sarei stato quantomeno incredulo, nonostante, di fatto, il mockumentary rappresenti uno dei guilty pleasures di genere più apprezzati, al Saloon, e nel corso degli anni mi abbia riservato soddisfazioni uniche come The troll hunter, Lake Mungo ed Europa Report.
Non solo, comunque, questo recupero si è rivelato un successo, ma ho finito per considerare The Poughkeepsie Tapes superiore al successivo e già citato Necropolis, non perfetto ma in grado comunque di inquietare ed affascinare soprattutto gli appassionati di thriller e morti ammazzati come noi Ford, regalando al pubblico un serial killer tra i più terrificanti che la settima arte abbia portato sullo schermo dai tempi dell'intramontabile Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti.
L'idea di ricostruire l'operato dello psicopatico attraverso il ritrovamento delle videocassette dallo stesso girate a partire dalla prima uccisione alternando le immagini "di repertorio" - ottimo l'effetto nastro conferito alla documentazione del maniaco omicida - con il parere di esperti dell'FBI e della Scientifica funziona, per quanto finisca per essere poco sfruttata soprattutto rispetto alla sua parte "tecnica", quando nella seconda metà del film il focus della narrazione si sposta sul ritrovamento della superstite schiavizzata dal mostro per anni e sul tentativo delle forze dell'ordine di catturarlo.
Senza dubbio il lavoro di Dowdle, all'apparenza amatoriale quanto basta per poter rientrare anche esteticamente in alcuni termini del mockumentary, non è esente da difetti, e rappresenta più il primo esperimento di un regista che non il lavoro della sua maturità, eppure avvince dal primo all'ultimo minuto, e a prescindere dalla violenza mostrata - mai compiaciuta o in qualche modo disturbante come fu per l'immondo A serbian film - conduce lo spettatore a domandarsi fino a quali abissi ci si possa spingere quando si parla dell'oscurità dell'animo umano: l'operato di questo misterioso omicida seriale, culminato con il rapporto terrificante con la sua schiava che chiude con i brividi la visione, per quanto atroce ed incredibile possa apparire, in realtà non si discosta dalle gesta di altri documentati serial killers, da Albert Fish - che sul punto di essere giustiziato parlò della sedia elettrica come dell'occasione di provare un'emozione che non aveva mai potuto testare sulla pelle prima - a Gacy o Dahmer, in grado di commettere atti che, se raccontati, finiscono per apparire più come il frutto dell'immaginazione di uno scrittore dell'orrore, piuttosto che cronaca nera.
In questo senso, The Poughkeepsie Tapes rende molto bene questo inquietante aspetto del predatore pronto a mietere le proprie vittime seguendo i propri istinti, e che, nel caso di assassini dall'alto quoziente intellettivo ed un'elevata capacità di controllo, impara dalla propria esperienza affinando le tecniche di caccia ed occultamento delle proprie vittime finendo per ingaggiare una vera e propria sfida con le forze dell'ordine.
Probabilmente, comunque, un prodotto di questo genere o i registri delle vittime degli assassini seriali passati alla storia, non riusciranno mai a definire completamente i confini dell'oscurità che alberga nel nostro cuore di Uomini, e che in alcuni casi - fortunatamente non così numerosi - finisce per fagocitare tutto quello che può, dentro e fuori, e dalla quale non è possibile fare ritorno, o sperare di trovare una via d'uscita.




MrFord




"I know I may be young, but I've got feelings too.
and I need to do what I feel like doing.
so let me go and just listen."
Britney Spears - "I'm a slave 4U" - 





venerdì 24 aprile 2015

Cadillac records

Regia: Darnell Martin
Origine: USA
Anno: 2008
Durata:
109'





La trama (con parole mie): a cavallo degli anni cinquanta, a Chicago, la Chess Records divenne una delle realtà più importanti degli USA e non solo rispetto alla divulgazione ed al successo prima della musica "black" e dunque del rock and roll. Da Muddy Waters a Chuck Berry, passando per Howlin' Wolf ed Etta James, i successi indimenticabili ed il declino di una delle realtà di culto che il mondo abbia conosciuto nell'ambito delle sette note.
Eccessi, invenzioni, incroci che avrebbero cambiato la Storia del Rock e drammi personali e sociali pronti a ridefinire l'approccio culturale a stelle e strisce, e non solo: il rapporto, infatti, tra produttore ed artista per come si sarebbe inteso da quel momento in avanti, venne ridefinito dal legame tra Leonard Chess e Muddy Waters, due dei più grandi innovatori che abbiano calcato i palcoscenici - da una parte e dall'altra del sipario - mondiali.








Senza ombra di dubbio, per quanto gli anni da commesso in un negozio di dischi mi abbiano aperto orizzonti musicali decisamente vari, le mie radici di ascoltatore vanno ricercate nel grande calderone del rock, che ancora oggi rappresenta, di fatto, il mio riferimento quando si parla di sette note: ma non ci sarebbe stato alcun rock se prima non fosse esistito il blues, che soprattutto negli States simboleggiò un percorso sociale fondamentale in termini culturali e di diritti civili.
Allo stesso modo, dietro ad ogni grande artista o album, è quasi ovvio scoprire un produttore che, come un regista, guida chi si guadagnerà fama e palcoscenici alla ribalta: in questo senso, poche pellicole riescono a rendere onore e rappresentare bene questi due concetti come Cadillac Records, per anni colpevolmente ignorato dal sottoscritto e recuperato a seguito di una serie di ascolti di genere su Spotify.
Il lavoro di Darnell Martin, prodotto ed interpretato dalla nota pop star Beyoncè Knowles - che si ritaglia il ruolo nientemeno che di Etta James -, è sentito ed onesto, coinvolgente e decisamente di pancia, sudato ed intenso come spesso vengono mostrati, sullo stage e nella vita privata, i suoi protagonisti, da Muddy Waters a Howling Wolf, dalla già citata Etta James a Chuck Berry: proprio a quest'ultimo, vero e proprio fenomeno che, di fatto, diede origine al rock americano - almeno quanto Waters fece con quello inglese - finendo per ispirare grossi calibri come i Beach Boys, si deve una delle sequenze a mio parere più importanti della pellicola, legata al momento in cui l'anima della Chess Records, il Leonard Chess cui presta volto Adrien Brody, decide di investire sull'arrembante nuovo volto della musica, ed assistiamo ad un divertente gioco fatto di scambi di sedia tra "chi conquisterà la fama, e chi avrà i soldi".
In fondo, e molto più che rispetto al mondo del Cinema, il producer musicale resta una figura decisamente più in ombra del regista nella settima arte, nonostante, di fatto, molti dei meriti di un disco riuscito vadano, di fatto, ricondotti proprio alla sua figura: ripenso a Rick Rubin, che sul finire degli anni novanta, dopo aver lavorato con i nomi più grossi dell'industria musicale, decise di reinventare Johnny Cash regalandogli una seconda giovinezza e centrando la premiatissima e fortunatissima serie degli American Recordings, responsabile di aver fatto conoscere al mondo ed al grande pubblico il Man in black, o a Brian Eno con David Bowie, e ritrovo la praticità e l'importanza di una figura di questo genere alle spalle degli spesso sregolati artisti pronti a calcare il palco e conquistarsi fama imperitura.
Ma Cadillac Records non è soltanto l'esplorazione delle figure cardine della Musica: ritroviamo, infatti, elementi che, nella realizzazione delle canzoni divenute miti finiscono per essere importanti quanto e forse più di interpreti e strumenti, dall'amore, al disagio, alle dipendenze, al sesso, passando per la necessità di comunicare ed affermare, sia pure in uno spettacolo, i propri diritti e la propria identità.
La passione e l'esigenza di portare all'esterno quello che, talento o volontà, sentiamo ribollire dentro.
Se, poi, si ha la fortuna di avere un talento come quello di Muddy Waters o Etta James, il viaggio sarà ancora più intenso, per chi lo vive e chi lo ascolta, vivendolo a sua volta: e come nelle migliori storie, e famiglie, si assisterà ad ascese e cadute, a successi e clamorose sconfitte.
Ma il cuore resterà sempre lì.
Perchè non ci sono fama e soldi che possano comprare quel sudore e quell'ardore.
Che si parli di blues, o di rock.



MrFord




"I got a black cat bone
I got a mojo too
I got the Johnny Concheroo
I'm gonna mess with you
I'm gonna make you girls
lead me by my hand
then the world will know
the hoochie coochie man
but you know I'm him
everybody knows I'm him
oh you know I'm the hoochie coochie man
everybody knows I'm him."
Muddy Waters - "(I'm your) Hoochie Coochie man" - 





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