Wrestlemania XXVI è agli archivi.
E' stata una delle edizioni più attese degli ultimi anni, costruita benissimo e non altrettando ben eseguita. Molti incontri, troppi privati di un minutaggio adeguato, sprecato per momenti che sarebbero stati più utili se ridotti.
Ad ogni modo, grandi emozioni, e un crescendo che ha reso l'ultima parte dello show davvero notevole.
Al contrario di quanto pensavo inizialmente, però, mi dedicherò solo ed esclusivamente al match che ha chiuso l'evento, una perla per coinvolgimento e pathos pur se non tecnicamente perfetta come quella che i suoi stessi due protagonisti avevano regalato lo scorso anno, calcando le scene del Grandaddy of 'em all.
Ora, posso immaginare che, dopo una carriera stellare che lo ha portato a vincere tutto e in tutti i modi, e a regalare gli incontri migliori dell'ultimo ventennio, Shawn Michaels abbia tutta la voglia, a quarantacinque anni suonati, di dedicarsi alla famiglia e godersi i soldi che si sarà guadagnato e messo da parte nel corso della carriera senza più farsi sbatacchiare sul ring come l'ultimo dei ventenni.
E, rispetto a questa decisione, ha tutta la mia stima, comprensione e sostegno.
Vero sarà anche che le voci che vogliono la storyline che ha portato al suo ritiro altro non sia che una scusa per riprendersi dagli accacchi fisici, avere un periodo di riposo molto lungo e tornare, splendido splendente, per la prossima Wrestlemania.
Vero sarà che, prima o poi, l'ultimo grandissimo interprete del wrestling figlio degli anni '80 dovrà pur appendere la calzamaglia al proverbiale chiodo.
Vero sarà che domenica notte - per me ieri sera - Undertaker, altro grande mito del quadrato, ha posto fine alla carriera di Michaels.
Vere saranno tante cose.
Ma da queste parti, con il cuore in gola, e dopo aver visto cosa significa mettere tutto nella professione che si adora - perchè, gran soldi a parte, superata una certa età, ego o passione che sia, bisogna dover amare alla follia il wrestling lottato per tirare fuori certi numeri e richiedere uno sforzo così prolungato ed estenuante al proprio fisico -, l'incontro delle grandi speranze che ha reso unico un evento che altrimenti non avrebbe avuto neppure lontanamente lo stesso spessore non è finito come quello che potrebbe essere ammesso come vero.
Chi dice che non si può cambiare la realtà, in fondo? Specialmente scrivendo.
E chi dice che non si può continuare a sperare?
Io non ho mai smesso. Neppure di fronte all'evidenza.
Neppure di fronte a quell'ultimo Tombstone piledriver che ha fatto sobbalzare i cuori e distrutto le speranze che li avevano fatti tambureggiare fino a quel momento.
Neppure di fronte all'uscita dalla cosiddetta gimmick di Undertaker che, dopo aver apostrofato Shawn come "Il figlio di buona donna più tosto che abbia incontrato" lo abbraccia in barba ad ogni interpretazione del suo personaggio.
Neppure di fronte alla dichiarazione tutta umana dello stesso Michaels che, senza riuscire a piangere per il suo ritiro, e giustamente, di fronte al pubblico in delirio afferma, avviandosi agli spogliatoi, "vado a crescere i miei figli".
Neppure di fronte al Grandaddy of 'em all e ai suoi risultati.
Io non smetto di sperare.
Da queste parti, la realtà dei fatti sta tutta in una formula semplice semplice.
17-1.
Il vincitore è Shawn Michaels.
"Some will win, some will lose, some are born to sing the blues."
MrFord
Pagine
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mercoledì 31 marzo 2010
martedì 30 marzo 2010
Up!
Proprio ieri citavo Carl Fredricksen, e ora colgo la palla al balzo.
Prima che ci siano dubbi di sorta, Up! è il miglior prodotto mai realizzato da quei genietti dei Pixar Studios, e sì, supera anche l'insuperabile Monsters and Co. Non per nulla è firmato dallo stesso regista, mi viene da pensare.
Fatto sta che, onestamente, in più di un momento, nel corso della visione, ho pensato che avrebbe potuto insidiare Gran Torino come miglior film del 2009.
Up! è, innanzitutto, un prodotto complesso e stratificato, che prescinde dalla tecnica e dai generi - e ormai l'animazione andrebbe considerata alla pari con le pellicole "vere" -, e si colloca sin dai primi minuti fra le pellicole indirizzate ad un pubblico certo più adulto di quello che si potrebbe immaginare guardando il trailer.
I primi quindici minuti sono una lezione di puro Cinema, poesia delle immagini, maestria di narrazione: riuscire a condensare la vita di due persone dall'infanzia alla morte, amore e vita insieme compresi, in una manciata di minuti, per di più con l'ausilio delle sole immagini, è impresa ardua, che solo i grandi possono compiere senza scadere nel patetismo e nella retorica.
Se fosse un film a parte, l'inizio di Up! e la storia di Carl e Ellie potrebbero essere annoverati fra i più grandi di ogni tempo riguardanti l'amore, e la vita insieme come veicolo dello stesso.
Carl, vedovo della sua Ellie, si ritrova, come Walt Kowalski, a dover fronteggiare il mondo tornando a giocare in difesa, sfiduciato e solo di fronte a qualcosa che sente non appartenergli più, quasi il suo unico scopo fosse la magica, straordinaria routine quotidiana con la sua compagna di vita. E, di nuovo come il suo coetaneo grantorinese, l'elemento "di disturbo" esterno nella persona di Russell, giovane e senza una vera guida paterna - proprio come Thao -, rappresenterà l'occasione non solo di un riscatto, ma anche di una rinnovata energia rispetto alla vita, la stessa che, tanti e tanti anni prima, l'aveva portato in una casa abbandonata dove la sua più grande avventura - quella al fianco di Ellie - era iniziata.
Il fantastico mondo che si cela alle favolose Cascate Paradiso, le avventure, le risate e il ritmo incessante che ne derivano, divengono un surplus per una pellicola da antologia, che tiene inchiodati alla poltrona e, senza mezzi termini, strizza i cuori di ogni spettatore, mescolando gioia, commozione, coscienza di una perdita e di una riconquista, e soprattutto, un incalcolabile, enorme, straordinario amore per la vita. Anche quando significa perdere la cosa più cara che hai.
Perchè in realtà non si perde, e quando la si vive a fondo, non ci sono case, viaggi, incontri che possano cambiare il fatto che è sempre con noi.
E sfido qualunque essere umano a non rimanere senza fiato - e con le lacrime agli occhi - di fronte all'ultima (?) pagina del Libro delle avventure di Carl e Ellie.
Niente storie, insomma.
Up! è un capolavoro. Di quelli veri, e grandi.
Se non l'avete ancora visto, guardatelo. E se l'avete già fatto, fatelo di nuovo.
Sarà un piacere anche più grande.
E prima di veleggiare verso il resto dell'oceano, scrivo questo pezzo pensando solo alla mia Ellie.
Lei lo sa che quella voglia, quella magia e questo grande viaggio esistono soltanto al suo fianco.
"Flesh and blood needs flesh and blood, and you're the one i need."
MrFord
Prima che ci siano dubbi di sorta, Up! è il miglior prodotto mai realizzato da quei genietti dei Pixar Studios, e sì, supera anche l'insuperabile Monsters and Co. Non per nulla è firmato dallo stesso regista, mi viene da pensare.
Fatto sta che, onestamente, in più di un momento, nel corso della visione, ho pensato che avrebbe potuto insidiare Gran Torino come miglior film del 2009.
Up! è, innanzitutto, un prodotto complesso e stratificato, che prescinde dalla tecnica e dai generi - e ormai l'animazione andrebbe considerata alla pari con le pellicole "vere" -, e si colloca sin dai primi minuti fra le pellicole indirizzate ad un pubblico certo più adulto di quello che si potrebbe immaginare guardando il trailer.
I primi quindici minuti sono una lezione di puro Cinema, poesia delle immagini, maestria di narrazione: riuscire a condensare la vita di due persone dall'infanzia alla morte, amore e vita insieme compresi, in una manciata di minuti, per di più con l'ausilio delle sole immagini, è impresa ardua, che solo i grandi possono compiere senza scadere nel patetismo e nella retorica.
Se fosse un film a parte, l'inizio di Up! e la storia di Carl e Ellie potrebbero essere annoverati fra i più grandi di ogni tempo riguardanti l'amore, e la vita insieme come veicolo dello stesso.
Carl, vedovo della sua Ellie, si ritrova, come Walt Kowalski, a dover fronteggiare il mondo tornando a giocare in difesa, sfiduciato e solo di fronte a qualcosa che sente non appartenergli più, quasi il suo unico scopo fosse la magica, straordinaria routine quotidiana con la sua compagna di vita. E, di nuovo come il suo coetaneo grantorinese, l'elemento "di disturbo" esterno nella persona di Russell, giovane e senza una vera guida paterna - proprio come Thao -, rappresenterà l'occasione non solo di un riscatto, ma anche di una rinnovata energia rispetto alla vita, la stessa che, tanti e tanti anni prima, l'aveva portato in una casa abbandonata dove la sua più grande avventura - quella al fianco di Ellie - era iniziata.
Il fantastico mondo che si cela alle favolose Cascate Paradiso, le avventure, le risate e il ritmo incessante che ne derivano, divengono un surplus per una pellicola da antologia, che tiene inchiodati alla poltrona e, senza mezzi termini, strizza i cuori di ogni spettatore, mescolando gioia, commozione, coscienza di una perdita e di una riconquista, e soprattutto, un incalcolabile, enorme, straordinario amore per la vita. Anche quando significa perdere la cosa più cara che hai.
Perchè in realtà non si perde, e quando la si vive a fondo, non ci sono case, viaggi, incontri che possano cambiare il fatto che è sempre con noi.
E sfido qualunque essere umano a non rimanere senza fiato - e con le lacrime agli occhi - di fronte all'ultima (?) pagina del Libro delle avventure di Carl e Ellie.
Niente storie, insomma.
Up! è un capolavoro. Di quelli veri, e grandi.
Se non l'avete ancora visto, guardatelo. E se l'avete già fatto, fatelo di nuovo.
Sarà un piacere anche più grande.
E prima di veleggiare verso il resto dell'oceano, scrivo questo pezzo pensando solo alla mia Ellie.
Lei lo sa che quella voglia, quella magia e questo grande viaggio esistono soltanto al suo fianco.
"Flesh and blood needs flesh and blood, and you're the one i need."
MrFord
lunedì 29 marzo 2010
Tutta la vita davanti
Finalmente mi cimento con un pò di Cinema italiano, prima che si dica che sono uno di quelli che si fossilizzano su un unico genere e si votano solo ed esclusivamente a quello.
Non avevo ancora avuto occasione di vedere Tutta la vita davanti, penultimo lavoro di Virzì - che ho sempre tenuto in discreta considerazione -, mosso anche da un certo scetticismo legato al suo insipido Napoleone dopo i fasti di Ferie d'agosto e Ovosodo: eppure, nonostante alcuni limiti, soprattutto di sceneggiatura, e più di un momento in cui il pedale dell'acceleratore è pigiato quel tantino di troppo, quasi il buon Virzì pensasse di essere diventato Fellini, la cosa funziona abbastanza.
La riflessione sull'Italia e il mondo del lavoro, così come la galleria di squallidi personaggi che popolano ogni sua realtà è valida ed inquietantemente veritiera, e la stessa protagonista assume, a tratti, gli odiosi tratti di chi predica bene e razzola male, anche se l'autore adora il suo personaggio e vorrebbe non presentarla in questo modo.
L'equilibrismo della protagonista rispetto alla vita è pari a quello della pellicola, che riesce (quasi)sempre a mantenersi in bilico fra il grottesco e il reale, la commedia e il surrealismo, retorica e sincera partecipazione: di certo questo non è un film da critica "dura e pura", troppo evidentemente furbetto e alla portata del grande pubblico, ma neppure esplicitamente mainstream, un pò come il saggio che Marta si danna a scrivere sul rapporto che intercorre fra Heidegger, le telefoniste del call center e i concorrenti del Grande Fratello.
C'è un pò di tutto questo, e anche altro, in Tutta la vita davanti, che ha dalla sua l'ottima scelta di lasciare i personaggi più forti e "rischiosi" - la madre di Marta e la vecchia signora Franca - ai margini e concentrarsi sulle imperfezioni che riflettono, invece, i protagonisti: ed è proprio a partire da uno di questi che Virzì regala l'unica, vera scena memorabile della pellicola, di quelle che ricordano al pubblico che di fronte si ha un autore che non sarà magari l'emblema della costanza, ma che cela dell'ottimo talento.
Il confronto fra Marta e Giorgio detto "Conforti" al termine dello spettacolo di cabaret organizzato dal sindacato è un esempio di misura ed intelligenza sopraffine: lei invaghita di lui che finisce a letto con la coinquilina Sonia - madre fragile mascherata da "buzzicona" - e che, con tranquillità disarmante, le presenta la moglie di cui non aveva mai parlato come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Come a dire che da qualunque parte - politica, lavorativa, di vita - si volti la testa la normalità è sempre legata ad un meschino, anche quando mosso da buoni propositi, egoismo.
Forse, per vincere questi limiti, è necessario sgobbare facendo tesoro dell'esperienza, e forse è proprio per questo che è necessario - ed incredibilmente interessante - avere "tutta la vita davanti": del resto Walt Kowalski, Carl Fredricksen, la madre di Marta e la signora Franca ne sono un perfetto esempio.
Godiamoci questa vitaccia, insomma, perchè forse - e dico forse - un giorno impareremo.
"E ognuno vive dentro i suoi egoismi vestiti di sofismi."
MrFord
Non avevo ancora avuto occasione di vedere Tutta la vita davanti, penultimo lavoro di Virzì - che ho sempre tenuto in discreta considerazione -, mosso anche da un certo scetticismo legato al suo insipido Napoleone dopo i fasti di Ferie d'agosto e Ovosodo: eppure, nonostante alcuni limiti, soprattutto di sceneggiatura, e più di un momento in cui il pedale dell'acceleratore è pigiato quel tantino di troppo, quasi il buon Virzì pensasse di essere diventato Fellini, la cosa funziona abbastanza.
La riflessione sull'Italia e il mondo del lavoro, così come la galleria di squallidi personaggi che popolano ogni sua realtà è valida ed inquietantemente veritiera, e la stessa protagonista assume, a tratti, gli odiosi tratti di chi predica bene e razzola male, anche se l'autore adora il suo personaggio e vorrebbe non presentarla in questo modo.
L'equilibrismo della protagonista rispetto alla vita è pari a quello della pellicola, che riesce (quasi)sempre a mantenersi in bilico fra il grottesco e il reale, la commedia e il surrealismo, retorica e sincera partecipazione: di certo questo non è un film da critica "dura e pura", troppo evidentemente furbetto e alla portata del grande pubblico, ma neppure esplicitamente mainstream, un pò come il saggio che Marta si danna a scrivere sul rapporto che intercorre fra Heidegger, le telefoniste del call center e i concorrenti del Grande Fratello.
C'è un pò di tutto questo, e anche altro, in Tutta la vita davanti, che ha dalla sua l'ottima scelta di lasciare i personaggi più forti e "rischiosi" - la madre di Marta e la vecchia signora Franca - ai margini e concentrarsi sulle imperfezioni che riflettono, invece, i protagonisti: ed è proprio a partire da uno di questi che Virzì regala l'unica, vera scena memorabile della pellicola, di quelle che ricordano al pubblico che di fronte si ha un autore che non sarà magari l'emblema della costanza, ma che cela dell'ottimo talento.
Il confronto fra Marta e Giorgio detto "Conforti" al termine dello spettacolo di cabaret organizzato dal sindacato è un esempio di misura ed intelligenza sopraffine: lei invaghita di lui che finisce a letto con la coinquilina Sonia - madre fragile mascherata da "buzzicona" - e che, con tranquillità disarmante, le presenta la moglie di cui non aveva mai parlato come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Come a dire che da qualunque parte - politica, lavorativa, di vita - si volti la testa la normalità è sempre legata ad un meschino, anche quando mosso da buoni propositi, egoismo.
Forse, per vincere questi limiti, è necessario sgobbare facendo tesoro dell'esperienza, e forse è proprio per questo che è necessario - ed incredibilmente interessante - avere "tutta la vita davanti": del resto Walt Kowalski, Carl Fredricksen, la madre di Marta e la signora Franca ne sono un perfetto esempio.
Godiamoci questa vitaccia, insomma, perchè forse - e dico forse - un giorno impareremo.
"E ognuno vive dentro i suoi egoismi vestiti di sofismi."
MrFord
domenica 28 marzo 2010
The wrestler
La settimana più importante dell'anno per ogni fan di wrestling non poteva che essere inaugurata con il film che ha permesso ad Aronofsky di passare dalla categoria "regista pseudo intellettuale dalle pretese altissime e talento di una pippa da corsa" a quella, ben più lusinghiera, di "cazzo, questo è un film che poteva benissimo fare Clint Eastwood".
Poche palle, The wrestler è una di quelle pellicole che ti spaccano in due, ti sbattono a terra e senza darti tempo di riprenderti sono di nuovo su di te, facendoti sentire che si possono fingere (!?!?) o coreografare i colpi, ma mai e poi mai si potrà pensare che non esista la gravità.
La storia di Randy "The ram" Robinson, che non sto neppure a dire con quanta autobiografica passione è stato interpretato da uno straordinario Mickey Rourke, oltre ad una magnifica valenza in termini di riflessione umana sulla famiglia, il fallimento, la vecchiaia e la solitudine, è senza ombra di dubbio il film perfetto per ogni appassionato dello "sport entertainment" per eccellenza, e anche per i suoi detrattori.
Chi conosce (e ama) il wrestling, infatti, sa che il mondo dorato cui accede solo una ristrettissima manciata di atleti nasconde ombre scurissime, e tante piccole realtà che vedono giovani - e non solo - appassionati rischiare l'osso del collo solo per il "boato" di una folla alquanto esigua.
A queste si aggiungano l'isolamento umano, la dipendenza da antidolorifici e il doping, e si arriva all'agghiacciante risultato di un'aspettativa di vita media che, per tutti (o quasi) i grandi wrestlers degli anni '80 si attesta poco sotto i cinquant'anni. Eppure, il grande carrozzone di questo circo continua a girare, e i Ram ad entusiasmare un pubblico che sa che, davvero, "quello è l'unico posto in cui non si fanno del male".
D'altra parte, chi per wrestling intende soltanto una manciata di bulli palestrati in mutandoni sgargianti che fingono di prendersi a pugni si troverà di fronte una nuova visione di quella così finta disciplina all'interno della quale si pensa sia impossibile farsi del male.
Fidatevi, avendolo anche solo amatorialmente provato: imparare a cadere non è facile, così come pensare che ogni incontro con il tappeto, contraccolpo, pugno accompagnato non comportino effetti devastanti sul fisico. E stiamo parlando di tre orette in un capannone sperduto della Comasina a sbatacchiarsi in tranquillità su un ring, senza troppe pretese.
Ad ogni modo The wrestler non è solo un film incentrato sull'argomento specifico, ma anche il percorso di un loser in piena filosofia springsteeniana che pare poter arrivare in cima soltanto per cadere più rovinosamente, una piccola perla di tecnica cinematografica (e attenzione, me lo sta facendo dire l'ex Mr. Pippa Aronofsky) - straordinario il lavoro sul montaggio, e la scelta della macchina a spalla -, un'amarissima favola suburbana persa nelle "badlands" delle periferie.
E restano, oltre alla performance di Rourke, momenti di contagioso e spontaneo divertimento - la partita al Nintendo, la visita al negozio di vestiti, il servizio al bancone del centro commerciale - accanto a tuffi al cuore - il confronto con la figlia al parco giochi, il percorso dagli spogliatoi al bancone, accompagnato dal ricordo del boato della folla che scompare, il ritrovo con le leggende del ring che firmano autografi, l'affettatrice - capaci di segnare anche il bullo in mutandoni sgargianti più duro.
E il volo finale di Randy in lacrime, cuore matto e coscienza di tutti i suoi errori, delle solitudini e dell'amore, quello per e dal pubblico che pare eterno e quello tutto umano che si è lasciato sfuggire, è carico di tutta la forza che solo una vita vera e vissuta può dare, infinito e sofferto come solo quello di un "ariete scatenato" può essere.
Meno male che il wrestling doveva essere tutto finto.
"If you ever seen a one armed man than you've seen me."
MrFord
Poche palle, The wrestler è una di quelle pellicole che ti spaccano in due, ti sbattono a terra e senza darti tempo di riprenderti sono di nuovo su di te, facendoti sentire che si possono fingere (!?!?) o coreografare i colpi, ma mai e poi mai si potrà pensare che non esista la gravità.
La storia di Randy "The ram" Robinson, che non sto neppure a dire con quanta autobiografica passione è stato interpretato da uno straordinario Mickey Rourke, oltre ad una magnifica valenza in termini di riflessione umana sulla famiglia, il fallimento, la vecchiaia e la solitudine, è senza ombra di dubbio il film perfetto per ogni appassionato dello "sport entertainment" per eccellenza, e anche per i suoi detrattori.
Chi conosce (e ama) il wrestling, infatti, sa che il mondo dorato cui accede solo una ristrettissima manciata di atleti nasconde ombre scurissime, e tante piccole realtà che vedono giovani - e non solo - appassionati rischiare l'osso del collo solo per il "boato" di una folla alquanto esigua.
A queste si aggiungano l'isolamento umano, la dipendenza da antidolorifici e il doping, e si arriva all'agghiacciante risultato di un'aspettativa di vita media che, per tutti (o quasi) i grandi wrestlers degli anni '80 si attesta poco sotto i cinquant'anni. Eppure, il grande carrozzone di questo circo continua a girare, e i Ram ad entusiasmare un pubblico che sa che, davvero, "quello è l'unico posto in cui non si fanno del male".
D'altra parte, chi per wrestling intende soltanto una manciata di bulli palestrati in mutandoni sgargianti che fingono di prendersi a pugni si troverà di fronte una nuova visione di quella così finta disciplina all'interno della quale si pensa sia impossibile farsi del male.
Fidatevi, avendolo anche solo amatorialmente provato: imparare a cadere non è facile, così come pensare che ogni incontro con il tappeto, contraccolpo, pugno accompagnato non comportino effetti devastanti sul fisico. E stiamo parlando di tre orette in un capannone sperduto della Comasina a sbatacchiarsi in tranquillità su un ring, senza troppe pretese.
Ad ogni modo The wrestler non è solo un film incentrato sull'argomento specifico, ma anche il percorso di un loser in piena filosofia springsteeniana che pare poter arrivare in cima soltanto per cadere più rovinosamente, una piccola perla di tecnica cinematografica (e attenzione, me lo sta facendo dire l'ex Mr. Pippa Aronofsky) - straordinario il lavoro sul montaggio, e la scelta della macchina a spalla -, un'amarissima favola suburbana persa nelle "badlands" delle periferie.
E restano, oltre alla performance di Rourke, momenti di contagioso e spontaneo divertimento - la partita al Nintendo, la visita al negozio di vestiti, il servizio al bancone del centro commerciale - accanto a tuffi al cuore - il confronto con la figlia al parco giochi, il percorso dagli spogliatoi al bancone, accompagnato dal ricordo del boato della folla che scompare, il ritrovo con le leggende del ring che firmano autografi, l'affettatrice - capaci di segnare anche il bullo in mutandoni sgargianti più duro.
E il volo finale di Randy in lacrime, cuore matto e coscienza di tutti i suoi errori, delle solitudini e dell'amore, quello per e dal pubblico che pare eterno e quello tutto umano che si è lasciato sfuggire, è carico di tutta la forza che solo una vita vera e vissuta può dare, infinito e sofferto come solo quello di un "ariete scatenato" può essere.
Meno male che il wrestling doveva essere tutto finto.
"If you ever seen a one armed man than you've seen me."
MrFord
sabato 27 marzo 2010
The new world
Terrence Malick li ha veramente enormi.
Lui, di certo, userebbe inquadrature splendide e lunghi silenzi per dimostrarlo.
Se non fosse per la sua dilatata - molto, molto, dilatata - produzione artistica potrebbe insidiare Clint in vetta alla mia personale classifica dei registi statunitensi viventi, anche se basterebbe il solo La sottile linea rossa per poter pensare di essere di fronte ad un vero e proprio Maestro, oltre che ad una delle pellicole sulla guerra - e attenzione, non di guerra - mai prodotte.
The new world, senz'altro un progetto più ambizioso e, se vogliamo, conscio delle sue potenzialità rispetto al precedente - La sottile linea rossa, per l'appunto -, presenta fin da principio tutte le caratteristiche principali dei lavori firmati Malick: voce narrante fuori campo, gusto estetico spiccato rispetto alla Natura e alle sue sfumature, un ritmo contemplativo che pare sempre prendere il sopravvento rispetto allo sviluppo della trama.
Pervasa da questa sorta di magia, la storia di Pocahontas dalla quale è tratta la sceneggiatura pare quasi passare in secondo piano, per divenire lo specchio di un rapporto fra l'uomo bianco e i futuri Stati Uniti, e, soprattutto, un saggio sull'amore e le sue implicazioni che assume, nel corso delle quasi tre ore della pellicola, le dimensioni di un viaggio cosmico - Kubrick docet - che esplode in uno dei finali più struggenti del cinema "in costume" recente.
Dai tempi de L'età dell'innocenza, enorme e stupendo capolavoro di Martin Scorsese - ci sarà tempo e modo di parlare anche di questo -, non si vedeva su grande schermo un'epopea dal romanticismo così potente e ad un tempo magico ed estremamente realistico.
Il dualismo tra John Rolfe e John Smith, ovvero il confronto fra il lavoro e l'avventura, la costanza e l'improvvisazione, l'amore costruito giorno dopo giorno e la passione vissuta senza domani innalza ancor più il personaggio di Pocahontas/Rebecca, specchio di un America - e non Stati Uniti, badate bene - che Malick probabilmente rimpiange di non aver vissuto sulla pelle.
Personalmente trovo che il confronto fra Rebecca e Smith in Inghilterra, e quel botta e risposta "Hai trovato le tue isole, John?" "Forse le ho superate" sia uno fra i più straordinari momenti dell'amore visto dalla settima arte nella storia recente, antefatto perfetto di quell crescendo straordinario che è il finale, una sorta di sinfornia che incrocia Storia, amore, magia, realismo riportando alla memoria quella che è la pellicola simbolo del Cinema con la C maiuscola, 2001: odissea nello spazio dello Stanley già citato.
Chi prova a dire che Malick è palloso, o troppo autoriale, o qualsiasi stronzata di questo genere, venga allontanato dalle sale.
Voi sedetevi comodi, e lasciatevi trasportare da questo oceano.
"Baby we were born to run"
MrFord
Lui, di certo, userebbe inquadrature splendide e lunghi silenzi per dimostrarlo.
Se non fosse per la sua dilatata - molto, molto, dilatata - produzione artistica potrebbe insidiare Clint in vetta alla mia personale classifica dei registi statunitensi viventi, anche se basterebbe il solo La sottile linea rossa per poter pensare di essere di fronte ad un vero e proprio Maestro, oltre che ad una delle pellicole sulla guerra - e attenzione, non di guerra - mai prodotte.
The new world, senz'altro un progetto più ambizioso e, se vogliamo, conscio delle sue potenzialità rispetto al precedente - La sottile linea rossa, per l'appunto -, presenta fin da principio tutte le caratteristiche principali dei lavori firmati Malick: voce narrante fuori campo, gusto estetico spiccato rispetto alla Natura e alle sue sfumature, un ritmo contemplativo che pare sempre prendere il sopravvento rispetto allo sviluppo della trama.
Pervasa da questa sorta di magia, la storia di Pocahontas dalla quale è tratta la sceneggiatura pare quasi passare in secondo piano, per divenire lo specchio di un rapporto fra l'uomo bianco e i futuri Stati Uniti, e, soprattutto, un saggio sull'amore e le sue implicazioni che assume, nel corso delle quasi tre ore della pellicola, le dimensioni di un viaggio cosmico - Kubrick docet - che esplode in uno dei finali più struggenti del cinema "in costume" recente.
Dai tempi de L'età dell'innocenza, enorme e stupendo capolavoro di Martin Scorsese - ci sarà tempo e modo di parlare anche di questo -, non si vedeva su grande schermo un'epopea dal romanticismo così potente e ad un tempo magico ed estremamente realistico.
Il dualismo tra John Rolfe e John Smith, ovvero il confronto fra il lavoro e l'avventura, la costanza e l'improvvisazione, l'amore costruito giorno dopo giorno e la passione vissuta senza domani innalza ancor più il personaggio di Pocahontas/Rebecca, specchio di un America - e non Stati Uniti, badate bene - che Malick probabilmente rimpiange di non aver vissuto sulla pelle.
Personalmente trovo che il confronto fra Rebecca e Smith in Inghilterra, e quel botta e risposta "Hai trovato le tue isole, John?" "Forse le ho superate" sia uno fra i più straordinari momenti dell'amore visto dalla settima arte nella storia recente, antefatto perfetto di quell crescendo straordinario che è il finale, una sorta di sinfornia che incrocia Storia, amore, magia, realismo riportando alla memoria quella che è la pellicola simbolo del Cinema con la C maiuscola, 2001: odissea nello spazio dello Stanley già citato.
Chi prova a dire che Malick è palloso, o troppo autoriale, o qualsiasi stronzata di questo genere, venga allontanato dalle sale.
Voi sedetevi comodi, e lasciatevi trasportare da questo oceano.
"Baby we were born to run"
MrFord
venerdì 26 marzo 2010
Ab aeterno
Mi ero ripromesso di non parlare di Lost fino alla sua conclusione definitiva, ma l'episodio nove di quest'ultima stagione mi ha costretto ad uscire allo scoperto.
Nonostante il protagonista dello stesso sia Richard, un personaggio che mi ha sempre detto poco e che, credo non per nulla, si sia guadagnato negli anni il poco edificante soprannome di "uomo con il kajal", Ab aeterno è, senza dubbio, uno dei più interessanti e chiarificatori episodi dell'intera serie.
E non parlo di stagione, ma di serie. Sottolineo giusto per sottolineare quanto importante sia la materia trattata.
L'arrivo dello stesso Richard sull'isola e le sue origini, la Black rock e il suo naufragio, l'abbattimento della grande statua, la lotta secolare fra Jacob e il fumo nero sono solo alcuni dei segreti rivelati in questi densissimi tre quarti d'ora, capaci anche di riportare il buon Hugo ad un ruolo primario in una trentina di secondi, e di trasformare i due eterni - in tutti i sensi - nemici e padroni dell'isola in una sorta di portatori dei concetti di Bene e Male.
Ma il Bene giustifica davvero tutte le morti che l'isola e la sua battaglia avrebbero richiesto? E il male, tenuto prigioniero, può davvero rinunciare alla sua intima libertà?
Roba grossa, insomma.
Per non parlare della metafora delle pietre e del fatto che ogni "abitante" dell'isola deve trovarsi di fronte al "suo" male per trovare il "suo" bene.
Quasi senza dubbio, direi che si può considerare Ab aeterno come l'episodio più clamoroso mai passato sullo schermo di una delle serie più misteriose e complesse del panorama televisivo recente. E questo conta mica poco.
Detto ciò, il plauso più grande va alla squadra di sceneggiatori, totalmente geniali, che si prendono un momento nella follia sconsolata di Richard a inizio episodio per giocare un bel tiro a tutti - detrattori e fan - quelli che, negli anni, avevano ventilato l'ipotesi che l'isola fosse l'aldilà e che tutti i suoi abitanti erano morti.
Richard preso dallo sconforto che rivela a Jack il segreto "sei morto, siamo tutti morti, e questo è l'Inferno" è il piccolo colpo basso di uno straordinario team creativo, che ha messo in piedi, negli anni, la migliore serie tv di tutti i tempi.
E tacciano cortesemente tutti quelli "chepppalle Lost, è troppo complicato e non si capisce nulla", o vi mando dritto dritto mister fumo nero.
A tal proposito, devo ammettere di essere ancora vacillante, su quale parte scegliere: per prima cosa, lo split avvenuto fra gli ex sopravvissuti dell'Oceanic 815 punta tutto a favore dei "cattivi" - chi mai prenderebbe Jack, Hugo e Sun contro Sawyer, Sayid, Jin e Kate? -, per seconda non posso che prendere posizione con il mio protetto - Sawyer, appunto - e per terza, beh, Jacob definisce il suo avversario "man in black".
Cazzo, vuoi vedere che gli anti lostiani avevano ragione?
Che sono tutti morti e il capo dei ribelli è Johnny Cash?
4 8 15 16 23 42
MrFord
Nonostante il protagonista dello stesso sia Richard, un personaggio che mi ha sempre detto poco e che, credo non per nulla, si sia guadagnato negli anni il poco edificante soprannome di "uomo con il kajal", Ab aeterno è, senza dubbio, uno dei più interessanti e chiarificatori episodi dell'intera serie.
E non parlo di stagione, ma di serie. Sottolineo giusto per sottolineare quanto importante sia la materia trattata.
L'arrivo dello stesso Richard sull'isola e le sue origini, la Black rock e il suo naufragio, l'abbattimento della grande statua, la lotta secolare fra Jacob e il fumo nero sono solo alcuni dei segreti rivelati in questi densissimi tre quarti d'ora, capaci anche di riportare il buon Hugo ad un ruolo primario in una trentina di secondi, e di trasformare i due eterni - in tutti i sensi - nemici e padroni dell'isola in una sorta di portatori dei concetti di Bene e Male.
Ma il Bene giustifica davvero tutte le morti che l'isola e la sua battaglia avrebbero richiesto? E il male, tenuto prigioniero, può davvero rinunciare alla sua intima libertà?
Roba grossa, insomma.
Per non parlare della metafora delle pietre e del fatto che ogni "abitante" dell'isola deve trovarsi di fronte al "suo" male per trovare il "suo" bene.
Quasi senza dubbio, direi che si può considerare Ab aeterno come l'episodio più clamoroso mai passato sullo schermo di una delle serie più misteriose e complesse del panorama televisivo recente. E questo conta mica poco.
Detto ciò, il plauso più grande va alla squadra di sceneggiatori, totalmente geniali, che si prendono un momento nella follia sconsolata di Richard a inizio episodio per giocare un bel tiro a tutti - detrattori e fan - quelli che, negli anni, avevano ventilato l'ipotesi che l'isola fosse l'aldilà e che tutti i suoi abitanti erano morti.
Richard preso dallo sconforto che rivela a Jack il segreto "sei morto, siamo tutti morti, e questo è l'Inferno" è il piccolo colpo basso di uno straordinario team creativo, che ha messo in piedi, negli anni, la migliore serie tv di tutti i tempi.
E tacciano cortesemente tutti quelli "chepppalle Lost, è troppo complicato e non si capisce nulla", o vi mando dritto dritto mister fumo nero.
A tal proposito, devo ammettere di essere ancora vacillante, su quale parte scegliere: per prima cosa, lo split avvenuto fra gli ex sopravvissuti dell'Oceanic 815 punta tutto a favore dei "cattivi" - chi mai prenderebbe Jack, Hugo e Sun contro Sawyer, Sayid, Jin e Kate? -, per seconda non posso che prendere posizione con il mio protetto - Sawyer, appunto - e per terza, beh, Jacob definisce il suo avversario "man in black".
Cazzo, vuoi vedere che gli anti lostiani avevano ragione?
Che sono tutti morti e il capo dei ribelli è Johnny Cash?
4 8 15 16 23 42
MrFord
giovedì 25 marzo 2010
Nemico pubblico
Ancora fatico a comprendere i commenti - usciti anche dalle bocche di manniani convinti - legati all'apparente freddezza di questo film.
Ammetto - e sono colpevole, vostro onore -, che anni e anni fa, quando questa barca non c'era neppure immaginandola ed io ero giovane, di aver visto per la prima volta Heat pensando "chepppalle, non succede nulla per tre quarti di film!": beata, stolta gioventù!
Ora, ogni volta che mi regalo, in un pomeriggio o in una notte estiva, l'ennesima visione di quello che, a tutti gli effetti, è il capolavoro del buon vecchio Michael, penso esattamente che in quei primi tre quarti di film succede proprio tutto.
Ed è così anche per Nemico pubblico.
Ok, ammetto che Depp non ha offerto il meglio del suo repertorio, ma pare proprio che ultimamente si sia un pò troppo seduto sui suoi standard, il ragazzo; eppure questa pellicola dalla tecnica come sempre - Mann è una garanzia - sopraffina offre tutto il meglio delle atmosfere romantiche e crepuscolari dei grandi classici del western, e trova, compresa la chiusa quasi in silenzio dopo il roboante finale, la sua realizzazione migliore proprio in quelle che, ad un'occhiata distratta, potrebbero essere definite le sue sequenze "inutili" o fredde, per l'appunto.
L'evasione che apre la pellicola - che contende all'apertura di Bastardi senza gloria il titolo di miglior scena western post Gli spietati -, l'uccisione di Pretty Boy Floyd da parte di Melvin Purvis - da scuola del Cinema quanto poco basti a Mann per definire non uno, bensì due dico due personaggi, e dare spessore a quello, fra loro, che compare solo ed esclusivamente nella suddetta scena -, la dichiarazione d'amore di John Dillinger a Billie Frechette - inesorabilmente romantica nella sua impossibilità di realizzarsi -, quel "bye bye, blackbird" sussurrato come un testamento dalla maschera che si direbbe di granito del "texano dagli occhi di ghiaccio" tra i responsabili dell'omicidio di Dillinger stesso sono poesie tradotte in immagini dall'assoluto maestro dell'action movie made in Usa.
E poco conta se la Storia volle morto prima Dillinger di Floyd, o se Purvis stesso si sia effettivamente tolto la vita, anni e anni dopo i fatti narrati: Mann riscrive il western filtrandolo attraverso un'epoca, quella della Grande Depressione, che regalò al mito antieroi capaci di trascendere i confini del mito stesso, per dirla come John Ford ne L'uomo che uccise Liberty Valance.
"Nel West, quando la verità incontra la leggenda, vince la leggenda."
E che leggenda sia, diamine.
"I shot a man in Reno, just to watch him die"
MrFord
Ammetto - e sono colpevole, vostro onore -, che anni e anni fa, quando questa barca non c'era neppure immaginandola ed io ero giovane, di aver visto per la prima volta Heat pensando "chepppalle, non succede nulla per tre quarti di film!": beata, stolta gioventù!
Ora, ogni volta che mi regalo, in un pomeriggio o in una notte estiva, l'ennesima visione di quello che, a tutti gli effetti, è il capolavoro del buon vecchio Michael, penso esattamente che in quei primi tre quarti di film succede proprio tutto.
Ed è così anche per Nemico pubblico.
Ok, ammetto che Depp non ha offerto il meglio del suo repertorio, ma pare proprio che ultimamente si sia un pò troppo seduto sui suoi standard, il ragazzo; eppure questa pellicola dalla tecnica come sempre - Mann è una garanzia - sopraffina offre tutto il meglio delle atmosfere romantiche e crepuscolari dei grandi classici del western, e trova, compresa la chiusa quasi in silenzio dopo il roboante finale, la sua realizzazione migliore proprio in quelle che, ad un'occhiata distratta, potrebbero essere definite le sue sequenze "inutili" o fredde, per l'appunto.
L'evasione che apre la pellicola - che contende all'apertura di Bastardi senza gloria il titolo di miglior scena western post Gli spietati -, l'uccisione di Pretty Boy Floyd da parte di Melvin Purvis - da scuola del Cinema quanto poco basti a Mann per definire non uno, bensì due dico due personaggi, e dare spessore a quello, fra loro, che compare solo ed esclusivamente nella suddetta scena -, la dichiarazione d'amore di John Dillinger a Billie Frechette - inesorabilmente romantica nella sua impossibilità di realizzarsi -, quel "bye bye, blackbird" sussurrato come un testamento dalla maschera che si direbbe di granito del "texano dagli occhi di ghiaccio" tra i responsabili dell'omicidio di Dillinger stesso sono poesie tradotte in immagini dall'assoluto maestro dell'action movie made in Usa.
E poco conta se la Storia volle morto prima Dillinger di Floyd, o se Purvis stesso si sia effettivamente tolto la vita, anni e anni dopo i fatti narrati: Mann riscrive il western filtrandolo attraverso un'epoca, quella della Grande Depressione, che regalò al mito antieroi capaci di trascendere i confini del mito stesso, per dirla come John Ford ne L'uomo che uccise Liberty Valance.
"Nel West, quando la verità incontra la leggenda, vince la leggenda."
E che leggenda sia, diamine.
"I shot a man in Reno, just to watch him die"
MrFord
mercoledì 24 marzo 2010
Gran Torino
Difficile immaginare di iniziare da un altro film.
La mia personale pellicola dell'anno 2009 altro non è che la più significativa, testamentaria, matura e potente opera del grande Clint che, in tutta semplicità e partendo da una sceneggiatura che in altre mani non sarebbe stata niente di memorabile, trasforma un piccolo progetto in un lavoro immenso, capace - ma davvero c'erano dubbi? - di definirlo una volta per tutte il John Ford della nostra generazione.
Walt e la sua crescita, senza limite di età, volontà, amore per la vita - e non per la morte, come inizialmente pare suggerire l'intera vicenda - divengono un messaggio universale ed una sorta di omaggio all'esistenza di tanti uomini "qualunque", che formano una famiglia e si spaccano la schiena fino a trovarsi vecchi, un giorno, lasciando che whisky e birra accompagnino le solitudini e i rimpianti in un sonno che sia almeno apparentemente profondo.
Un'opera completa, che riassume gli anni più "reazionari" dello straniero senza nome e i fantasmi di William Munny - e ci sarà modo e tempo di parlare anche di loro; da queste parti Clint è il più grande regista statunitense degli ultimi trent'anni - e li scinde con la svolta cinica di Mystic river, l'umanità di Million dollar baby e il classicismo del dittico Flags of our fathers/Letters from Iwo Jima: libera e potente, capace di sfoderare il miglior linguaggio e le virtù dei "veri uomini" senza aver timore di commuovere o essere anche solo lontanamente volgare, e che, semplicemente, porta un insegnamento senza alcuna supponenza, arrivando a toccare vette che di fronte a quasi ogni altra macchina da presa sarebbero state pane per la retorica.
In poche parole, Gran Torino spacca i culi. Ma davvero.
E non provate a guardarlo senza avere un whisky accanto. Di quelli buoni, però. Roba da non lesinare sul prezzo. E gustatevelo un sorso per volta, a fondo.
Perchè di fronte avete uno di quei film che sono destinati a lasciare un segno indelebile nella storia della settima arte. E non si tratta di tecnica, movimenti di macchina, direzione degli attori.
Quelli, per uno come Clint, sono pane quotidiano, anche e soprattutto quando non si vedono.
Qui si parla di roba grossa, come il ruolo che tutti i padri, e i mentori - naturali, ideali, artistici, lavorativi, mettete un pò quello che volete - dovrebbero ricoprire nei confronti dei loro figli - naturali, ideali, artistici, lavorativi, vale la stessa regola -.
La medaglia appuntata sulla t-shirt di Thao è un'eredità che va oltre ogni Gran Torino, oltre ogni guerra e barriera socioculturale.
E' il segno di una crescita che porta alla dignità dell'essere Uomini. Con la U maiuscola.
E, almeno per quello che possiamo conoscere di lui dal grande schermo e dalle sue opere, Clint lo è incodizionatamente.
E la U di Gran Torino ha proporzioni colossali.
Non ci sono cazzi che tengano.
MrFord
La mia personale pellicola dell'anno 2009 altro non è che la più significativa, testamentaria, matura e potente opera del grande Clint che, in tutta semplicità e partendo da una sceneggiatura che in altre mani non sarebbe stata niente di memorabile, trasforma un piccolo progetto in un lavoro immenso, capace - ma davvero c'erano dubbi? - di definirlo una volta per tutte il John Ford della nostra generazione.
Walt e la sua crescita, senza limite di età, volontà, amore per la vita - e non per la morte, come inizialmente pare suggerire l'intera vicenda - divengono un messaggio universale ed una sorta di omaggio all'esistenza di tanti uomini "qualunque", che formano una famiglia e si spaccano la schiena fino a trovarsi vecchi, un giorno, lasciando che whisky e birra accompagnino le solitudini e i rimpianti in un sonno che sia almeno apparentemente profondo.
Un'opera completa, che riassume gli anni più "reazionari" dello straniero senza nome e i fantasmi di William Munny - e ci sarà modo e tempo di parlare anche di loro; da queste parti Clint è il più grande regista statunitense degli ultimi trent'anni - e li scinde con la svolta cinica di Mystic river, l'umanità di Million dollar baby e il classicismo del dittico Flags of our fathers/Letters from Iwo Jima: libera e potente, capace di sfoderare il miglior linguaggio e le virtù dei "veri uomini" senza aver timore di commuovere o essere anche solo lontanamente volgare, e che, semplicemente, porta un insegnamento senza alcuna supponenza, arrivando a toccare vette che di fronte a quasi ogni altra macchina da presa sarebbero state pane per la retorica.
In poche parole, Gran Torino spacca i culi. Ma davvero.
E non provate a guardarlo senza avere un whisky accanto. Di quelli buoni, però. Roba da non lesinare sul prezzo. E gustatevelo un sorso per volta, a fondo.
Perchè di fronte avete uno di quei film che sono destinati a lasciare un segno indelebile nella storia della settima arte. E non si tratta di tecnica, movimenti di macchina, direzione degli attori.
Quelli, per uno come Clint, sono pane quotidiano, anche e soprattutto quando non si vedono.
Qui si parla di roba grossa, come il ruolo che tutti i padri, e i mentori - naturali, ideali, artistici, lavorativi, mettete un pò quello che volete - dovrebbero ricoprire nei confronti dei loro figli - naturali, ideali, artistici, lavorativi, vale la stessa regola -.
La medaglia appuntata sulla t-shirt di Thao è un'eredità che va oltre ogni Gran Torino, oltre ogni guerra e barriera socioculturale.
E' il segno di una crescita che porta alla dignità dell'essere Uomini. Con la U maiuscola.
E, almeno per quello che possiamo conoscere di lui dal grande schermo e dalle sue opere, Clint lo è incodizionatamente.
E la U di Gran Torino ha proporzioni colossali.
Non ci sono cazzi che tengano.
MrFord
martedì 23 marzo 2010
Primo goccio
E finalmente la nave è salpata.
La rotta non è praticamente per nulla definita, se non nell'idea di filtrare attraverso il Cinema (e non solo) quelle che sono le mie idee, esperienze, chiacchierate del momento.
Ora come ora, navigando tranquillo in un piccolo oceano di Jagermaister penso al film che ha ispirato il titolo di questo blog - e no, per una volta non è il cocktail -, a Lansdale e alla sua straordinaria capacità di narratore, ai confronti fra i "suoi" Hap e Leonard e a quanto mi ricordino Gran Torino, a Don't stop believin' che dovrebbe essere inserita in Guitar Hero e al suo destino legato a doppio filo alle serie tv, dallo splendido finale de I Soprano al pilota di Glee. E anche a Preacher, Johnny Cash con il suo Ain't no grave e all'imminente Wrestlemania. C'è davvero di tutto.
Perchè è bello, e confortante - oltre al fatto che il Drugo sia in giro - cimentarsi e godere dell'esperienza, e vivere il più a fondo possibile tutti questi piaceri e portarli dentro i nostri giorni "comuni" che comuni non sono.
Ad ogni modo, mi impegnerò a condurre la nave nei porti del Cinema, e da quelli mi muoverò per continuare a cercare nuove, simpatiche distrazioni che possano allietare la ciurma durante le tempeste o nei momenti di calma piatta.
Confido che non ci siano ammutinamenti - o non più di tanti - e che si possa viaggiare fianco a fianco almeno per un tratto.
Ain't no grave gonna hold my body down
MrFord
La rotta non è praticamente per nulla definita, se non nell'idea di filtrare attraverso il Cinema (e non solo) quelle che sono le mie idee, esperienze, chiacchierate del momento.
Ora come ora, navigando tranquillo in un piccolo oceano di Jagermaister penso al film che ha ispirato il titolo di questo blog - e no, per una volta non è il cocktail -, a Lansdale e alla sua straordinaria capacità di narratore, ai confronti fra i "suoi" Hap e Leonard e a quanto mi ricordino Gran Torino, a Don't stop believin' che dovrebbe essere inserita in Guitar Hero e al suo destino legato a doppio filo alle serie tv, dallo splendido finale de I Soprano al pilota di Glee. E anche a Preacher, Johnny Cash con il suo Ain't no grave e all'imminente Wrestlemania. C'è davvero di tutto.
Perchè è bello, e confortante - oltre al fatto che il Drugo sia in giro - cimentarsi e godere dell'esperienza, e vivere il più a fondo possibile tutti questi piaceri e portarli dentro i nostri giorni "comuni" che comuni non sono.
Ad ogni modo, mi impegnerò a condurre la nave nei porti del Cinema, e da quelli mi muoverò per continuare a cercare nuove, simpatiche distrazioni che possano allietare la ciurma durante le tempeste o nei momenti di calma piatta.
Confido che non ci siano ammutinamenti - o non più di tanti - e che si possa viaggiare fianco a fianco almeno per un tratto.
Ain't no grave gonna hold my body down
MrFord