domenica 31 luglio 2011

Il valzer dell'orrore

Autore: Joe R. Lansdale
Provenienza: Usa
Editore: Fanucci
Anno:  2007

La trama (con parole mie): Hank Small è un uomo con tutto dalla sua. Una bella moglie, due figli, una grande casa, un cane fin troppo affettuoso, una catena di videonoleggi ed una vita tranquilla.
Se non fosse per il nipote Bill, un giovane scapestrato incapace di trovare la forza per intraprendere la strada che aveva salvato lo stesso Hank dalla delinquenza quando era ragazzino e che, quando i soldi scarseggiano o piove un pò troppa merda, finisce sempre per tornare a bussare alla porta dello zio.
Questa volta, però, le cose sono molto peggio del solito.
Perchè Bill è entrato a far parte del Club dei disastri, e la sua vita è stata sconvolta dall'incontro con Fat Boy e l'Uomo Cobra, due pericolosi assassini pronti a tutto ed ammanicati con la polizia.
Così Hank dovrà mettere da parte l'orgoglio e le buone maniere e rivolgersi al suo fratellastro "perduto" per poter sperare di salvare se stesso e la sua famiglia dalla furia omicida che sta per investirli.

Ed eccomi qui, di nuovo alle prese con il vecchio Joe.
Questa volta, però, le atmosfere malinconiche da road movie di formazione di Cielo di sabbia finiscono dritte dritte nei sogni più belli frantumati dalla violenza e dall'orrore, come giustamente il titolo italiano del romanzo lascia immaginare ai lettori.
Il buon Lansdale, più che all'aura quasi bucolica delle avventure dei giovani protagonisti del suo ultimo romanzo, riporta con questo lavoro alla violenza terrificante de Il mambo degli orsi e ai panorami cui certo saremmo più abituati leggendo Palaniuk o Easton Ellis, pregni di personaggi viscidi ed assetati di sangue come i più spietati dei predatori, mascherando la vicenda da Fight club in minore con il Club dei disastri per poi far irrompere sulla scena due dei personaggi più disgustosi ed agghiaccianti dell'intera mitologia legata all'autore texano: perchè Fat Boy e l'Uomo Cobra non sono soltanto grotteschi, brutti da immaginare e da "vedere", ma sono anche l'incarnazione perfetta del male senza uno spessore, del piacere della violenza e della violazione dell'altro, del potere e del suo brutale esercizio.
Le pagine legate all'irruzione della coppia di assassini nella casa di Hank sono tra le più disturbanti che mi sia capitato di leggere di recente, in equilibrio sul sottile filo che separa l'eccitazione della caccia dalla rabbia dell'impotenza.
Ma dato che il vecchio Joe non è un tipo da lasciarci soli e senza speranze, ai due clamorosi villains vengono contrapposti protagonisti che ricordano molto - a volte, ma solo a volte, perfino troppo - Hap e Leonard: Hank ed il suo fratellastro Arnold, per non dimenticare la tostissima Bev, paiono usciti dritti dritti dalle pagine della serie dedicata ai signori Collins e Pine, pur senza sfoderare il loro caustico umorismo, e questo non può che essere un piacere per un lansdaliano di vecchia data come il sottoscritto.
Dunque, ad una dose di grottesco che a volte pare quasi riportare in campo il terrificante Re dei popcorn della trilogia del drive-in si unisce una delle tematiche fondamentali dell'opera dello scrittore: la lotta dell'uomo della strada per difendere dal Male quello che è suo, e che ama.
Una versione molto southern di uno dei capisaldi del made in Usa che trova riscontro anche nei romanzi dedicati alle avventure di Hap e Leonard, che pur rivolgendosi in qualche modo sempre alla Giustizia - spesso in modi non proprio ortodossi - hanno in loro stessi e nei loro cari la forza più grande in grado di permettere sopravvivenza e difesa del proprio territorio.
Ammetto che, letta così, questa affermazione potrebbe suonare clamorosamente redneck e dipingere il buon Lansdale come il peggiore dei cowboys di frontiera, eppure i romanzi di questo scrittore certo non sopraffino ma generoso e potente sono un'espressione di umanità verace come raramente si può trovare nell'ambito letterario e non solo.
Quando ebbi modo di chiacchierare un pomeriggio con lui, Lansdale mi parve una persona alla mano, disponibile e molto tranquilla: ma sono convinto che, da maestro di arti marziali quale in effetti è, se dovesse saltarmi in testa di provare ad entrare in casa sua e sconvolgere il suo mondo, sarebbe più che pronto a farmi un gran culo.
Chi non lo farebbe, del resto, per proteggere la propria famiglia, o la propria esistenza!?
Certo, c'è sempre da sperare che gente come Fat Boy e l'Uomo Cobra stia ben lontana dalle nostre vite, e nel caso, che ci siano un Arnold o una Bev pronti a coprirci le spalle o a medicarci le ferite nel caso dovessimo giocarci tutto contro quel male oscuro e violento sul grande tavolo della vita.

MrFord

"Southern man better keep your head 
don't forget what your good book said."
Neil Young - "Southern man" -


sabato 30 luglio 2011

Priest

Regia: Scott Charles Stuart
Produzione: Usa
Anno: 2011
Durata: 87'

La trama (con parole mie): da sempre umani e vampiri convivono ben poco pacificamente passando il tempo a squartarsi amabilmente attraverso le diverse epoche, ma soltanto con l'intervento provvidenziale della Santa Madre Chiesa le cose hanno assunto una dimensione tutta nuova grazie all'impiego dei misteriosi Sacerdoti, casta di guerrieri dalle incredibili abilità e poteri - dono del Signore!? - capaci di debellare la minaccia dei vampiri torchiandoli come si deve per poi confinarli in sorvegliatissime riserve.
Ma ogni guerra ha le sue vittime, così Karl Urban, che è il belloccio della situazione, da Sacerdote finisce per diventare il capo supremo dei vampiri senza mostrare minimo segno di mutazione fisica, mentre i suoi ex alleati se la passano male, finendo accantonati dalle sempre generose ed aperte organizzazioni ecclesiastiche dovendo accontentarsi di lavori di bassa manovalanza.
Questo fino a quando viene rapita la figlia di Paul "Polpetta" Bettany, che decide così di tornare all'azione dispensando un sacco di legnate ai responsabili di quanto accaduto, arrivando perfino a ribellarsi alla Chiesa stessa.

Raramente mi capita di scrivere post che contengano, nella trama, quasi più di quanto si potrebbe dire dell'intera pellicola, e quando capita mi aspetto sempre di sfoderare sonorissime, spietate bottigliate che mi permettano di compensare le poche righe con un ottima dose di colpi ben assestati.
Invece, con Priest non mi sento neppure di farlo.
Perchè, per quanto pessimo questo film possa essere - e lo è, senza dubbio - non sono proprio riuscito ad incazzarmi abbastanza, forse perchè lo stesso pare perfettamente conscio dei suoi quasi illimitati limiti: dunque, al termine della visione, più che la voglia di rintracciare Stuart e dargli quel che si meritava sono stato più semplicemente sfiorato dal pensiero che una pellicola come questa è l'equivalente del tormentone musicale estivo che tutti detestano eppure, chi prima e chi poi, allo stesso modo finiscono a ballare, nella doccia così come al centro della pista nella discoteca del villaggio.
Detto questo, è quasi più divertente pensare ad una rilettura dello script che non ad una critica vera e propria - che occuperebbe giusto lo spazio necessario per qualificare Priest come uno dei più seri candidati a film peggiore dell'anno, o almeno membro certo della top ten del caso -: in un pieno calderone di generi poco abilmente mescolati - cyberpunk, western, azione, fantascienza, horror - si muove il protagonista, il nostro amico Polpetta, nato come ottima promessa - ricordo che rimasi stupito dalla sua performance in Gangster N°1 -, approdato al successo grazie ad ottimi lavori - Dogville e A beautiful mind - e poi precipitato in una sequela di pellicole tutte di ambientazione fantastico/religiosa e rigorosamente una peggio dell'altra.
A fare da nemesi, il come di consueto inespressivo Urban, che non contento di aver partecipato ad operazioni terrificanti come Doom, si presenta come una sorta di nuovo messia vampirico pronto alla guerra contro gli umani, governati con il pugno di ferro dalla sempre poco piacevole Chiesa - e nella critica alla stessa credo sia da ricercare la mia istintiva quasi simpatia per questa trashata galattica -, ragion per cui il nostro Polpetta avrebbe dovuto lasciare all'ex amico carta bianca fin da subito.
Se non fosse che, prima di avviare l'intera operazione, il buon Urban commette il madornale errore di rapire la figlia del suddetto Polpetta per stuzzicare il vecchio compagno d'armi - ma per quale motivo, poi!? -, allevata dal fratello - curiosamente, il Bill Compton di True blood - ed innamorata di uno sceriffo di frontiera - anche qui un altro vampiro, questa volta proveniente dal fantastico mondo di Twilight -: da questo momento in poi per il protagonista diventerà una questione d'onore fare il culo più grosso possibile a questi cattivissimi, deformissimi vampiri - tranne Urban, ovviamente, fico, ben vestito e dalla lingua sciolta, come già sottolineato - grazie anche all'aiuto di un'altra ex commilitona palesemente innamorata di lui - terrificante il siparietto "io sono stata presa dalla Chiesa vergine, Polpetta no, quindi per lui il passaggio è stato ancora più duro" -.
Passata qualche difficoltà iniziale, a suon di battute che ricordano il peggio delle pellicole action anni ottanta che tanto amo - finchè si resta nell'ambito - esplosioni e squartamenti vari, si giunge all'inevitabile conclusione positiva che apre gli scenari ad un ipotetico sequel.
A quel punto, un sorriso di quasi compatimento si dipinge sul mio volto: ma è tutta scena.
Maschera il brivido che possa accadere davvero.
Chissà, magari l'estate prossima, pronto a colpirci quando meno ce lo aspettiamo.
Sì, anche nell'intimità del bagno.

MrFord


"Las manos arriba cintura sola
da media vuelta danza kuduro
no te canses ahora que esto solo empieza
mueve la cabeza danza kuduro."
Don Omar feat. Lucenzo - "Danza kuduro" -

venerdì 29 luglio 2011

Il tesoro dell'Amazzonia

Regia: Peter Berg
Produzione: Usa
Anno: 2003
Durata: 104'

La trama (con parole mie): The Rock - che si fa chiamare Beck, sperando di portare la genialità del musicista in cucina e coltivare il sogno di aprire un ristorante - viene incaricato dalla versione miliardaria di Piney dei Sons of anarchy di recuperare il figlio, scapestrato avventuriero, che si è stabilito in una remota zona dell'Amazzonia dove impazza Hatcher, proprietario di una miniera e vero e proprio padrone di luoghi e persone lì residenti - o almeno questo è quello che gli piace pensare -.
Dopo un primo approccio piuttosto complicato, il giovane Travis e il suddetto The Rock dovranno unire le forze per cercare di sopravvivere, aiutare i rivoluzionari del posto a spodestare Hatcher e recuperare un antico manufatto: il tutto, con la promessa che, alla fine, Beck porterà a termine il suo compito. Ovviamente.
Inutile aggiungere che, per farlo, dovrà propinare una serie non indifferente di calci nel culo dei cattivi di turno.

A volte, è necessario poco perchè ci si senta soddisfatti di una visione.
Nel caso di questa incredibile, inqualificabile tamarrata, sono bastate la comparsata di Schwarzy ad inizio pellicola che incrociando The Rock regala un "Divertiti!", la presenza stessa del People's champion - come veniva chiamato ai tempi dell'apice della carriera come wrestler - e l'incredibile momento magico, così incredibile da riportarmi dritto dritto a quando avevo dodici anni e d'estate andavo a panini al prosciutto, Coca cola e filmacci di questo genere già dal mattino, della sequenza che vede il protagonista armato di due fucili a pompa rigirare le armi sulle dita, bloccarle sotto le ascelle, ricaricarle e rigirarle di nuovo prima di fare fuoco. 
Senza parole. 
Una cosa così non l'avrebbero osata neppure ai tempi d'oro dell'action movie, e nel pieno della calura estiva, l'amarcord suscitato non poteva che compensare tutti i clamorosi ed evidenti limiti della pellicola, a tratti davvero imbarazzante, seppur mai supponente come i blockbusteroni cui ci hanno abituati Michael Bay e soci negli ultimi anni.
Certo, vedere Christopher Walken imperversare in film di questo genere provoca la stessa sgradevole sensazione di necessità di bottigliate che ultimamente suscita De Niro nel sottoscritto, ma l'indimenticabile protagonista di Fratelli e Il cacciatore pare prendersi sul serio almeno quanto il film stesso, diretto da un Peter Berg che pare ben conscio dei suoi limiti e comincia a sperimentare quello che gli riuscirà senza dubbio meglio in Hancock e The losers, pellicole in cui l'azione appare subordinata ad una vena di comicità grottesca tipica del nuovo trend made in Usa figlio dell'Apatow style.
Fondamentalmente, oltre che ad un sano spegnimento di cervello tipico dei giorni di soffocante calura di luglio, Il tesoro dell'Amazzonia rappresenta un ritorno alla commistione avventura/azione che fece la fortuna di tanti personaggi divenuti ormai feticci personali del sottoscritto, e pur non raggiungendo le vette cui mi hanno abituato nel corso dell'infanzia Sly o Van Damme, offre qualche sana risata, Rosario Dawson nelle vesti di ribelle - doppiata malissimo con un ridicolo accento portoghese -, un paio di sequenze di lotta davvero niente male - soprattutto quella nella foresta - e tutti i classici tormentoni di genere, dai cazzotti che The Rock rifila con cadenza quasi rituale a Travis al rapporto tra i due, dall'alternanza battuta/cazzotto/battuta tipica di questo tipo di prodotto, per giungere fino al telefonatissimo ed autoimposto divieto del protagonista di non usare mai armi da fuoco ovviamente infranto nel momento in cui la situazione comincia a surriscaldarsi.
Una perla del trash riscoperta grazie a Dembo, che sta diventando un punto di riferimento per quanto riguarda le pellicole tamarre che mi sono perso negli anni in cui mi sono dedicato quasi esclusivamente alla scoperta del Cinema autoriale, e non vedevo nient'altro che mattonazzi a ripetizione pensando che cose come questa non mi servissero più.
Poco male, sbagliando si impara.

MrFord

"Whoa, thought it was a nightmare,
lo, it's all so true,
they told me, "Don't go walkin' slow
'cause Devil's on the loose.
Better run through the jungle,
better run through the jungle,
better run through the jungle,
woa, Don't look back to see."
Creedence Clearwater Revival - "Run through the jungle" -

giovedì 28 luglio 2011

The principal - Una classe violenta

La trama (con parole mie): Rick Latimer, insegnante dall'alcool facile e dal temperamento focoso, viene licenziato dalla scuola d'alto bordo in cui lavora dopo aver assalito in un locale il nuovo fidanzato dell'ex moglie, e trasferito in qualità di preside a Brandel, liceo dei bassifondi dominato da futuri boss del crimine come Victor Duncan, che controlla lo scenario scolastico grazie a droga, minacce, violenza e chi più ne ha, più ne metta.
Dopo un inizio difficile, il buon vecchio Rick, aiutato da Jake Phillips - capo della vigilanza interna - e da alcuni degli studenti più volenterosi, si dedicherà a mettere in pratica il suo piano per rendere Brandel una scuola come si deve.
Un piano semplice che si può riassumere in due parole: "Ora basta".

Esistono alcuni film che credo di aver visto un numero di volte tendente all'infinito, e che, ugualmente, riescono a non stancarmi mai, sostituendo alla sorpresa e alla tensione della prima visione il piacere totalmente irrazionale dell'appassionato di sapere ogni battuta a memoria, e rivivere ogni scena quasi si fosse preso parte ai ciak originali: The principal è uno di questi film.
Mito assoluto delle mie visioni d'infanzia, cult tra i favoriti dell'allora casa Ford, fulcro di scambi di citazioni tra me e mio fratello, ancora oggi scuote ricordi e sensazioni mai davvero sepolte, e quando - come nel caso della sera in questione - Julez riesce a spolverarmelo a caso facendo zapping, diviene da subito l'oggetto dell'attenzione cinematografica della serata, dimentico, come al solito in questi casi, di ogni riferimento alla tecnica o alla perfezione stilistica, quanto più inno alla becera tamarraggine degli anni ottanta nonchè ai film dell'epoca, ritmati dagli indimenticabili "momenti videoclip".
La moto di Rick Latimer, le sue battute a mezza voce - ottimo Belushi, in una delle sue parti più azzeccate dopo quella di Danko -, la sfida ad un sistema sovvertito dagli studenti, le scene cult inanellate una dietro l'altra, tanto improponibili quanto esaltanti ad ogni visione sono ancora oggi una calamita irresistibile: la scena nel locale in apertura, l'arrivo a Brandel con il tentativo di espulsione di Zack il bianco ed Emil - il dialogo con "il signor Fottiti e il signor Bianco di merda" è da antologia -, la moto lanciata sulle scale per fermare lo stupro di Miss Orozco, la lotta finale nelle docce degli spogliatoi, per non parlare di quel "le vuoi le patatine?" gridato a Duncan in una scena replicata ed imitata almeno un paio di milioni di volte nei contesti più disparati sono nel mio cuore al pari delle migliori sequenze di Grosso guaio a Chinatown.
L'atmosfera del film modello Sly, dunque, trasportata in un contesto urbano e forse troppo sociale per il nostro mito dal labbro da una vita propria, rielaborata attraverso un protagonista taciturno, disordinato, scombinato, infantile eppure responsabile, dalla battuta prontissima, capace di non tirarsi mai indietro eppure perfettamente umano nelle sue paure, coraggioso ma, come spesso gli capita di ripetere all'amico Jake, "molto stupido".
Inutile dire quanto piacere e quanto bene faccia, ogni tanto, al sottoscritto, respirare a pieni polmoni grazie ad una sana visione di questo tipo, capace di azionare la macchina del tempo, riportarmi all'età dell'innocenza e, al contempo, mostrare quanto l'intrattenimento di allora resti un modello ad oggi insuperato in quanto a provvidenziali spegnimenti di cervello nei giorni più intensi, o in quelli in cui, al contrario, non si vuole proprio pensare a nulla.
Quasi a voler dire a tutta voce: "Ora basta".
Rick Latimer aveva proprio ragione.


MrFord


"Well we got no choice
all the girls and boys
makin' all that noise
'cause they found new toys."
Alice Cooper - "School's out" -

mercoledì 27 luglio 2011

Agota Kristof (1935 - 2011)

So long, Agota.

MrFord

"Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro.
Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia."
Da "Trilogia della città di K"

Sons of anarchy Stagione 2

La trama (con parole mie): Jax Teller, dopo aver scoperto la verità sulle morti di suo padre e di Dana, moglie del migliore amico Opie, decide di attuare un sotterraneo piano per riportare i Samcro agli affari legali progressivamente abbandonando il traffico di armi, gli omicidi ed i rapporti con gli spacciatori, esautorando al contempo dal potere il patrigno Clay Morrow, leader del club.
Ma il piano di conquista di Charming da parte del nazionalista americano Ethan Zobell, legato a doppio filo agli ariani e ai Mayans, gang rivale, creerà non pochi problemi al club, innescando una spirale di ritorsioni e vendette che porteranno all'estremo il conflitto tra Jax e Clay: soltanto con una terribile rivelazione di Gemma, madre del primo e moglie del secondo, i Sons troveranno la forza di rinsaldare i loro legami e dare battaglia ai nemici.

Lo scorso anno, quando mi capitò tra le mani la prima stagione di questa serie, approcciai scettico le avventure dei Sons of anarchy: un pò per la classica promozione irritante dei distributori - "dai creatori di The shield" campeggiava fieramente sulla locandina -, un pò per una sorta di rapporto di amore/odio con i serial legati a protagonisti negativi, sempre potenzialmente interessanti ma raramente all'altezza delle aspettative.
Rimasi, al contrario, positivamente impressionato dal lavoro svolto sui protagonisti della serie e dalla durezza dei temi trattati, nonchè dall'approccio non certo delicato dell'intero prodotto: la puntata dedicata alla morte della moglie di Opie, poi, divenne uno degli episodi cult dell'intero anno passato, pensando al piccolo schermo e alle sue proposte.
Quello che non sapevo, e che ha addirittura convinto anche Julez, detrattrice della serie fin dalla sua sigla, era che con la seconda annata la qualità si sarebbe ulteriormente alzata, andando a contribuire alla creazione di un prodotto ottimo, in grado di colmare, nel mio cuore di spettatore bisognoso di un pò di oscurità anche nell'universo delle serie, le passate ed ormai concluse Oz, I Soprano e il già citato The shield.
La realtà fittizia di Charming ed i legami presenti tra i membri dei Samcro assumono un'importanza ancora maggiore rispetto alla prima stagione, e l'introduzione di un nemico d'eccezione come il politicante Zobell permette alla solidità della serie di compiere il passo definitivo verso la consacrazione: l'idea di una famiglia criminale alle prese con i suoi panni sporchi nel corso della sua più importante battaglia per la sopravvivenza diviene il leit motiv dell'intera serie, e permette agli autori di approfondire ogni protagonista rendendo l'intero club praticamente tridimensionale agli occhi dello spettatore, dando la possibilità anche ai charachters apparentemente secondari come Juice e Chibs di ritagliarsi un ruolo decisamente definito ed interessante.
Il lavoro svolto sui protagonisti, poi, ha dell'incredibile: Jax, Clay, Tara e Gemma sono ormai eredi ufficiali dei Mackie e dei Tony Soprano, ed il consolidarsi del rapporto tra le due donne in parallelo alla crescente rivalità dei due uomini definisce lo spirito contrastato e ribollente della serie.
La volontà di Jax di emanciparsi dalla criminalità a tutti i costi di Clay naufragata nel sapore del sangue e della vendetta e la progressiva presa di coscienza del suo ruolo di "principessa" dell'impero dei Samcro di Tara fanno il paio con il percepire l'inizio del declino da parte del leader del club ed il coraggio di Gemma nel portare un fardello nato come potenziale strumento di distruzione dei Sons e divenuto, infine, il veicolo per ritrovare un'intesa che pareva impossibile da recuperare.
Non mancano gli episodi memorabili, ma più che il singolo momento, a fare la differenza è davvero il cuore messo dietro ogni personaggio, in grado di rendere anche lo squilibrato Tig qualcosa di più di un semplice schiacciasassi assatanato, o il vecchio Piney il simbolo di uno spirito cui i giovani - Jax ed Opie su tutti - dovrebbero aggrapparsi per non finire risucchiati in una spirale di violenza che pare quanto più distante possa esistere dalla filosofia che guidò i First 9 alla costituzione del club.
Dunque, quella che doveva essere un rimpiazzo in minore delle scorribande di Vic Mackie e soci è divenuta una delle serie di riferimento di casa Ford, nonchè uno spaccato lacrime e sangue dell'America on the road che un vecchio cowboy come il sottoscritto non può non sognare, fatta di amici che diventano una famiglia sempre presente, legami stretti così a fondo da dover lottare perchè non soffochino ed al contempo un anelito di libertà e paura - in pieno stile Easy rider - che lascia più di qualche brivido correre lungo la spina dorsale. Neanche guidasse una Harley.

MrFord

"Riding through this world, all alone
god takes your soul; you're on your own
the crow flies straight, a perfect line
on the Devil's back until you die."
Curtis Stigers - "This life" -


martedì 26 luglio 2011

Case 39

La trama (con parole mie): dunque, questa è la storia del solito caso arrivato all'ultimo sulla scrivania della solita assistente sociale caritatevole con il solito amico potenziale fidanzato fico e generoso con la solita spalla solida che lavora in polizia che si risolve con un crescendo di tensione e massacri e finte follie legati alla solita bambina vittima di violenza da parte dei soliti genitori che paiono proprio due pazzi scriteriati ma non dicono nulla sulla natura della stessa, ovvero la solita piccola espressione del potere del demonio. Insomma, il solito film horror a tema.

Neppure il tempo di riprendermi dalle citazioni telefonate e dalle parti più banali di Insidious, ed eccomi alle prese con l'ennesimo film e l'ennesimo bambino - in questo caso bambina - terribile come protagonista che ruba a piene mani da tutto il campionario di genere, da L'esorcista a The grudge, da The ring a Shining, riuscendo senza alcuna fatica ad essere peggio - ovviamente - di tutte le pellicole appena citate.
E' curioso quanto la volontà di sfruttare l'inquietudine che può essere generata da un "mostro" celato dalle fattezze di una creatura apparentemente innocente possa distruggere sistematicamente qualsiasi buona idea - anche quando le stesse sono esigue, ma davvero esigue, come in questo caso - di uno script.
Certo, trattasi di film in grado di scorrere sempre, giocati tutti sulla tensione - se vogliamo chiamarla in questo modo - crescente - se vogliamo convincerci che lo sia - diretta allo scioglimento grazie all'ovvia risoluzione della vicenda, eppure è curioso quanto ogni riflessione sulla visione porti ad una riduzione del suo valore, praticamente il contrario di quello che accade con i film che vale veramente la pena vedere.
A tutto questo, si aggiunga che la scena - fastidiosa per una questione sensoriale, occorre ammetterlo - delle vespe che coinvolge Bradley Cooper è stata in grado di riportare alla mente del sottoscritto l'agghiacciante ricordo di Prossima fermata: l'Inferno, ribattezzato in casa Ford "L'uomo delle petecchie", intendendo come petecchie le vesciche - o presunte tali - che il "mostro" di turno si rimuove per conservarle come olive in salamoia in un vasetto che tiene dietro lo specchio del bagno.
Un richiamo come questo, senza alcun bisogno di prestare attenzione al resto della pellicola, causa il precipitare inesorabile dell'attenzione ben sapendo che potrà portare solo ed esclusivamente ad una visione completamente trascurabile nella nostra vita di noi spettatori.
Anche perchè le sequenze più efficaci arrivano dritte dritte dall'immaginario già solleticato dalle pellicole d'ispirazione succitate, e di conseguenza il loro potenziale "spaventevole" è pari a quello dei vecchi col girello del - quello sì davvero - grande Bubba Ho-Tep.
La cosa più curiosa è che un'attrice strapagata e strapremiata come Renèe Zellweger si presti ad un'operazione di questo tipo, più utile all'allora figlio del piccolo schermo Bradley Cooper come trampolino di lancio che ad una Bridget Jones in cerca di nuovi, milionari ingaggi.
Misteri del mondo del Cinema - di infima serie -.
Pensate: questo film è così lontano dal mio standard non solo horror, ma anche e soprattutto cinematografico, da ridurmi a chiedermi, nel bel mezzo del post a lui dedicato, il perchè di possibili motivazioni degli attori quasi mi trovassi nel peggiore dei blog gossippari.

lunedì 25 luglio 2011

Cielo di sabbia

La trama (con parole mie): siamo in Oklahoma nel pieno della Grande Depressione, e Jack ha appena perso entrambi i genitori. E' solo in una casa soffocata dalle tempeste di sabbia con poche prospettive e quasi nessuna speranza, quando il suo cammino incrocia quello di Jane e Tony, fratello e sorella di quelle parti rimasti soli al mondo come lui.
Inizia così un viaggio che li porterà fino al Texas orientale e segnerà il passaggio attraverso l'adolescenza, nonchè la prima, vera, grande avventura delle loro vite: una sorta di Stand by me in piena salsa Lansdale, tra sceriffi senza scrupoli, gangster, primi amori e un sacco di balle. A fin di bene e per rendere un pò più elettrizzante il racconto. In fondo, il viaggio conta più della destinazione, no!?

Leggere Lansdale è sempre un pò come tornare a casa.
Il vecchio Joe, alla mano di persona così come nella sua prosa scorrevole e veloce, ha il potere di trasportarmi nel pieno di un paesaggio e di vicende che sento sempre clamorosamente vicine, e come se non bastasse, riesce a raccontarle con un piglio sincero ed affettuoso, quasi fosse un vecchio amico, o lo zio che non si vede l'ora di avere seduto vicino ai raduni della famiglia, perchè è proprio un tipo tosto.
Onestamente, nonostante l'ambientazione che tanto mi ha riportato alla mente i fasti di Furore e Nemico pubblico di Mann, all'inizio ho faticato un poco a non pensare a Hap e Leonard, i personaggi simbolo dello scrittore texano nonchè vera marcia in più dei suoi lavori, ma con lo scorrere delle pagine, le avventure di Jack, Jane e Tony sono progressivamente riuscite a conquistarmi proprio per la loro natura fugace ed intensa, quanto solo quell'età in cui il futuro è un libro ancora tutto da scrivere può essere.
Dalla fuga sulla macchina presa ad un vicino inghiottito dalla tempesta di sabbia al primo incontro con Timmy e Bad Tiger, passando attraverso i vagoni merci dei treni e la vita da hoboes, la fotografia di un'epoca impietosa e durissima è filtrata attraverso le diverse sensibilità dei giovani protagonisti, dalla fame di vita quasi incontrollata della sfacciata Jane ai tumulti interiori di Jack, senza dimenticare la sensibilità e la saggezza "adulta" e silenziosa di Tony, cresciuto dalla sorella e ancora poco avvezzo alle delusioni e alle scoperte del mondo "all'avventura" che tanto pare sognare Jane.
Inoltre, a rendere interessante l'intera opera è l'approccio da toccata e fuga dato da Lansdale alle avventure dei tre ragazzi: quelle che potrebbero apparire situazioni centrali nell'economia del racconto diventano episodi quasi più importanti nella definizione progressiva dei caratteri dei protagonisti che non nello sviluppo della trama, ed i personaggi che i nostri ragazzi incontrano nel corso del loro viaggio volti destinati a divenire ricordi più o meno importanti di un album appena all'inizio: in questo senso, non passa inosservata l'apparizione di Pretty boy Floyd, celebre bandito del tempo, ritratto dall'autore come una sorta di eroe romantico della Depressione, finito a rapinare banche quasi per caso, e sempre pronto a difendere quello che ritiene giusto.
La sua uscita di scena dal romanzo, improvvisa e rapida, come un saluto fugace, rende bene la dimensione delle sfumature che Lansdale ha voluto donare a questo suo interessante lavoro: una sorta di nostalgica operazione legata ad un tempo passato e avventuroso, difficile eppure colmo di speranze e di sogni.
Un pò come la gioventù.
E se, dall'altra parte, troviamo uno Strangler che dichiara a Jack che continuerà a combattere fino a quando non troverà un giovanotto in grado di metterlo in difficoltà, dall'altra scopriamo l'amore ancora acerbo di due giovani che, chissà, forse si sposeranno, o forse non si incontreranno più.
Ma del resto, la destinazione non conta mai quanto il viaggio.

MrFord

"You can tell me all about it
on, the next Bardo
I'm sinking in the quicksand
of my thought
and I ain't got the power anymore."
David Bowie - "Quicksand" -

domenica 24 luglio 2011

Amy Winehouse (1983 - 2011)


So long, Amy.

MrFord

"We only said goodbye with words
I died a hundred times
you go back to her
and I go back to
I go back to us."
Amy Winehouse - "Back to black" -

Pusher 3 - Sono l'angelo della morte

La trama (con parole mie): nell'episodio conclusivo della trilogia dedicata al sordido mondo del sottobosco criminale di Copenaghen, Refn concentra la sua attenzione su Milo, boss di zona già apparso nei primi due capitoli della saga. 
Alle prese con la festa per il venticinquesimo compleanno della figlia Milena e deciso a ripulirsi dalla dipendenza dalla droga, l'uomo si troverà coinvolto in un traffico non voluto di ecstasy che lo costringerà a tornare al lato più oscuro della sua anima, trasformando la notte della festa in un vero e proprio massacro operato grazie all'aiuto del vecchio socio Radovan.
E alla violenza estrema di un'alba silenziosa e terribile si accosta il risveglio di un nuovo giorno che pare quasi non avvedersi di quanto accaduto nel buio.

Non mi sarei mai aspettato che Refn sarebbe riuscito a destreggiarsi così bene in un genere che mi pareva quanto di più lontano ci fosse dal suo attuale stile visionario e sconnesso: eppure la trilogia di Pusher, estremamente realistica e legata a doppio filo all'approccio del dogma, funziona, e funziona alla grande, arrivando addirittura a migliorare dalla prima alla terza pellicola, rinnovandosi pur mantenendo le stesse tematiche di fondo.
Cambiano i protagonisti - Frank, Tonny e Milo rispettivamente -, le vicende sprofondano in una spirale quasi insostenibile di oscurità interiore, aumentano la violenza e l'inesorabile sensazione di ineluttabilità del destino di questi personaggi, ma resta la sensazione di un degrado interiore dal quale è impossibile riuscire a liberarsi.
Se nel primo capitolo l'egoismo e le bugie di Frank la facevano da padroni e nel secondo la solitudine crescente di Tonny costruiva ed alimentava il suo desiderio di vendetta e fuga, in quest'ultima pellicola Milo incarna tutta la ferocia di chi non conosce o conoscerà altra strada se non quella che l'ha reso ciò che è.
E se da un lato troviamo un uomo disposto a confrontarsi con se stesso - il gruppo di sostegno - e profondamente legato alla figlia, dall'altro monta silenzioso il freddo furore di un individuo cresciuto nella violenza e nel sangue, che nella violenza e nel sangue è pronto a soffocare ogni problema che non riesca a trovare altra soluzione alternativa: così la pellicola stessa, velata dall'appoccio grottesco già mostrato nelle due precedenti nella prima parte, diviene una sorta di incubo gore da far ripensare al più scatenato dei Park Chan Wook nell'escalation finale, terribile nella sua progressiva esplosione ed esecuzione, dai colpi di martello alle interiora spinte nel tritarifiuti.
E proprio quando la tempesta di morte pare alle spalle, avvolta da una notte silenziosa e macabra come solo il profondo Nord sa offrire, un'alba inquietante nella sua tranquillità attende lo spettatore per proiettarlo in una dimensione che richiama il più spietato degli Haneke, e trova in una piscina vuota lo specchio di un'anima feroce e glaciale, ben oltre le meschinità di Frank e la follia priva di controllo di Tonny.
Milo giunge al limite estremo, e lo valica spinto da un Refn mai così deciso nel mostrare un male sotterraneo e sconvolgente, un lato selvaggio che neppure in Bronson e Valhalla rising si riuscirà ad osservare.
La trilogia di Pusher, dunque, già in grado di lasciare senza fiato come un pugno ben assestato al corpo nei suoi primi due capitoli, si conclude con un colpo secco destinato a lasciare una cicatrice profonda nel cuore dello spettatore, che si tratti di una fuga come fu per Frank e Tonny, o della presa di coscienza delle profondità più terribili della nostra Natura.
A Milo pare non pesare. E a noi?

MrFord

"Psycho Killer
Qu'est-ce que c'est
fa fa fa fa fa fa fa fa fa far better
run run run run run run run away."
Talking heads - "Psycho killer" -


sabato 23 luglio 2011

Pusher II - Sangue sulle mie mani

La trama (con parole mie): le storie di strada narrate partendo dal degrado della periferia di Copenaghen riprendono concentrandosi su Tonny, amico di Frank - fuggito dal Paese -, appena uscito di galera. 
Oppresso dai debiti, Tonny si rivolgerà al padre - detto Il Duca -, padrone di un'officina e boss della zona, per poter recuperare un pò di soldi, ma finirà per cacciarsi in guai ancora più grossi a causa degli amici e della scarsa stima che le persone hanno di lui.
Ad aggiungere benzina sul fuoco, il giovane scoprirà di essere anche divenuto padre, e apprenderà della morte in solitudine della madre: nella notte dei festeggiamenti per il matrimonio del suo migliore amico, l'escalation di violenza e degrado assumerà connotati terribili ed al contempo liberatori.

Neppure il tempo di prendere fiato dall'ottima conclusione del primo capitolo, e con l'inizio della seconda pellicola dedicata alla trilogia di Pusher Refn decide di puntare l'obiettivo su Tonny, amico dall'equilibrio decisamente precario di Frank, protagonista del film precedente.
Tonny è in carcere, sul punto di tornare in libertà, e attraverso il racconto di un piccolo boss dietro le mura, capiamo subito che le cose non devono girargli propriamente al meglio: il nostro ha contratto un pesante debito, che il suddetto boss non si è ancora preoccupato di riprendersi giusto perchè lo stesso Tonny è il figlio del Duca - omaggio del regista all'indimenticato John Wayne, a mio avviso -, uomo importante all'esterno nella realtà dei sobborghi di Copenaghen.
E proprio dal Duca il protagonista farà ritorno, nonostante il pessimo rapporto che lo lega al padre ed il trattamento che lo stesso pare riservargli di continuo, alla ricerca di un lavoro e di conferme che pare gli manchino fin dai tempi del suo rapporto - finito malissimo - con Frank.
Inizia così una nuova discesa nello squallore quanto e più di quello che era stato narrato nello stile più asciutto della sua carriera dal regista nell'opera precedente, concentrata tutta sul limitato, dispersivo, confuso Tonny, colpevole di mostrare una certa ingenuità quasi naif rispetto a vicende che richiederebbero una dose ben più consistente di pelo sullo stomaco per poter essere condotte con lo stesso piglio deciso del Duca.
Ma più che dal crimine, il peggio pare essere sottolineato dalla famiglia e dagli amici del protagonista, uomini e donne cresciuti ai margini che paiono non avere alcuna speranza o remora, da Charlotte - che lotta per tenere la custodia del figlio avuto da Tonny e poi lo lascia in disparte per sniffare e strafarsi - all'amico che getta la droga appena comprata da Milo - legame, gestito benissimo a livello di sceneggiatura, con il primo capitolo della trilogia - temendo un'irruzione della polizia nel suo appartamento e poi pretende di avere indietro i soldi usati per acquistarla, arrivando addirittura a farsi sparare dal protagonista per avere una scusa da presentare al Duca, fino al Duca stesso e all'impietoso discorso per la festa di nozze dell'amico del figlio che preferisce al figlio stesso, fatto qualche ora prima di chiedere a Tonny di uccidere la madre del suo secondogenito per questioni legate all'affidamento.
Un mondo sul baratro che ricorda le storie senza speranza dei Dardenne senza il filtro di un occhio da Cinema autoriale che Refn pare mettere soltanto parzialmente al servizio della sua visionarietà, certamente più spiccata rispetto alla prima pellicola, capace di sfiorare il grottesco come nella scena del furto nel concessionario di auto o gli squilibri cromatici cui il regista ci ha abituati con Bronson e Valhalla rising del locale scelto per la festa di nozze.
Grandissimo Mads Mikkelsen, finalmente protagonista assoluto, e funzionale il resto del cast, completamente al servizio dei disequilibri di Tonny.
Un Tonny che, con l'emancipazione del crescendo finale, cerca una rivincita non tanto rispetto alla società che lo ha posto al fondo del fondo fin dalla nascita quanto dalle persone che dovrebbero costituire la sua famiglia, dalla quale il figlio sancisce una sorta di definitivo distacco, aprendo le porte ad un terzo ed ultimo capitolo che, sulla carta, potrebbe superare addirittura i precedenti: quel momento di pace, appoggiato al sedile dell'autobus con il piccolo in braccio cui ha fatto indossare il pannolino al contrario diviene l'anelito di libertà di una vita destinata, inesorabilmente, alla condanna.
E chissà che il figlio non possa avere un destino migliore del padre.
Chiediamolo al Duca.
E a Refn.

MrFord

"Sometimes I don't
want to face life
sometimes I feel empty inside
but every moment is precious
and everyone will turn to dust."
Soulfly - "Son song" -


venerdì 22 luglio 2011

Pusher

La trama (con parole mie): Frank, piccolo spacciatore di Copenaghen legato al boss Milo, viene contattato da un vecchio compagno di cella svedese che gli richiede una partita d'eroina enorme rispetto agli standard cui è abituato lo stesso Frank. Così, con l'aiuto dello squilibrato amico Tonny, il nostro pensa di cogliere due piccioni con una fava, alzare il prezzo di vendita e ripianare così un vecchio debito con Milo, oltre a fare sulla partita una buona cresta.
Peccato che la polizia sia sulle tracce dello svedese, tanto che lo scambio va molto, molto peggio di quanto ci si sarebbe potuti aspettare: la droga è persa, i soldi sequestrati e pare proprio che Tonny abbia deciso di vuotare il sacco con gli sbirri.
A questo punto per Frank il tempo diviene tiranno, a fronte di una scadenza sempre più stretta per il debito divenuto enorme con Milo, tanto da costringerlo a commettere ogni genere di follia per riuscire ad uscire vivo da una settimana decisamente no.


Da anni sentivo parlare della trilogia di Pusher, la saga che portò alla ribalta dei Festival Nicolas Winding Refn, ormai uno dei miei registi di culto: dunque, dopo averla faticosamente recuperata, mi sono tuffato nella visione di questo primo capitolo con enormi aspettative.
Posso dire, onestamente, di essere rimasto completamente spiazzato.
Abituato alla slegata visionarietà di Bronson e Valhalla rising, una vicenda come quella di Pusher mi ha di fatto riportato sulla terra, ben lontano dai viaggi fisici e mentali cui il buon Refn mi aveva abituato: l'approccio del regista, infatti, assume in questa sua opera i connotati principali della scuola del Dogma, ai tempi - siamo a metà degli anni novanta - di gran voga in tutto il Nord Europa non sempre con risultati esaltanti, e li filtra con una serie di omaggi appassionati al Cinema che l'ha formato - dalle numerose locandine che si intravedono nel corso dello svolgimento della trama ad uno script che ricorda i tempi di lacrime e sangue del Mean streets di Scorsese -.
Un Refn completamente diverso, dunque, da quello che mi ero abituato a conoscere e gustare nelle sue produzioni più recenti, a tratti decisamente ancora acerbo e forse troppo condizionato dalla realtà cinematografica danese di allora, eppure in grado di confezionare un solidissimo, onesto prodotto che mi ha riportato alla mente i viaggi senza speranza di redenzione de L'odio e Killing Zoe, giocato tutto attorno all'inesorabile caduta di Frank, un personaggio completamente negativo ed approfittatore con il quale è difficile creare un legame empatico - cosa più semplice, paradossalmente, con il folle, irresistibile Mads Mikkelsen nei panni di Tonny - ma che si continua a seguire ugualmente giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, in attesa di scoprire quale sarà il suo destino.
Ottimi, oltre al già citato Tonny/Mikkelsen, i comprimari, fondamentalmente specchi di ciò che Frank non è o vorrebbe essere, dal boss appassionato di cucina e dai modi calorosi Milo al perfettamente caratterizzato personaggio di Rita, legata alla quale troviamo una delle scene migliori della pellicola, la telefonata di Frank che prelude alla presa di coscienza e alla fuga della giovane prostituta.
Il resto dell'ambientazione, invece, pare nutrirsi dello squallore di una Copenagher grigia e scialba, cui nulla servono i colori delle case basse o le luci martellanti delle discoteche e dei locali, teatro delle scene che più mostrano l'influenza esercitata su Refn dalle vicende scorsesiane di Johnny Boy e Charlie, che paiono, due decenni dopo e all'ombra del pessimismo del Dogma, aver perso anche quell'esiguo barlume di speranza che le attraversava.
Certo, si tratta di un ottimo inizio per quella che promette di essere una trilogia di tutto rispetto, nonchè l'opera più terrena e reale del visionario, sballatissimo Refn.

MrFord

"I am a big man
(yes I am)
and I have a big gun
got me a big old Dick and I
I like to have fun."
Nine Inch Nails - Big man with a gun

 

giovedì 21 luglio 2011

La ballata di Narayama

La trama (con parole mie): ai piedi del monte Narayama, una piccola comunità di contadini e pescatori vive dei frutti della terra affrontando le difficoltà e le prove che la vita e le stagioni riservano. Devoti alla divinità della montagna, gli abitanti seguono una regola secondo la quale ogni persona che abbia raggiunto le settanta primavere debba lasciare il villaggio accompagnata dal figlio maggiore per raggiungere Narayama e andare a morire sola, aspettando sotto forma di spirito che anche le persone amate la raggiungano, in futuro.
Una parabola legata a doppio filo con la Natura, che guarda all'Uomo come ad un curioso e contradditorio animale sociale ed analizza, dalle mura del focolare domestico alle leggi di paese, tutte le dinamiche di un piccolo, grande mondo.

Devo ammettere che, nonostante non conosca ancora a fondo la filmografia di Imamura, il regista nipponico ha sempre avuto il potere di stupirmi con ogni suo lavoro passato sugli schermi di casa Ford: ricordo la prima volta in cui incrociai il suo cammino, con il corto realizzato per la raccolta dedicata all'unidici settembre.
Alla prima visione rimasi sconcertato dalla follia che il regista pareva aver catapultato senza troppi patemi in quella manciata di minuti: eppure, con il passare del tempo, il suo messaggio è come sedimentato ed è riemerso cambiando pelle - dato che, nello specifico, il serpente era una figura centrale della simbologia utilizzata - divenendo ad oggi uno dei miei preferiti in quella raccolta.
Archiviata quell'esperienza, con le giuste tempistiche - non parliamo di un cineasta le cui pellicole passano come se niente fosse su uno schermo, per intenderci - cominciai a recuperare il resto dei suoi lavori, prendendomi il tempo e la freschezza mentale necessari ogni volta per intraprendere un viaggio all'interno del suo personalissimo universo.
Di La ballata di Narayama avevo già sentito parlare in più occasioni - in fondo è stata una delle più discusse palme d'oro degli anni ottanta -, e il dvd mi aspettava al varco da parecchi mesi, così, approfittando di qualche giorno di riposo in più, ho potuto trovare il respiro giusto per affrontarlo: devo ammettere che, rispetto alle aspettative che mi ero fatto, la materia e lo stile di Imamura sono molto più semplici di quanto non potessi pensare, i simbolismi - sempre presenti - molto chiari e di stampo che ora chiameremmo malickiano e la narrazione, seppur lenta, legata all'immaginario del Giappone rurale dei tempi andati che ho imparato ad apprezzare in pellicole indimenticabili come Onibaba o I sette samurai.
Le vicende dei contadini, dai biechi approfittatori ai grandi lavoratori, dall'amore alla morte, dalle risate al dramma profondo, mantengono una sobrietà sorprendente per lo stile spesso estremo del regista, che si libera soltanto nella parte finale, con la scalata della montagna da parte di Tatsuhei e della sua vecchia madre, in un crescendo che ricorda l'Herzog migliore e che, senza dubbio, rappresenta l'apice di una pellicola giocata fino a quel momento sul basso profilo tenuto dal suo autore.
La galleria dei personaggi - come sempre per le opere corali di questo tipo - è memorabile, per quanto limitante per lo spettatore occidentale, specie se non avvezzo all'ironia o all'approccio tutto giapponese rispetto alla vita, contestualizzata inoltre in un passato ancora più distante dagli usi e costumi che siamo stati abituati a conoscere dalle nostre parti.
Una pellicola, dunque, certo non per ogni palato, sicuramente in grado di risultare ostica o eccessivamente autoriale, eppure, vista da un'altra prospettiva, estremamente semplice e popolare, incentrata sui concetti di famiglia, società e ruolo degli anziani nella stessa.
Splendido, in questo senso, il monologo di Tatsuhei che, nel corso della scalata, racconta alla madre di come, a trent'anni da quel momento, sarà suo figlio a portarlo in spalla in cima al Narayama, e così ancora trent'anni dopo farà suo nipote con lui.
Un circolo di vite che non si esaurisce, e continua ad essere perpetrato anche dopo il ritorno al villaggio dello stesso Tatsuhei, testimone di nuove e future nascite.
Una lezione di semplicità per un film che, una volta scoperto, non si lesinerà certo dallo stupirci.

MrFord

"Am i cracking up
or just getting older?
you're not cracking up
you're just getting older
we're not cracking up
we're just getting older."
Oasis - "Getting older" -

mercoledì 20 luglio 2011

Harry Potter e i doni della morte Parte 2

La trama (con parole mie): Harry Potter e i suoi fedeli amici Ron ed Hermione sono all'ultimo atto della loro battaglia contro Voldemort, il nemico che ha perseguitato il giovane mago fin dall'infanzia. La lotta sarà all'ultimo sangue, e coinvolgerà il mondo dei babbani così come tutte le creature magiche viste nel corso dei dieci anni che hanno dato vita ad una delle saghe letterarie e cinematografiche di maggior successo di tutti i tempi.
I nodi verranno al pettine, molti moriranno e lo stesso Harry dovrà essere pronto a sacrificare perfino se stesso per riuscire ad annientare il suo pericolosissimo nemico: effetti, combattimenti, aura dark, voli vorticosi come in una giostra in 3D, chi più ne ha più ne metta.
Peccato che la sceneggiatura di questo attesissimo ultimo capitolo sia, forse, la peggiore mai portata sullo schermo nel corso dell'epopea del signor Potter.

David Yates e la gigantesca produzione Warner si erano risparmiati tutto per il confronto decisivo Potter/Voldemort: la decisione di spezzare l'ultimo romanzo della serie in due film, oltre che dettata dalla praticità di poter approfondire meglio i molti avvenimenti, è stata influenzata certamente dal marketing e dalla volontà di tirare fuori più soldi possibili dagli ultimi incantesimi di Harry e soci.
Allo stesso modo, nello strutturare I doni della morte, regista e sceneggiatori si sono concentrati sul creare aspettativa nel corso dell'intera prima parte per poi esplodere il tripudio degli effetti e delle emozioni nella pellicola che, di fatto, chiude un lungo capitolo delle vite di spettatori, cast e, in qualche modo, del Cinema, che per la prima volta ha assistito alla creazione di un universo snodato attraverso dieci anni e otto pellicole, capace di accompagnare nella crescita i suoi protagonisti da una parte e dall'altra dello schermo.
Purtroppo, devo ammettere che l'avventura legata alla settima arte del mago più famoso della letteratura non si è conclusa nel migliore dei modi, e neppure in quello che speravo: nonostante il 3D - ma è davvero utile questo supporto che così tanto sta influenzando il mondo del Cinema? -, gli effetti, l'emozione inevitabile provata rispetto alla conclusione di una saga iniziata tanto tempo fa, la seconda parte de I doni della morte pare non decollare mai, e ad un inizio ancora più lento ed inconcludente del film precedente accoda l'ormai consueta, titanica, signoredeglianellesca battaglia con tutto il campionario delle creature e dei personaggi mostrati nel corso delle avventure di Harry, priva però di un supporto sostanzioso da parte dello script, che pare proprio tagliato - male - con l'accetta ed assolutamente inconsistente, a tratti privo di logica e votato a soluzioni di comodo confezionate giuste giuste per la risoluzione della singola scena - l'arrivo a Hogwarts e l'improvvisa apparizione dei membri dell'Ordine della fenice, la comparsa di Hagrid a tre quarti dello svolgimento del film già nelle mani di Voldemort, l'assenza di Codaliscia, il poco giustificato finale che non svela nulla del futuro dei protagonisti solo per citarne alcune - ma mai davvero efficaci.
Fortunatamente, a salvare l'intera visione, baracca e burattini, ci pensa una sequenza splendida dedicata al viaggio di Harry nei ricordi di Piton attraverso il Pensatoio di Silente, unico momento di vera, sentita, grande emozione all'interno di uno spettacolo che pare principalmente votato al profitto, e che neppure lontanamente - nonostante l'evidente ispirazione - raggiunge i livelli de Il ritorno del re, e neppure dei più riusciti film della saga - Il calice di fuoco è distante anni luce -.
Dimostrazione, questa, del fatto che Yates, forse, avrebbe dovuto, oltre che sull'atmosfera, concentrarsi sulle caratterizzazioni dei personaggi, sempre in grado di toccare il pubblico nel profondo ed ispirare chi sta dall'altra parte della macchina da presa regalando idee e sentimento, ancora la formula migliore del nostro amato Cinema, in barba alle nuove tecnologie e agli stessi effetti speciali, per quanto curati e d'impatto possano essere.
E' davvero un peccato non poter andare a fondo nell'analisi del viaggio nella memoria di Piton a causa degli spoiler che la stessa comporterebbe, dunque mi costringo a tacere e vi dico che se esiste un motivo per seguire quest'ultimo capitolo delle avventure di Harry Potter non è Harry stesso, la resa visiva, la battaglia contro le forze del male, il vorticoso viaggio all'interno della banca alla ricerca di uno degli Orcrux mancanti, o l'anticamera dell'Aldilà teatro del confronto tra Harry e Silente, e neppure la stessa conclusione: se esiste un motivo, sta tutto nell'esplosione di quello che, a conti fatti, è uno dei personaggi più sfaccettati, significativi ed interessanti dell'intero ciclo di film - e di romanzi -: Severus Piton.
A tenere alte le insegne del grande giocattolo di Harry Potter, dunque, alla fine è uno dei simboli della casa dei Serpeverde. 
Uno che è sempre stato un outsider, e ha sacrificato il successo personale per continuare a tenere i cavalli che avrebbero portato in trionfo il giovane Harry.
Senza dubbio, se è successo quello che è successo, gran parte del merito è suo.
Come accade per ciò che di buono si può trovare nella visione di questo film.

MrFord

"It’s all part of his charm
well, he’s drunk with power
and he’s on Malfoy’s side
been saying it since the first one,
I don't trust this guy.”
The Remus Lupins - "Snape" -
 

 

martedì 19 luglio 2011

Harry Potter e i doni della morte Parte I

La trama (con parole mie): il cerchio comincia a chiudersi sulla vicenda di Harry Potter e del suo antagonista Voldemort, dopo la morte di Silente divenuto il vero e proprio dominatore del mondo della magia, e non solo. Con gli organi di potere saldamente nelle mani dei suoi mangiamorte, colui che non deve essere nominato è pronto a sferrare il colpo decisivo all'Ordine della fenice e ai suoi membri: toccherà a Harry, Ron e Hermione fuggire e tenersi nascosti cercando al contempo di recuperare gli Horcrux, oggetti magici impregnati dell'anima del signore oscuro, per distruggerli e sperare di avere una chance per sopravvivere e salvare il mondo.

Onestamente, Harry Potter non mi è mai dispiaciuto.
Ho letto i primi cinque libri e visto tutti i film, e - con gli alti e bassi tipici di una saga così lunga - devo ammettere di essere sempre rimasto tutto sommato soddisfatto, considerato che, superati gli eighties ed escluso Il signore degli anelli, il grande schermo non è mai davvero stato capace, negli ultimi dieci/quindici anni, di proporre serie in grado di soddisfare il pubblico più giovane così come quello adulto che si incaricava di accompagnare figli, nipoti, fratelli e sorelle minori al Cinema.
Le vicende del mago creato dalla furbissima Rowling hanno senza dubbio il grande pregio di parlare a qualunque genere di spettatore mettendo in moto meccanismi d'immedesimazione in pieno stile fanciullesco "io sono questo e tu sei quell'altro, e ovviamente quello che sono io è molto migliore di quello che sei tu", un pò quello che accade a me e Cannibale quando non risparmiamo colpi bassi nelle nostre Blog wars.
A questo proposito, l'attesa per questo doppio ultimo capitolo era fervente sia da parte dei fan hardcore della saga, sia da parte di chi, pur avendola seguita solo cinematograficamente e magari senza averla apprezzata nella sua interezza si ritrova inchiodato alla poltrona mosso dalla curiosità del finale: il lavoro di Yates, già regista del cupissimo Il principe mezzosangue, è a mio parere senza infamia e senza lode, e se da un lato ha senz'altro il merito di risultare scorrevole ed accattivante, dall'altro paga il fatto di non essere altro che un raccordo tra il finale del succitato Il principe mezzosangue e la morte di Albus Silente e lo scontro finale tra Harry e Voldemort, fissato per la seconda parte di questo doppio ultimo capitolo.
In particolare, lo script pare funzionare a corrente alterna, e pur non risultando ostico per un non lettore del romanzo - e lo dico con coscienza, essendomi fermato al quinto dei libri - non riesce a generare la tensione che altri capitoli erano stati in grado di regalare all'audience - su tutti, il quarto, a mio parere ancora il migliore della serie, parlando sia dei romanzi che dei film -: l'atmosfera oppressiva e quasi dark della pellicola precedente viene addirittura resa più soffocante, ma appare più una questione di confezione che non di effettiva portata drammatica del lavoro di Yates, più preoccupato di seguire i suoi giovani divi nella loro corsa turbata dai tormenti adolescenziali e dalla presenza del malefico Voldemort che non di approfondire davvero l'intera galleria dei personaggi, quasi si volessero risparmiare i colpi migliori per la seconda parte.
Anche idee a loro modo coraggiose come la divertente scena dei molteplici Harry Potter o il racconto dei tre fratelli e i doni della morte - praticamente un corto d'animazione - finiscono per scomparire rispetto all'insistita attenzione posta dal regista sui suoi giovanissimi divi.
Una sorta di incompiuta, dunque, che probabilmente si rivelerà un successo o una delusione a seconda del risultato del finale che attende al varco in questi giorni i fan del giovane Harry e anche, probabilmente - ma non lo ammetteranno mai -, quelli che fingono che la cosa non li tocchi più di tanto, ma smaniano allo stesso modo di scoprire se, quando la polvere si sarà posata, Voldemort sarà sconfitto, e a quale prezzo.
Del resto, più o meno, poco importa.
Dimenticavo: io sono sicuramente un Serpeverde, ma Voldemort e soci li prenderei ugualmente a bottigliate.
In fondo, non vorrete mica che usi una bacchetta!


MrFord


"You brought it upon yourself
it's slow but final
with nothing to gain
you brought it upon yourself
it's slow but final
it starts today."
Dark tranquillity - "A closer end" -

lunedì 18 luglio 2011

La bettola: Cyb&Ford ( o Ford&Cyb) VS Unstoppable

La trama (con parole mie): sull'onda del successo dei recenti post a quattro mani, e non contento di gestire il saloon nel modo più selvaggio possibile, ho chiesto al buon vecchio di intercedere per me in modo che l'altrettanto selvaggia Cybsix accettasse di aprire una rubrica con il sottoscritto che speriamo vivamente di mantenere ad un ritmo quasi regolare, o almeno il più regolare possibile per due sciamannati come noi.
Ci occuperemo, mantenendo una certa rispettabile scurrilità, di prendere un pò per il culo tutti quei film che ci sono rimasti indigesti, provocando postumi ben peggiori della peggiore delle sbronze.
Divertitevi, e non esitate a suggerirci nuovi titoli da massacrare come si conviene.
L'inaugurazione è toccata ad Unstoppable di Tony Scott.
KLING!
La porta si apre sul vecchio bar all’angolo, distraendo le quattro mummie ubriache intente da ore a rubarsi la pensione a colpi di briscola.
Il posto è buio e umido - non sto neanche a dirvi cosa ricorda - ma in fondo alla stanza, il bancone sembra un nido accogliente nella penombra dei due piccoli fari appesi al soffitto.
Il proprietario del locale è un tutt’uno con le bottiglie impolverate e i bicchieri ingialliti, ma ha un’espressione sincera e sembra quasi credibile mentre asciuga le poche tazze della giornata.

"Cazzo Ford! Tua moglie mi ha detto che avevi un viso “particolare” ma, ‘fanculo! Che cazzo fai, infili la faccia nella piastra dei panini la mattina, prima di aprire il bar?!"

"Assolutamente sì, Cyb! Altrimenti come vuoi che lo conservi il mio stato di forma? Tu, piuttosto, ti sei gettata in una latrina giusto per farti un bagnetto? Puzzi quasi peggio dei debosciati che servo uno dietro l’altro qua!"

"Se avessi saputo che eri così brutto, sarei venuta qui a guardarti per un paio d’ore, piuttosto che perdere il mio tempo con Anstoppabol! Che cazzo! Se devo soffrire, allora meglio scegliere! Certo che anche una ceretta inguinale sarebbe stata meglio, perfino un film di Von Trier è meno doloroso di quella boiata."

"Credo che mia moglie potrebbe rifarti i connotati, se ti fermassi qui a guardarmi per un paio d’ore, quindi forse hai fatto meglio a schiaffarti Anstoppabol, per quanto brutto sia! E se provi a dire ancora una volta che qualsiasi cosa è peggio di quella vagonata di merda di Antichrist ti prendo a bottigliate così tanto che quando ti svegli “i tuoi vestiti saranno passati di moda”, e così ti becchi anche la citazione!
Niente è peggio di Antichrist, tranne Il mercante di pietre. Ma mi pare si stesse parlando di Denzellone nosto, o no?"

"Cioè dài, Denzel Uoscinton che fa il negro non si può vedere, e il tizio inutile con la faccia inutile e la vita inutile che gli fa da spalla? Ma perché? A cosa serviva un secondo eroe in questo film? Non bastava il caro vecchio Denzel che porta il treno, scavalca i vagoni, prepara il pollo fritto, esegue equazioni matematiche, comunica con gli alieni, prepara dell’altro pollo fritto, salta i fossi per lungo e sostiene la causa a nome di tutti i ferrovieri del mondo?"

"Guarda che l’altro tizio è nientemeno che il Capitano Kirk di Star Trek, che i treni li guida con la sola forze dell’uccello mentre legge un trattato di estetica e si scaccola selvaggiamente il naso! Uoscinton farà anche il negro alla grandissima, ma questa spalla ti tira giù anche gli invasori di un altro pianeta! E ti dirò di più, secondo me è stato anche il primo uomo a scoparsi una razza aliena, con buona pace di Jay e di Kevin Smith!"

"Porcocazzo! Non mi parlare di Star Trek! Che quella volta mi è toccato vederlo solo per la speranza di limonarmi il tipo con cui ero uscita e, invece, quello stronzo la lingua l’ha usata solo per ammorbarmi con le sue inutili storie!
Comunque, guarda, - a proposito di gente che fa cazzate -  io posso anche capire l’errore umano (a parte che se assumi il fratello stupido di Earl te lo devi pure aspettare) però ‘sti americani proprio non ce la fanno, cazzo! Prima di tutto mi devi dire che cacchio di misure usano: grattacieli??
“Hey! C’è un treno fuori controllo che viaggia a tutta velocità ed è lungo come un grattacielo!!”
Dove vai quest’estate in vacanza MrFord? Cosa?? A Canicattì? Minchia ma lo sai quanta strada c’è fino a Canicattì? Cioè, saranno 400-500 grattacieli! Io invece vado al lago. Saranno tre grattacieli e mezzo da dove sto io, mi piace stare comoda."

Ed ecco il cervello dietro la questione dei treni lunghi come grattacieli.
"Premesso che io detesto Earl e dunque anche quell’obeso inutile di suo fratello, direi che se penso che per tornare a casa dal lavoro mi devo sparare quattro o cinque grattacieli, e per giunta in treno (!!!) mi viene lo scorbuto, che è quella malattia che ti rende ancora più scontroso di quanto tu già non sia."

"Scontroso?! Ma come cazzo parli Ford?!? Nel tuo caso io parlerei di gran SKASSALKAZZAJA!"

Lou Ferrigno ai tempi in cui soffriva di scorbuto.
"Meno male che ho Lansdale da leggere nel tragitto! Spero giusto giusto che ci sia un Denzello pronto a prepararmi un bel pollo quando torno a casa!
Tra l’altro ho sentito qualche tuo mugugno in sala a proposito del tipo southern che pare quasi quasi un Kid Rock da vecchio, l’unica cosa che salverei della pellicola, con quel suo look da Sons of Anarchy che stimola immediatamente il mio rispetto. E poi che credi, non vedi che anche io ho la coda da redneck, cazzo?! Hai esagerato un’altra volta e cominci ad avere allucinazioni? Guarda che non ti faccio più bere razza di debosciata!"

"Senti ciccio, vedi di darti una calmata! Se a te piace attirare l’attenzione su quell’osceno codino floscio che ti ritrovi, piuttosto che qualcuno ti domandi che forma di vita aliena stia crescendo su quel pianeta chiamato pelata che hai, sono stracazzi tuoi!
A proposito di cose orribili… Rosario Dawson. Qualcuno vuole finalmente dire la verita?! E’ possibile che nessuno si sia accorto che è un travone?! Ma lo vedo solo io? E passi per il fatto che ha le tette e un ciccio, ma cosa ci fa Rosario Dawson a capo di un ufficio come quello? E si capisce che non sa dove sbattere la testa! Tutti lì a domandarsi: “quale sarà mai il misterioso materiale chimico che trasporta il treno??!”. E tutti lì a guardarsi intorno beoti, chi si scaccola, chi si gratta il culo, finché non arriva giusto giusto il tipo della sicurezza ferroviaria alias il portatore di luce! Ma scusa, mai sentito parlare di Wikipedia??!!"

"Parliamo invece di quanto ridicolo sia il solito confronto con il solito stronzo, cattivo, stupido, avventato, incontinente, impenitente, reticente, demente, prepotente, serpente e qualsiasi cosa che finisca in –ente, e magari anche ciellino? Ma solo nei film di ‘sti ammerrigani uno si prende tutte le cazzo di libertà che vuole senza uno straccio di lettera di contestazione,  e alla fine ha pure ragione e il capo viene licenziato e lui/lei viene preso al suo posto?"

"Ma guarda che succede anche in Italia. Nella vita reale però."

"Cyb, ma ti è mai capitato di provare quell’istinto di scaraventare bicchiere, divano, telecomando e quant’altro contro il televisore, e l’unico freno è che lo stesso televisore l’hai pagato con gli ultimi soldi risparmiati in un anno e oltre di lavoro? Anstoppabol mi ha fatto correre il rischio due volte: con il cazzo di treno lungo meno di un grattacielo e pieno di bambini – che ovviamente non potevano fare una brutta fine – sfiorato dal trenone brutto grosso e cattivo, e quando il marine si cala mentre il macchinista stronzo e anche un po’ sindacalista cerca di frenare. Com’è che il soldato-pezzo di figo sopravvive, e l’altro sfigato di mezza età ci lascia le penne?"

"Non mi parlare di quei bambini! Diobono quanto facevo il tifo perché li beccasse in pieno! Ma perché devono urlare tanto?! Me lo devi spiegare. Non puoi pretendere che nei film ammerrigani uccidano un marine, lo sai che sono una delle due istituzioni più celebrate negli States: l’esercito e le ragazze di Hooters!
Perché, fatalità, le figlie – negre anche loro – di Denzellone lavorano da Hooters, però per pagarsi gli studi eh, chetticredi!! Mica come da noi che le zoccole la danno via al più poveraccio solo per poterla dare via un giorno a qualche cagasoldi!

La classe di meccanica quantistica che per mantenersi gli studi ha deciso di farsi assumere al gran completo da Hooters.
Comunque, la scena clou, il motivo unico e solo per cui dobbiamo diffondere il verbo di Anstoppabol è la sparatoria per beccare il pulsantone rosso che dovrebbe far fermare tutto. Pulsantone che, ovviamente, sta a due centimetri dalla cisterna della morte, hai presente? Quella con sopra stampato un enorme teschio con scritto: NON SPARATE QUI."

"Io non sparo dritto in mezzo ai tuoi occhi da triglia lessa soltanto perchè altrimenti non riusciamo a finire la recensione, ma guarda che oltre al mio codino da redneck – che non è attaccato a nessuna pelata, bada bene, ora che mi tolgo il cappello da cowboy – mi sono annotato ogni tua parola contro quel pezzo di figliola di Rosario Dawson, una roba di quelle che ti ribalta neanche fossi Alessandro Magno. Quindi finisci di bere e vediamo di chiuderla qui, perchè io sparo meglio di quella mandria di rincoglioniti dei soldati finti duri di questa robaccia di cui stiamo parlando."

"Adesso ti lascio Ford, ho di meglio da fare. Ci vediamo la prossima volta, ma cerca di farmi trovare un bicchiere pulito almeno!"

"Brava, vedi di sparire dalla mia vista. E prima di uscire, vedi di salutare come si conviene e lavarti quelle manine luride la prossima volta che passi di qui, altrimenti tutto il mio lavoro di gomito non serve a una beata fava!"

KLING!
Lui continua a sbraitare, ma tanto lei se ne è già andata.
La porta si chiude lasciando intravedere per un attimo una luce, forse il sole di mezzogiorno. Ma a quelli della bettola non importa, a loro quel buco umido e puzzolente piace, piace da morire.

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